venerdì, ottobre 21

Prosopopea di Pericle alla santità di Pio VI

PROSOPOPEA DI PERICLE
ALLA SANTITÀ DI PIO VI
Io de' forti Cecropidi
nell'inclita famiglia
d'Atene un dì non ultimo
splendor e maraviglia,
a riveder io Pericle
ritorno il ciel latino,
trionfator de' barbari,
del tempo e del destino.
In grembo al suol di Catilo            
(funesta rimembranza!)
mi seppellì del Vandalo
la rabbia e l'ignoranza.
Ne ricercaro i posteri
gelosi il loco e l'orme,
e il fato incerto piansero
di mie perdute forme.
Roma di me sollecita
sen dolse, e a' figli sui
narrò l'infando eccidio
ove ravvolto io fui.
Carca d'alto rammarico
sen dolse l'infelice
del marmo freddo e ruvido                  
bell'arte animatrice;
e d'Adriano e Cassio,
sparsa le belle chiome,
fra gl'insepolti ruderi
m'andò chiamando a nome.
Ma invan; ché occulto e memore
del già sofferto scorno,
temei novella ingiuria,
ed ebbi orror del giorno.
Ed aspettai benefica
etade in cui sicuro
levar la fronte, e l'etere
fruir tranquillo e puro.
Al mio desir propizia
l'età bramata uscìo,
e tu sul sacro Tevere
la conducesti, o Pio.
Per lei già l'altre caddero
men luminose e conte,
perché di Pio non ebbero
l'augusto nome in fronte.              
Per lei di greco artefice
le belle opre felici
van del furor de' secoli
e dell'obblio vittrici.
Vedi dal suolo emergere
ancor parlanti e vive
di Periandro e Antistene
le sculte forme argive.
Da rotte glebe incognite
qua mira uscir Biante,
ed ostentar l'intrepido
disprezzator sembiante:
là sollevarsi d'Eschine
la testa ardita e balda,
che col rival Demostene
alla tenzon si scalda.
Forse restar doveami
fra tanti io sol celato,
e miglior tempo attendere
dall'ordine del Fato?
Io, che d'età sì fulgida
più ch'altri assai son degno?
io della man di Fidia
lavoro e dell'ingegno?
Qui la fedele Aspasia
consorte a me diletta,
donna del cor di Pericle,
al fianco suo m'aspetta.
Fra mille volti argolici
dimessa ella qui siede,
e par che afflitta lagnisi,
che il volto mio non vede.
Ma ben vedrallo: immemore
non son del prisco ardore:
Amor lo desta, e serbalo
dopo la tomba Amore.
Dunque a colei ritornano
i Fati ad accoppiarmi,
per cui di Samo e Carnia
ruppi l'orgoglio e l'armi?
Dunque spiranti e lucide
mi scorgerò dintorno
di tanti eroi le immagini
che furo Elleni un giorno?
Tardi nepoti e secoli,
che dopo Pio verrete,
quando lo sguardo attonito
indietro volgerete,
oh come fia che ignobile
allor vi sembri e mesta
la bella età di Pericle
al paragon di questa!
Eppur d'Atene i portici,
i templi e l'ardue mura
non mai più belli apparvero
che quando io l'ebbi in cura.
Per me nitenti e morbidi
sotto la man de' fabri
volto e vigor prendevano
i massi informi e scabri.
Ubbidiente e docile
il bronzo ricevea
i capei crespi e tremoli
di qualche ninfa o dea.
Al cenno mio le parie
montagne i fianchi apriro,
e dalle rotte viscere
le gran colonne usciro.
Si lamentaro i tessali
alpestri gioghi anch'essi
impoveriti e vedovi
di pini e di cipressi.
Il fragor dell'incudini,
de' carri il cigolio,
de' marmi offesi il gemere
per tutto allor s'udio.
Il cielo arrise: Industria
corse le vie d'Atene,
e n'ebbe Sparta invidia
dalle propinque arene.
Ma che giovò? Dimentici
della mia patria i Numi,
di Roma alfin prescelsero
gli altari ed i costumi.
Grecia fu vinta, e videsi
di Grecia la ruina
render superba e splendida
la povertà latina.
Pianser deserte e squallide
allor le spiagge achive,
e le bell'Arti corsero
del Tebro su le rive.
Qui poser franche e libere
il fuggitivo piede,
e accolte si compiacquero
della cangiata sede.
Ed or fastose obbliano
l'onta del goto orrore,
or che il gran Pio le vendica
del vilipeso onore.
Vivi, o signor. Tardissimo
al mondo il Ciel ti furi,
e coll'amor de' popoli
il viver tuo misuri.
Spirto profan, dell'Erebo
all'ombre avvezzo io sono;
ma i voti miei non temono
la luce del tuo trono.
Anche del greco Elisio
nel disprezzato regno
v'è qualche illustre spirito,
che d'adorarti è degno.

Giovanni Prati

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