POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

martedì, ottobre 29

MILITARIZZAZIONI DI POLVERE NEL SAHEL di Padre MAURO ARMANINO

Scorcio del cimitero di Niamey -Niger

Militarizzazioni di polvere nel Sahel

Le cronache quotidiane di attualità assomigliano in modo palese a bollettini di guerra. Per un fenomeno assai conosciuto di assuefazione ciò diventa come parte dello scenario decorativo delle notizie. Si scivola in ciò che c’è di più terribile nella vita e cioè la ‘normalizzazione’ della violenza armata come unico sistema di risoluzione dei conflitti tra cittadini, classi sociali, Paesi, religioni, culture e interessi. Ad ognuno la sua guerra verrebbe da dire. Uno dei segnali inequivocabili di questo fenomeno è rappresentato dalla crescita delle spese militari in tutti i Paesi che se lo possono permettere. Dopo una leggera contrazione delle spese in seguito alla fine della guerra fredda e la provvisoria scomparsa dell’Unione Sovietica, ci si è accorti che rimanere senza nemici era ancora più difficile che averne uno. La guerra globale al terrorismo, l’asse del male, gli stati canaglia e soprattutto la ri-militarizzazione giustificata da questa guerra infinita, hanno implicato l’ennesima corsa ad armarsi di più, meglio e soprattutto prima del nemico. Quest’ultimo, come noto, è ovunque e soprattutto là dove si desidera fabbricarlo. Armi, guerra e paura sono ottimi ingredienti per rilanciare l’economia, controllare i movimenti ‘pericolosi’ e giustificarsi al potere per decenni.

La guerra nel Nord del mondo, il civilissimo Occidente, la guerra infame del Medio Oriente, le guerre nel continente africano, talvolta lontane dagli sguardi indiscreti dei mezzi di comunicazione e la guerra nel Sahel che affonda le sue radici più prossime alla distruzione voluta della Libia, nel 2011. Da questo Paese, in quel momento con un sistema sanitario, educativo, agricolo ed economico tra i più apprezzati in Africa, sono state esportate armi, rabbia e gruppi armati ben formati da anni di addestramento. Altre cause furono concomitanti e però non slegabili da quanto accaduto prima in Irak, Afganistan, Siria e altrove. Gruppi armati finanziati da chi aveva interessi di farlo si sono gradualmente installati nella zona del lago Tchad et la parte occidentale del Sahel. Antiche rivendicazioni autonomiste, l’arrivo di gruppi formati da ideologie salafiste esportate dall’Arabia Saudita, il Katar e altre entità affiliate, malesseri locali e divisioni latenti, hanno creato una miscela che si è rivelata ‘esplosiva’. Anche perché interessi ideologici, religiosi, politici, commerciali e di potere hanno trovato un terreno propizio nell’assenza dello stato, la crisi economica e lo smantellamento delle strutture culturali di gestione dei conflitti. Il senso di frustrazione di gruppi etnici e di giovani hanno organizzato il resto. 

Sono nati così, strada facendo, l’operazione Serval della Francia poi sostituita dall’operazione Barkhane e fiancheggiata in seguito dalla Cedeao, le Nazioni Unite e l’Unione Europea. La conseguenza di questa saturazione di armi, soldi, militari, interessi divergenti sono stati la moltiplicazione dei gruppi armati e delle economie di guerra. Soldi e guerre vanno bene assieme. Nel mezzo di tutto ciò la gente, i civili, il popolo che, abituato a lottare per la propria quotidiana sopravvivenza, si è visto accerchiato, minacciato ed espropriato del futuro. E fu così che i militari, in considerazione del peso economico e politico accresciuto in questi ultimi anni, hanno avuto buon gioco nell’installarsi al potere. Non senza la promessa di proteggere i cittadini e liberare una volta per tutte i Paesi dalle forze oscure del male che affliggono la vita politica e sociale di tutti e gli interessi di ciò che contano. Non sappiamo il futuro ma il contesto porta a credere che questo processo non sarà così rapido ed efficace. La conseguenza più palpabile nella vita quotidiana nelle città è la presenza visibile, palpabile della militarizzazione della vita sociale. I manifesti, la retorica del linguaggio.

‘Parole come combattimento, liberazione, mobilitazione popolare cittadina, impegno patriottico, dignità, sovranità non negoziabile, indipendenza totale...la patria o la morte’... la presenza di militari armati e no, in ospedali, aeroporto, strade e controllo del traffico, hanno militarizzato la vita politica e civile della Regione. Per fortuna, con l’arrivo prossimo del vento del deserto chiamato ‘Harmattan’, anche la militarizzazione, come tutto del resto nel Sahel, è di polvere.                                                                  Mauro Armanino, Niamey, ottobre 2024                                                                                                               

giovedì, ottobre 24

SCONFINAMENTI di Padre MAURO ARMANINO

Sconfinamenti




1) A partire dal suo piano esperienziale "sul campo" quali elementi rilevanti coglie del rapporto tra giustizia sociale e giustizia climatica?

Ho vissuto buona parte della mia vita In ciò che si chiama il ‘Sud’ del mondo e in particolare in Africa Occidentale. Costa d’Avorio, Liberia e Niger da 13 anni. In particolare, in quest’ultimo Paese, nel quale mi trovo attualmente, opero in ambito delle migrazioni internazionali. Le migrazioni sono un ‘punto di osservazione’ unico se vogliamo tentare di capire cosa significhi ‘giustizia sociale’. In effetti il fenomeno migratorio può essere visto come uno ‘specchio’ del nostro mondo. Il modo con cui sono interpretate, gestite e ‘’criminalizzate’ le migrazioni rivelano il tipo di mondo e società nel quale ci troviamo. Disuguaglianze economiche, esclusioni, immaginari sociali e incapacità degli stati a dare concrete offerte di futuro ai giovani sono forme di violenza. Le migrazioni rappresentano uno dei tentativi di risposta alla ‘sparizione’ programmata di migliaia di giovani. La risposta, in genere violenta, alla mobilità umana, dice molto sul tipo di sistema di esclusione che si perpetua nella società. La giustizia implica ‘dare a ciascuno ciò che gli spetta’ in quanto persona relazionale chiamata a realizzare in pienezza la propria esistenza. C’è il diritto di rimanere, di partire, di lasciare il proprio paese e tornarvi senza che questo processo si trasformi in un viaggio ‘verso la morte’ nel deserto, il mare o le frontiere diventate muri.

Quanto alla ‘giustizia climatica’ vedo più complicato definirne i contorni. Nel Sahel, dove mi trovo, i cambiamenti climatici non datano da oggi. Periodi di siccità, talvolta drammaticamente lunghi, sembrano alternarsi a pioggie la cui entità sembra inedita. Sono vari i fattori che interagiscono sulla ‘giustizia climatica’. Tra questi la demografia, la crisi economica, l’assenza marcata dello Stato, l’insicurezza alimentare e la violenza armata di vari gruppi di affiliazione islamica. Altri gruppi rilevano maggiormente del banditismo che canalizza a proprio beneficio le risorse minerarie, droga e armi. Ciò contribuisce a produrre massicci spostamenti di popolazioni, che accentua la crisi ecologica. Soprattutto l’aspetto relazionale sembra il settore maggiormente colpito dal fenomeno citato. Crescono le manipolazioni identitarie, populiste e sovraniste che corrodono la coesione sociale. Ogni tentativo di cambiamento è ‘minato’ dalle divisioni etniche, religiose e politiche.

2) Quali responsabilità abbiamo? Perché ci riguarda?

L’Occidente porta una grande responsabilità sul tipo di mondo che abitiamo e il sistema che lo regge. In effetti il neoliberalismo capitalista non è solo un sistema economico quanto un’interpretazione della realtà. Quando tutto e tutti diventano ‘mercanzia’, e cioè oggetto che ha un prezzo di vendita sul mercato, capiamo perché lo sfruttamento di beni e persone non ha limiti. Se il solo parametro è il profitto nel tempo più rapido, la conseguenza non può che essere una guerra permanente di tutti contro tutti. Proprio come nella giungla, la sola legge che vige è quella del più forte ed è così che il mondo è fondamentalmente governato da poche migliaia di persone che costituiscono l’élite finanziaria del pianeta terra. La stessa politica sarà asservita a questo tipo di progetto economico e societario. Saranno gli interessi della piccola classe dominante a prevalere sull’interesse comune. Il capitalismo è nato e prosperato in Occidente ed è stato ‘esportato’ dappertutto dalla conquista dell’America fino all’epoca delle colonizzazioni per passare dal fenomeno della tratta degli schiavi. La natura, le relazioni umani, il senso stesso della vita hanno sofferto una terribile divisione. Da un lato un progetto di vita, di comunione, di armonia e di ‘ buen vivir’ (vivere bene) e dall’altro un progetto di morte dovuto all’appiattimento delle persone e del destino ad una sola dimensione, quella del profitto. Ogni tentativo di risanare il mondo, l’ecologia, l’economia ‘green’, l’uguaglianza e la giustizia che non contemplino la messa in discussione radicale del sistema capitalista è destinato a fallire. Solo nuovi stili di vita e di economia, basati su una sana politica di ricerca del bene comune e la contestazione delle spese militari e delle guerre come ‘distruzione creativa’ potrà sperare di dare futuro al futuro.
 

3) Dal suo "punto di osservazione" che percezione ha delle consapevolezze (o meno) dell'Occidente?

Dall’osservatorio di ‘sabbia’ del Sahel, rilevo tre tipi di naufragio dell’Occidente. Il primo si trova nello ‘sguardo’. In effetti, malgrado le critiche, i lavori degli antropologi e i cambiamenti occorsi nell’interpretazione delle culture, lo sguardo dell’Occidente sulle Afriche, e più in genere sul ‘Sud’ del mondo, non riesce a liberarsi dal passato ‘coloniale’. Uno sguardo, quello occidentale, che continua a presumersi unico e dunque in grado di giudicare, dal ‘suo’ centro e punto di vista ogni differenza in fondo intesa come inferiorità rispetto al modello unico europeo. 
Forse non si è capito ancora che anche gli africani hanno smesso di parlare con la bocca degli altri e di guardare con gli occhi degli altri. Hanno scelto di usare la propria bocca e i propri occhi per raccontarsi. L’incapacità di mettersi all’ascolto dell’altro è proprio ciò che ha costituito il secondo naufragio dell’Occidente. L’arroganza del potere della tecnica, dell’economia e, non dimentichiamo, delle armi, ha creato la temibile malattia della sordità europea che parla di se stessa e a se stessa senza mai uscire da se stessa. In tutti questi anni di progetti di sviluppo, assistenze umanitarie e accordi bilaterali il grande assente è stato l’ascolto attento e umile di chi avrebbe potuto salvare l’Europa da se stessa.
Infine, alla radice dei naufragi giace il grande tradimento che avrebbe comportato lo smarrimento del pensiero e dell’etica ad esso conseguente. Si tratta della drammatica separazione della spiritualità dalla vita quotidiana, la mutilazione non casuale di ogni interiorità, la perdita del sacro, dell’anima e di quanto costituisce la dignità della persona. L’espropriazione di questa dimensione essenziale è stata l’opera fondamentale del capitalismo che il neoliberismo continua a completare. Le Afriche non accetteranno facilmente di essere svenduti alle ideologie dominanti nell’Occidente etico. Per chi ‘ogni giorno in più è una vita’ non è credibile che il cambiamento di sesso dei bimbi o le bandiere arcobaleno LGBT siano una priorità.
                        
                                   Mauro Armanino, ottobre 2024

mercoledì, ottobre 23

Maria Chiara - intervista sul palco al Concorso Internazionale di Canto ...

Maria Chiara -"Senza mamma" Suor Angelica (Puccini)

MARIA CHIARA CANTANTE LIRICA

 


La cantante veneta vive a Piavon, una piccola frazione di Oderzo in provincia di Treviso – Abbandonò la carriera nel 1993, a soli 52 anni, addolorata per la morte del marito – E’ stata una delle più grandi interpreti della seconda metà del secolo Ventesimo – Una vita umile e riservata, ma fantastica come una favola
24 novembre, compleanno di Maria Chiara, grande e straordinaria cantante lirica.
A cercare nei libri di musica, nelle enciclopedie della lirica, nei dizionari delle recensioni discografiche, si trovano poche notizie di lei. Anche gli archivi dei giornali sono avari nei suoi confronti. Eppure, Maria Chiara, soprano lirico spinto, è stata una delle più grandi interpreti a livello internazionale della seconda metà del secolo ventesimo.
 E’ un giudizio che a qualcuno potrebbe apparire esagerato. Proprio perché di questa artista si è sempre parlato poco. Ma è un giudizio concretamente oggettivo. Voce bella, potente, appassionata, brunita; presenza elegante, flessuosa, gesto misurato: Maria Chiara resta una protagonista di grande rilievo nella storia del teatro lirico. Ma è stata anche sempre l’emblema dell’umiltà, della riservatezza, e per questo mai oggetto di eccessivo interesse da parte dei media.
Il suo eccezionale valore artistico è documentato dagli appassionati e dagli intenditori musicali.
I critici tedeschi l’avevano battezzata “Belcanto fest”; “gli americani la chiamavano “Maria senza artigli” volendo dire che era brava come la Callas senza avere la “cattiveria” della greca. Anche in Italia il giudizio critico è sempre stato coralmente positivo, entusiasta. La chiamavano “La seconda Tebaldi”. Il più noto e celebrato critico di musica lirica italiano, Rodolfo Celletti, terrore di tutti i cantanti per la sua severità e i suoi giudizi al vetriolo, si è inginocchiato anche lui davanti a Maria Chiara. Recensendo l’incisione di una “Madama Butterfly” del 1971, diretta da Giuseppe Patané, con l’orchestra e il coro della radio bavarese, dopo avere impietosamente stroncato tutti, scrisse: “Ed è Maria Chiara a dominare la situazione con una voce limpida, delicata, fresca, tenerissima”. Quattro aggettivi esaltanti, che Celletti, avarissimo di complimenti, non ha mai usato per nessuno, neppure per Maria Callas.
Personaggio unico nel suo genere, inimitabile anche nella sua decisione di chiudere la carriera: lo fece nel 1993, a soli 52 anni, quando era nel fulgore della forma vocale e fisica. E lo fece per amore.
 

<<Avevo perduto mio marito>>, mi disse in una intervista <<Era stato tutto per me. Non me la sentivo di continuare ad andare in giro per i teatri senza di lui. E ho smesso>>.
Il marito si chiamava Antonio Cassinelli. Apparteneva a una famiglia della borghesia bolognese. Da giovane era stato un pilota di auto da corsa. Aveva poi intrapreso la carriera lirica. Dotato di una elegante voce di basso aveva fatto una splendida carriera. Maria lo aveva conosciuto subito dopo aver conseguito il diploma al Conservatorio. Si erano innamorati e si erano sposati. Vissero inseparabili. Una coppia invidiata da tutti. Antonio, provetto musicista ed esperto dei problemi teatrali, si prendeva cura di Maria. Costruirono insieme una carriera favolosa e una vita privata inimitabile.
Quando Antonio morì nel luglio del 1993, Maria non ebbe esitazioni: lasciò la carriera di colpo. Si ritirò al paesello natale, Piavon, frazione di Oderzo, in provincia di Treviso. Lì è nata e lì vive serena, stimata da tutti, riverita come una regina, conservando la cordialità, l’eleganza, l’armonia, la riservatezza che la caratterizzava anche sotto i riflettori dei trionfi.
Una donna eccezionale. Una storia, la sua, che sembra una favola.
Figlia di poveri contadini, quarta di dieci fratelli, non aveva alcuna possibilità di poter sperare di diventare un giorno una cantante lirica. Ma la bellezza della sua voce, irresistibile anche quando Maria era una bambina, ha compiuto l’impossibile. A dieci anni faceva da mamma ai suoi fratellini più piccoli. E, la sera, per addormentarli, cantava loro delle canzoni, delle romanze. Cantava con tale trasporto e fascino che la gente, passando per la via, si fermava ad ascoltarla. Attirò l’attenzione dell’organista del paese che ne parlò al parroco. Questi, insieme ad altri notabili della zona, riuscì a convincere il papà di Maria a far studiare la figlia. Problema immane per un contadino con dieci figli da mantenere. Ma egli si rese conto che quella ragazzina aveva ricevuto un dono eccezionale e si sottopose volentieri a sacrifici enormi per aiutarla.
 

Maria studiò dapprima sotto la guida dell’organista di Piavon e poi venne mandata al Conservatorio di Venezia.
Del Conservatorio ha un ricordo bellissimo e ne parla con un radioso sorriso che le illumina il volto.
<<Ricordo con molta simpatia gli anni di Conservatorio>>, racconta. <<Cinque anni a Venezia, vissuti in un Istituto di suore, perché non potevo permettermi di alloggiare in un albergo o in una pensione.
<<Eravamo un gruppo di studenti affiatato. Alcuni sono diventati poi personaggi famosi. Katia Ricciarelli, per esempio. Rosetta Pizzo, soprano; Lucia Valentini Terrani, contralto che ha fatto una grande carriera; Francesco Signor, basso, che ha sposato Rosetta Pizzo; Maria Luisa Nave, mezzosoprano; Piero Bottazzo, tenore; Giorgio Casellato Lamberti, tenore. C’era una certa Nicoletta Strambelli che studiava pianoforte e canto e che poi è diventata celebre nella musica leggera con il nome di Patty Pravo. C’era Pino Donaggio, violinista, anche lui diventato famoso nella musica leggera prima e poi come autore di colonne sonore di film. In questo settore è oggi una celebrità e vive a Los Angeles. Alla lezione di canto ci trovavamo tutti insieme.
<<Finito il Conservatorio ebbi un formidabile colpo di fortuna. A Venezia avevano allestito una edizione straordinaria di “Otello”, nel cortile del Palazzo Ducale. Un palcoscenico da sogno e c’era una grandissima attesa. Regista, Herbert Graf; direttore, Nino Sanzogno; protagonista, Mario Del Monaco che era l’Otello per eccellenza e accanto a lui la splendida Marcella Pobbe e Tito Gobbi. Si trattò di un evento musicale che richiamò appassionati di lirica da tutto il mondo. E non so per quale ragione, mi offrirono le due ultime recite. Una manna. E data la pubblicità che l’opera aveva avuto, tutti gli occhi erano puntati di su me, sconosciuta debuttante. Ebbi successo, un successo grande, che mi portò a diventare subito famosa. Cominciai così, senza fatica, a lavorare nei più importanti teatri internazionali>>.

Una carriera, la sua, durata 27 anni. Una quarantina di opera in repertorio, undici di Verdi. Presenze continue in tutti i più grandi teatri. Incisioni discografiche, video.
E tanti successi.
<<Per fortuna, il pubblico mi ha sempre voluto molto bene>>, dice. << Ricordo con grande emozione una “Traviata” a Colonia al termine della quale ebbi 46 chiamate al proscenio; un’altra “Traviata” al San Carlo di Napoli con Alfredo Kraus e Renato Bruson: dopo “Amami Alfredo” ebbi dodici minuti di applausi e poi dovetti fare il bis. A Budapest, una serata di gala, dopo l’”Ave Maria” nell’”Otello”, il pubblico balzò in piedi e non finiva di applaudire. Il regista, nel tentativo di placare l’entusiasmo e poter riprendere lo spettacolo, fece spegnere tutte le luci del palcoscenico lasciando il teatro al buio completo. Tre volte dovette ricorrere a questo stratagemma e, finalmente, dopo venti minuti, fu possibile riprendere la recita>>.
I ricordi si fermano al 1993, quando prese la grande decisione di chiudere con il teatro. Da allora vive a Piavon, in una villa che porta il suo nome: “Villa Chiara”. Una grande villa moderna, su tre piani. Arredata con gusto, piena di quadri, di fotografie, di soprammobili che ricordano gli innumerevoli viaggi in giro per il mondo. Tutto tenuto in ordine perfetto.

 

<<Quando decisi di smettere con la carriera, gli amici mi dicevano che era una scelta sbagliata, che lontano dal teatro mi sarei sentita infelice. Invece non sono mai stata così serena e distesa. Qui a Piavon abitano alcuni dei miei fratelli, che sono sposati ed hanno la loro famiglia. Sono perciò attorniata da familiari. Insomma, ho lasciato il teatro e mi sono reinserita nella vita normale, la più semplice e anonima. A volte guardo le vecchie fotografie di scena, e stento a riconoscermi in quella donna con quegli strani costumi addosso. Maria Chiara cantante è una persona che quasi non conosco>>.
Renzo Allegri

lunedì, ottobre 21

GLI OSTAGGI DEL SAHEL di Padre MAURO ARMANINO

Gli ostaggi del Sahel

Pierluigi Maccalli, detenuto come ostaggio da gruppi di ispirazione salafista per oltre due anni, è tornato nel Niger, luogo del suo rapimento, per qualche giorno. Il ritorno al Paese è caduto alla stessa data d’inizio della prigionia nella savana del Burkina Faso prima e nell’immenso deserto del Sahara poi. L’inizio e la fine. Tra questi simbolici momenti, due anni di cattività in solitudine, con tanto di catene durante le lunghe notti stellate del deserto. Pierluigi è da allora molto attento agli sviluppi delle trattative per altri ostaggi come lui, detenuti nel Sahel e altrove. Le sue sono state catene di libertà perché lo hanno trasformato in ostaggio della pace, delle parole e delle mani disarmate. 

Accade però, per chi non ha avuto lo stesso drammatico privilegio dell’amico e confratello citato, che si viva come ostaggi senza saperlo o volerlo. Oppure può succedere che si preferisca vivere da ostaggi per non rischiare quanto di più pericoloso c’è nella vita e cioè la libertà. Pierluigi vedeva, sentiva, soffriva le catene ai piedi. Per circa un mese è stato incatenato notte e giorno ad una catena lunga un metro e venti centimetri. Solo i cani, forse, possono capire cosa ciò significhi per una persona abituata a muoversi, viaggiare e decidere dove andare. C’è chi non si accorge di essere incatenato, proprio come lo è stato Pierluigi, e si accontenta del cibo che gli viene elargito nel quotidiano.

Ci sono gli ostaggi della miseria, creata, riprodotta, accettata come ineluttabile e talvolta mantenuta perché così sembra funzionare il mondo da che è mondo. C’è chi nasce per vivere da schiavo, rassegnato al proprio destino scritto sul libro di sabbia e chi invece può permettersi di decidere il tipo di futuro che avrà lui e i suoi figli. Ostaggi del mondo umanitario che prospera proprio dove più forte risuona il grido degli ostaggi della malattia che uccide più della guerra, chiamata fame. Ostaggi ai quali, spesso, nessuno ha mai detto che quanto scritto sul libro del destino non è che sabbia che il vento disperde. Un altro mondo è possibile quando le catene invisibili sono riconosciute come tali.

Seguono, nel Sahel, questo spazio straordinario di storia, culture, tradizioni, confitti e avventure, gli ostaggi della paura. Paura per l’oggi, l’arrivo possibile dei gruppi armati che dettano legge e morte. Paura per il domani, la semina, i raccolti, i granai, le tasse da pagare per persona, le conversioni forzate, l’arruolamento nella nebulosa jihadista, che mercanteggia religione, oro, droga, armi e gli anni migliori dei giovani. Paura per la delazione che rende tutti sospettosi anche all’interno delle famiglie e dei villaggi nei quali per decenni si è convissuto in relativa armonia e accettazione delle diversità. Poi arrivano le identità fomentate e dunque escludenti, mortali e divisive.

E infine, gli ostaggi forse meno riconoscibili e forse anche per questo assai deleteri. Sono gli ostaggi della menzogna che impera tramite la retorica che svende i mezzi per giustificare il fine. Si associano, appoggiano, giustificano, difendono e si arruolano al pensiero dominante del momento. La politica non serve e i diritti umani sono merce di scambio ideologico perché ciò che conta è il bene del popolo così come un gruppo di ‘illuminati’, spesso armati, decide sia tale. Ostaggi che infiltrano ciò che rimane dei partiti, sindacati, mezzi di comunicazione e persino le medaglie al merito sul campo.

Aveva ragione l’amico Pierluigi. Diceva che possono incatenare i piedi ma non il cuore e lo spirito. Come ricordo del suo tempo di detenzione ha portato con sè un anello della catena. Per ricordare che solo chi ha portato le catene gioca la sua vita per la libertà degli altri.

             Mauro Armanino, Niamey, ottobre 2024 

domenica, ottobre 13

DIMENTICANZE, CENSURE E RESISTENZE NEL SAHEL di Padre MAURO ARMANINO

Dimenticanze, censure e resistenze nel Sahel



Ci sono persone …. Che dicono ‘No’, quando la maggioranza annuisce con rassegnato disinteresse… 

Che alzano la fronte, quando la maggioranza la inclina… 

Che smettono di credere, quando il credo ufficiale si impone sulla maggioranza… (capitano Marcos)

Il tempo, lo sappiamo, fa il lavoro per il quale è stato inventato. Aiuta a ricordare, dimenticare e ricostruire il passato secondo l’interesse del presente. Qui a Niamey, la capitale del Niger, i primi giorni dagli arresti domiciliari del presidente riconosciuto dalla Comunità Internazionale, Mohammed Bazoum, erano tesi e concitati. Sembrava proprio, come molti hanno notato, il colpo di stato di troppo in questo Paese eppure avvezzo a questa maniera per riattivare la vita politica trovatasi in un’impasse. Nel passato era già accaduto che la guardia presidenziale, al servizio della sicurezza del presidente in carica, lo avesse invece liquidato in modo efferato. Accadde all’aeroporto militare di Niamey il 9 aprile del 1999 e sembra che lo stesso comandante della guardia fosse implicato. 

Abbiamo dunque fatto progressi. E’ bastato rinchiudere il presidente e la sua famiglia nella casa presidenziale perché il colpo di stato militare assuma forma e contenuti poi esplicitati. Chi si trovava nel Paese in quei giorni, ricorda il palpabile timore che le truppe della Comunità economica degli stati occidentali, Cedeao, intervengano per liberarlo. Il tempo, lo sappiamo, fa il lavoro per il quale è stato inventato. Ci si è in fetta dimenticati del presidente imprigionato per passare ad altre cose. Vero, in una recente tribuna, firmata da gente di prestigio, è stata chiesta invano la sua immediata liberazione. In generale si vive, nella capitale e fuori, come se l’illustre prigioniero, fosse scomparso, dimenticato. Con lui altre persone arrestate e detenute da allora per qualche legame reale o presunto con lui e affari attinenti alla sua persona. Scese, senza colpo ferire, la dimenticanza su questa vicenda che l’invisibilità mediatica facilita e amplifica. La dimenticanza ha poi contaminato la democrazia, la partecipazione del popolo e soprattutto la cancellazione dei poveri dall’agenda di chi detiene, al momento, il potere.

Ci sono persone ... Che hanno dei principi, quando la maggioranza inventa alibi… 

Che cercano la verità e la giustizia, mentre la maggioranza si perde. 

Che camminano per trovare, quando la maggioranza siede ad aspettare (capitano Marcos)

Figlia adottiva della dimenticanza è dunque la censura. Essa decide ciò, che personalmente, socialmente o politicamente, debba essere ancora ricordato oppure scomparire, inghiottito dal non accaduto. E’ il caso dell’autocensura nei mezzi di comunicazione, in buona parte degli intellettuali di spicco, nei capi religiosi in perpetua questua di potere, soldi e prestigio dovuto alla prossimità col regime. Ma la prima ad essere compita dalla censura è la giustizia che, funzionale ai detentori del potere, metterà in pratica il detto nel quale si afferma che è vero che ‘la giustizia è uguale per tutti’ ma è altrettanto vero che ‘non tutti sono uguali per la legge’. Lo scriveva opportunamente il novellista George Orwell nella sua metafora ‘la fattoria degli animali’. Accanto alla giustizia la censura contaminerà la politica, percepita come inutile, dannosa o quanto meno irrilevante quando c’è di mezzo l’agognata indipendenza e sovranità.

Ci sono persone... Che vegliano, anche se la maggior parte dormono… 

Che si sacrificano, mentre la maggior parte viene amministrata… 

Che si ribellano, quando la maggioranza obbedisce… (Capitano Marcos)

Il tempo, lo sappiamo, fa il lavoro per il quale è stato inventato. Si potrebbe affermare che è un ‘galantuomo’ perché seleziona ciò che si è in grado di ricordare, ciò che è degno di memoria e ciò che invece va posto nel magazzino sottochiave per la sua pericolosità. Ecco perché un autentico resistente riattiva la memoria ‘sovversiva’ di ciò che è stato e che continua ad essere destabilizzante per il sistema. Resistenti si nasce e si diventa allo stesso tempo. Può accadere per le circostanze o per scelta lungamente meditata e educata da anni di esilio dal pensiero dominante. I ‘resistenti’ si riconoscono, appunto, col tempo, solo garante in questo caso della serietà della resistenza. Uno sguardo differente sulla realtà, l’uso attento e oculato delle parole, la profonda libertà di pensiero e di credo quotidiano e, infine, il rifiuto alle lusinghe del potere che solo la prossimità coi poveri può garantire. Questo e altro offrono a questa insostituibile categoria di persone il diritto di parole e di silenzio. Il futuro del mondo passa tutto tra le le loro mani nude.

Ci sono persone... Che pensano in modo critico, mentre la maggior parte consulta il dogma di moda. 

Che lottano perché è il loro dovere, e non per essere parte della maggioranza… 

Che sono solo una crepa, quando la maggior parte si fanno muro. (capitano Marcos)

            Mauro Armanino, Niamey, ottobre 2024

 

IL CANTO DELLA FATA

 


Fata fatina


Fata fatina
la notte s’avvicina
la bacchetta
nella tua manina
per far sognare
una bambina.

Sogni scintillanti
le stelle
come diamanti
lucciole lucenti
giochi divertenti.

Fata fatina
dall’ala azzurrina
raccontami una storia
da imparare
a memoria
così che domattina
la possa narrare
alla mia bambina

Danila Oppio

sabato, ottobre 12

L'ANTICO GIARDINO PEREGO: "UN'OASI SEGRETA IN CENTRO. IMBRACCATA DALLA SPORCIZIA"

https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/lantico-giardino-perego-unoasi-segreta-in-centro-imbrattata-dalla-sporcizia-

L’antico Giardino Perego: "Un’oasi segreta in centro. Imbrattata dalla sporcizia"

Il Giardino Perego, antica oasi verde nel cuore di Milano, conserva tracce storiche come la statua di Vertunno. Apprezzato dagli abitanti del quartiere per la sua tranquillità, rappresenta un prezioso ricordo della Milano di un tempo.


ll Giardino Perego, antica oasi verde nel cuore di Milano, conserva tracce storiche come la statua di Vertunno. Apprezzato dagli abitanti del quartiere per la sua tranquillità, rappresenta un prezioso ricordo della Milano di un tempo.

Un piccolo gioiello verde fra i palazzi di via dei Giardini, non lontano da Montenapoleone. Un luogo che custodisce importanti tracce del passato, come la statua settecentesca di Vertunno, dio etrusco della vegetazione. Appartenente un tempo all’omonima famiglia di Cremnago, il Giardino Perego è una delle poche aree rimaste fra gli spazi verdi che ornavano i nobili palazzi del Borgonuovo. Fu costruito nel 1778, quando i Perego acquisirono gli orti di un ex monastero, dietro la loro dimora. Nel 1941 una fascia di parco divenne l’odierna via dei Giardini, mentre la parte a Nord rimase verde, ma convertita all’uso pubblico. E così è ancora oggi. "È un bello spazio, dove vengono molti lavoratori dei vicini locali, come me", racconta Alessandro Tartaglione, habitué del giardino. "È un parco ‘segreto’", aggiunge Nadia Petrescu, che viene tutti i giorni ad ascoltare podcast di filosofia. "Mi sento accolta e mi fa stare bene, anche se c’è un po’ di sporcizia vicino alle panchine". Non abbastanza, però, per deturpare la bellezza di questa oasi verde nel cuore della città, vestigia di una Milano perduta e da ricordare. IL GIORNO

Ogni tanto qualche giornale mi fa ritornare alla mia prima infanzia, come IL GIORNO, che mi ha riportato ai giochi con i miei piccoli amici. Mi dà dispiacere sapere che questo giardino sia imbrattato dalla sporcizia, mentre  ricordo il vigile urbano che passava ogni giorno per controllare che i ragazzini non giocassero a calcio sui prati e non pestassero l'erba e i fiori  che decoravano le aiuole. Avevo 6 anni quando ho iniziato a recarmi per giocare e mi riferisco a quasi 70 anni fa,  e l'ho frequentato fino a quando sono diventata mamma, portando di tanto in tanto i miei figli a passeggio, ma ho sempre abitato in quella zona, esattamente di fronte al cancello d'ingresso del giardino, per poi trasferirmi, moglie e madre, nella zona del quartiere Brera, ma non tanto lontano da questa deliziosa oasi! 
Avevo già scritto un articolo relativo a questo giardino, e lo trovate a questo link:


Danila Oppio
 

martedì, ottobre 8

RITORNO A CASA di PADRE MACCALLI A NIAMEY SEI ANNI DOPO di P. MAURO ARMANINO

Ritorno a casa. P. Maccalli a Niamey sei anni dopo

Dio non è serio ma fa le cose seriamente. Così diceva François, prete della diocesi di Niamey di origine togolese che da muratore si è messo a costruire cristiani. Proprio quello che l’amico e compagno di viaggio padre Pierluigi Maccalli ha cercato di fare come missionario in Costa d’Avorio prima e nel Niger poi. Rapito da elementi della nebulosa jihadista il 17 settembre del 2018 è tornato in terra nigerina, senza catene, la stessa data ma sei anni dopo. In una lettera di commento al suo soggiorno di dieci giorni a Niamey, ospite gradito e inatteso per la circostanza, scrive tra l’altro... ‘La popolazione locale (specie di Bomoanga) è presa tra due fuochi: da una parte le incursioni a carattere jihadista e dall’altra i militari che diffidano di tutti e rastrellano gente accusate di collaborazione. Tra di essi il mio catechista e suo fratello: sono da mesi in prigione con l’accusa gratuita di essere parenti alla lunga di un sospettato. La gioia del ritorno si è trasformata presto in amarezza e tutt’ora custodisco in cuore tanta tristezza. Confesso che l’incontrare tante persone care, dimagrite di peso e dal volto scavato dalla sofferenza, mi ha fatto tanta pena e mi ha molto rattristato’. 

Dio non è serio ma fa le cose seriamente. Così diceva François e l’abbiamo potuto constatare con l’amico Pierluigi. Proprio tra le zone più colpite dalla violenza religiosa, dove è stato rapito un prete, vandalizzata la nuova ‘Basilica dei poveri’, da dove la gente fugge perché minacciata...proprio di questa zona sono originari i due nuovi preti della diocesi. La loro ordinazione è stata il ‘pretesto’ per padre Maccalli per tornare, con le parole dell’ambasciatore italiano a Niamey, sul ...’luogo del delitto’! Tornato a casa piuttosto, faceva osservare Pierluigi che il ‘luogo del delitto’ lo ha vissuto come vittima innocente e inerme per oltre due anni. Ci si ricordava dei tre segni che ha portato con sé dalla prigionia nel deserto del Sahara: una piccola croce di legno, un rosario confezionato con stoffa di fortuna e un anello della catena che l’ha custodito ogni notte per il tempo passato in cattività. Ma c’è un quarto segno che Pierluigi non ha menzionato nel suo scritto post prigionia...’Catene di libertà’.

Dio non è serio ma fa le cose seriamente. Così diceva François, prete della diocesi di Niamey di origine togolese che da muratore si è messo a costruire cristiani. Ed è questo il quarto segno che Pierluigi ha portato a Niamey, dal 17 al 27 settembre scorso. Lui stesso, senza volerlo o saperlo è stato il quarto segno di libertà nel tornare a casa dalla gente che per lui ha sofferto, pregato, sperato e atteso. Il suo popolo rideva, ballava, piangeva e cantava come solo i poveri sanno fare quando fanno festa. Perché Pierluigi e il suo popolo erano tornati liberi e più nessuno potrà mettere in catene la speranza.



           
Mauro Armanino, Niamey, ottobre 2024

Padre Pierluigi Maccalli è stato per due anni prigioniero di estremisti islamici nel Sahel, dal 17 settembre 2018 all'8 ottobre 2020. Il suo rapimento ha segnato il mondo missionario legato alla Società Missioni Africane, l'istituto al quale appartiene.

sabato, ottobre 5

FRONTIERE, NAZIONI E SOLDATI NEL SAHEL di Padre MAURO ARMANINO



Frontiere, nazioni e soldati nel Sahel

Le frontiere esistono dapprima nelle nostre teste. Da lì passano a governare i confini dei territori delle nazioni. Linee, puntini, muri, fili spinati, campi minati, documenti, fiumi, mari e deserti arruolati da chi prevale nei rapporti di forza del momento. Provate a lasciare Niamey, la capitale, raggiungete Dosso e poi arrivate al confine con la Repubblica del Benin, la città di Gaya. Da più di un anno, cioè dall’atipico colpo di stato di luglio, il ponte che attraversa il fiume Niger è chiuso al traffico. Sono le vecchie, antiche e sempre attuali piroghe che permettono il passaggio di decine di passeggeri da ambo le parti. Per passare si sommano le tasse dei doganieri, marinai, gendarmi, militari, consiglieri e trasportatori di mercanzie che i viaggiatori sono tenuti a sborsare per accedere dall’altra parte della frontiera. Le frontiere sono invenzioni che, prese sul serio, possono delimitare la mobilità dei poveri.

Per Benedict Anderson, storico e politologo sino-irlandese, le nazioni non sono altro che delle comunità politiche ‘immaginate’, limitate e sovrane. Questo perché solo una parte delle persone della ‘nazione’ potrà conoscersi fisicamente. Perché la nazione esista, con maggiore o minore fortuna, bisognerà inventarsi un futuro comune di cui il passato sembra portare le premesse. Stesso territorio, ideali, lingua, cultura e soprattutto un destino comune, differente dagli altri. Ben delimitato e orchestrato da valori, ideali e uno spirito che si apparenta all’assoluto. La nazione ‘immaginata’ può inventarsi nel nazionalismo che fa del popolo come tale una quasi-religione. Per la nazione, la ‘Patria’ (dal latino ‘Pater’, padre) si può e deve dare la vita se necessario. I cimiteri e le guerre che li hanno confezionati nella storia umana ne sono una metafora e un monito perenne.

Le frontiere esistono dapprima nelle nostre teste, Poi si disegnano e nascono con gli stati che delle nazioni dovrebbe essere l’espressione. Naturalmente ciò è complicato perché la realtà è multiforme e difficilmente si lascia ingabbiare da concetti. Tra nazioni, stati e frontiere c’è connivenza. Uno dei frutti della loro unione sono le guerre che, come sottolineato sopra, costituiscono una delle dominanti dei nazionalismi che si avvalgono dello stato per armarsi, difendersi o creare effimeri imperi. Tutto ciò appare come un’invenzione occidentale esportata di forza o di diritto altrove dove comunque esistevano forme di struttura sociale, politica, economica e militare. Altrove, infatti, le frontiere esistevano ma forse interpretate altrimenti. Etniche, linguistiche, religiose o semplicemente di fatto e più permeabili perché i muri, così come i campi di concentramento e detenzione, sono dello stato nazionalista una delle manifestazioni più emblematiche e conseguenti.

Il nazionalismo sottolinea in particolare un’identità e un destino comune, sufficientemente inventati anch’essi, per arruolare quanta più gente al proprio progetto egemonico. Il consumo locale, la patria e la sua salvaguardia e soprattutto il sovranismo, entità poco definibile al di fuori delle frontiere tracciate dalle ideologie, diventano altrettante parole d’ordine per la gestione del Paese o dello spazio che le frontiere delimitano. I cittadini saranno col tempo selezionati tra obbedienti, recalcitranti, militanti o refrattari da rieducare. Nell’Unione Sovietica dell’epoca staliniana si utilizzarono gli ospedali psichiatrici per i dissidenti che non ‘aderivano al progetto rivoluzionario della lotta proletaria per il comunismo’. Dalle nostre parti non siamo ancora così sofisticati e sono sufficienti le sparizioni e le auto-censure di chi teme di pensare differentemente l’appartenenza ad un popolo.

Le frontiere esistono dapprima nelle nostre teste. Poi si organizzano all’esterno e all’interno della nazione e dello stato. Per classi sociali, per i figli che studiano nel Paese e altri che vanno all’estero, per chi si cura sul posto e chi ha i mezzi per cliniche private altrove, per chi avrà un futuro nel sistema e chi ne sarà per sempre estromesso. Da cittadini, depositari cioè di diritti e doveri riconosciuti si dovrebbe diventare, secondo le testuali parole della autorità del momento, poliziotti, gendarmi, guardie o, in una parola, soldati. Tutto ciò contribuirà a creare nuove e inedite frontiere nella Regione.

C’è chi sogna, tuttavia, che le frontiere diventino ponti e i ponti frontiere, cominciando da Gaya.

                  Mauro Armanino, Niamey, ottobre 2024