POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

sabato, marzo 29

QUANDO LE PAROLE (RI)FONDANO LA REALTA' NEL SAHEL di PADRE MAURO ARMANINO

il generale Abdourahamane Tian

 Quando le parole (ri)fondano la realtà nel Sahel    

Il primo colpo di stato nel Niger è stato operato nel 1974 da un gruppo di miltari riuniti sotto il segno del Consiglio Militare Supremo, CMS condotto dal colonnello Seyni Kountché, capo di stato maggiorer delle Forze Armate Nigerine. Il gruppo ha rovesciato il primo presidente del Paese, Diori Amani la cui sposa fu uccisa al momento del putch. Il secondo golpe è sopraggiunto nel 1996. Un altro gruppo di ufficiali, guidati dal capo di stato maggiore delle Forze Armate Nigerine, operando in nome del Consiglio Nazionale di Salvezza, CNS, ha rimosso il presidente Mahamane Ousmane, eletto tre anni prima. Il colonnello Ibrahim Baré Mainassara che prese il potere per la circostanza fu assassinato all’aeroporto di Niamey nel 1999 dal terzo colpo di stato. Un gruppo di militari, riuniti nel Consiglio di Riconciliazione Nazionale, CRN, diretto dal capo della guardia presidenziale, il comandante Daouda Malam Wanké, mise fine alla sua vita e al suo potere.

Nel febbraio del 2010 si registra il quarto colpo di stato diretto dal Consiglio Supremo per la Restaurazione della Democrazia, CSRD, con a capo il comandante Djibo Salou, responsabile di una compagnia militare di Niamey. Il presidente esautorato fu Tandja Mamadou, militare in pensione che aveva tentato di andare oltre i due mandati presidenziali canonici. Arriviamo al quinto colpo di stato, in meno di cinquanta anni, effettuato contro il presidente Mohamed Bazoum il 26 luglio del 2023. Operato dal capo della guardia presidenziale e attuale capo dello stato, il generale di brigata Abdourahamane Tiani, a nome di un gruppo di militari sotto il nome del Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria, CNSP. Ogni volta, i militari hanno giustificato i golpe col pretesto di una deleteria gestione di governo economico, sociale, politico e securitario, per l’ultimo putch.  

Dal Consiglio Militare Supremo si passa al Consiglio Nazionale di Salvezza per andare al Consiglio di Riconciliazione Nazionale e sfociare nel Consiglio Supremo per la Restaurazione della Democrazia. L’ultimo in ordine di tempo, come citato, è il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria. Di Consiglio in Consiglio, Supremo o comunque Nazionale soprattutto con la Patria, ultimo concetto per ridefinire o meglio, rifondare la sovranità nazionale. Consigli militari e dunque affidati alle canne dei fucili per convincere e soprattutto conservare il potere. Mentre ci si basa sulla carta della transizione o rifondazione per i prossimi 60 mesi, con possibilità di ulteriori variazioni, il presidente spodestato è ancora prigioniero nel palazzo presidenziale con la sua signora. Quando il fine giustifica i mezzi è opportuno preoccuparsi perché tra i due esiste un’inscindibile complicità.

L’attuale regime militare al potere preferisce parlare di ‘rifondazione’ dello stato, della repubblica, della vita politica e soprattutto del cittadino. Rifondare è l’azione di fondare di nuovo e soprattutto in ambito politico designa l’azione per la quale si punta a rinnovare i principi sui quali si basa un’organizzazione o un sistema. Rifondare per adattare alla nuova situazione esistente. La carta riposa, tra l’altro, su un certo numero di valori e principi, tra i quali il patriottismo, la disciplina, il civismo, l’inclusione, la solidarietà, la fraternità...l’integrità, l’onore, il rispetto del bene comune, la tolleranza, il dialogo e il perdono. Poi la giustizia, la riconciliazione, la dignità, il lavoro, l’onestà e il coraggio. Tutto ciò era già stato detto, scritto e professato nelle precedenti costituzioni ma la rifondazione presume che quanto costruito finora era fuori luogo oppure non compiuto. Tra nuovo e antico ci sono loro, i militari dalle attraenti uniformi che, di Consiglio in Consiglio, rifondano le parole.          

 


      Ex Presidente Mohamed Bazoum


             Mauro Armanino, Niamey, marzo 2025 


giovedì, marzo 27

ALESSANDRO NASTASIO: UN ILLUSTRE LOMBARDO - NEL FINITO L'INFINITO di Roberto Di Pietro


ALESSANDRO NASTASIO: UN ILLUSTRE LOMBARDO

Alessandro Nastasio è maestro di chiara fama nel campo delle arti figurative in genere, ormai riconosciuto e quotato a livello internazionale. Si ha pertanto il piacere di proporre, nell'ordine, alcune salienti notizie biografiche relative a questo esimio artista e un elenco cronologico delle sue mostre personali, perlomeno alcune fra quelle considerate di maggior rilievo:

A) Nasce a Milano nel 1934, dove tuttora risiede e intensamente lavora nel suo Atelier di Via Eustachi, 22.

Fin dal 1947, il pittore albanese Ibrahim Kodra ne intuisce le eccezionali inclinazioni al dipingere e lo avvia alla ricerca concreta di un proprio originale iter espressivo in quel campo specifico. 

Presso l'Accademia di Brera, dal 1952 frequenta la Scuola Libera del Nudo sotto la guida di Aldo Salvatori, fino a conseguire (nel 1966-67) la cattedra di professore in "Belle Arti" ed intraprendere, congiuntamente alle proprie attività autonome, una trentennale carriera di docente di educazione artistica presso diversi istituti.

Nel 1960 frequenta l'Atelier di Giorgio Upilio, dove operano Giacometti, Lam, Fontana, De Chirico, dei quali ha la preziosa possibilità di studiare da vicino le distinte tematiche ispiratrici e modalità tecnico-lavorative.

Affina ed estende progressivamente le proprie capacità ad altri settori del figurativo collaborando dapprima con il maestro Tullio Figini (grazie al quale ha modo di apprendere i segreti della fusione rinascimentale 'a cera persa', e il vantaggio di potersi incontrare con artisti del calibro di Manzù, Crocetti, Manfrini, Minguzzi, Fabbri...); e in seguito, con la fonderia De Andreis di Quinto de Stampi, dove operano Marino Marini, Giò Pomodoro, Rudy Wach, Strebelle, Negri e Rosental. 

Nel 1965 la galleria P. Lucas di New York lo nota, lo propone come grafico e lo segnala presentandolo personalmente a Salvador Dalì.

Una profonda dimestichezza con i testi sapienziali dell'antichità (dalla Bibbia e i Vangeli, ai Rig-Veda, le Upanishad, Jalaloddin Rumi...) lo induce a volerne trarre spunto, attraverso gli anni,  per innumerevoli illustrazioni sotto forma di xilografie, acquetinte, acqueforti, linoleografie... unanimemente giudicate di alto valore tecnico e particolare pregnanza sul piano mistico-evocativo. Peraltro, da una concomitante spinta verso la ricerca del "bello utile" e delle relative concrete applicazioni nel quotidiano, nascono ora geniali soluzioni decorative, ora imponenti opere pittoriche di monumentale portata (perlopiù commissionate da gestori di edifici di pubblico interesse e/o famose chiese/basiliche italiane), di volta in volta realizzate in stretta collaborazione con celebri architetti -- fra i quali Figini e Pollini, De Carli, Gardella, Faranda, Selleri, Ponti.  

 B) La sua prima mostra personale risale al 1957, alla Pinacoteca di Latina.

Successivamente ha esposto in numerose gallerie e spazi pubblici italiani ed esteri, fra cui si citano: 

Biblioteca Sormani, Milano (1960, 1964, 1978);

Galleria Michaud, Firenze (1963, 1964);

Galerie Maurice Bridel, Losanna (1965);

Max G. Bollag Modern Art Center, Zurigo (1968, 1972, 1976);

Galleria d'Arte Moderna Villa Palestro, PAC, Milano (1969);

Museo Civico Arengario, Monza (1970);

Museo Municipale, Campione d'Italia (1973);

Phyllis Lucas Gallery, New York (1974);

Diogenes International Galleries, Atene (1974)

Palazzo dei Diamanti, Ferrara (1977) ;

Galleria Ducale, Vigevano (1977);

TWS Gallerie Isa Smith, Stoccarda (1978);

Biblioteca Comunale, Milano (1978);

Theater der Altstadt, Stoccarda (1979);

Galleria Michelangelo, Firenze (1979;

Galleria Porto di Ripetta, Roma (1979)

Antichi Arsenali della Repubblica, Amalfi (1980);

Gall. Planula Elissar, Beyrouth, Libano (1983);

Galerie Le Coin, Osaka, Giappone (1984);

Università Bocconi, Milano (1987); 

Renitenz Theater, Stoccarda (1987)

Museo Nazionale della Repubblica Turca, Konya (1988);

Teatro Chiabrera, Savona (1988)

Centro Culturale San Fedele, Milano (1989)

Galleria Rinaldo Rotta, Genova (1991)

Galleria Ada Zunino, Milano (1991 - prima mostra personale interamente dedicata alla scultura in unico esemplare -  e 2002);

Comune di Rozzano, Cascina Grande (1992);

Galleria Am Jakobbsbrumen, Stoccarda (1993);

Istituto Italiano di Cultura, Madrid (1994);

Collezione Civica d'Arte, Palazzo Vittone, Pinerolo (1995);

Museo di Crema (1996);

Istituto Italiano di Cultura, Nairobi (2000);

Istituto Italiano di Cultura, Addis Abeba (2001);

Daimler-Chrysler MKP/MBP, Stoccarda (2003)

(Precisi ulteriori aggiornamenti all'anno in corso non  sono stati reperibili ai fini di questa nostra pubblicazione.)

NEL FINITO L'INFINITO

(Un afflato olistico nell'arte di Alessandro Nastasio)

   Che si affidi a pitture, sculture, mosaici, vetrate policrome, pannelli xilografici, collages o  quant'altro di strumenti espressivi appaiano di volta in volta più idonei, e che il soggetto prescelto sia ora scopertamente "religioso" (da una trasumanata effigie del Cristo, al mistero di un' Ultima Cena, a un memorabile Pater Noster illustrato, invocazione dopo invocazione, su tavole di bronzo fuso a cera persa...) ora, per contro, la vivace stilizzazione di un Cancan di primo acchito equivocabile per mero "dionisiaco" senza ulteriori risvolti, il peculiare atto creativo di questo artista di multiforme genialità credo si riveli ovunque e immancabilmente improntato ad una spontanea  compresenza di sensibile e spirituale che definirei "olistica": di terrestre respiro nel superno, di celeste nel mondano, e quindi di perenne/sconfinato nel contingente, come sostanza stessa delle passioni e del linguaggio materico volto a raffigurarle. Di qui, in un inseparabile nesso tra "invenzione" e "tecnica", tra ispirazione ed esercizio, in tutta quanta l'opera di Alessandro Nastasio traspaiono gallerie/cunicoli/varchi di reciproca interrogazione circa le umane sorti, presenti e ultraterrene, dove la mimesis, suggerita dal Pensiero e subito sottoposta al lavorio immaginifico delle metafore che ne discendono, propone in ogni caso a se stessa (e al suo fruitore) il peso di una prossimità concettuale che al tempo stesso è distanza in quanto istintiva tensione mistica verso il "sur-naturel" -- a voler mutuare un termine piuttosto efficace a un'estetica per molti versi analogamente "bifronte" come può dirsi quella baudelairiana. Per cui se, da un lato, le realizzazioni compositive del nostro rinviano in genere ad una sentita impossibilità di "imitare il naturale" ricalcandolo (specie laddove l'artista lo percepisce svilito da segni di discutibile "incivilimento": e ad esemplificare questa vena critica forse basterebbero, dopo Uovo cosmico, simbologia della creazione, del 2002, due titoli nastasiani di per sé eloquenti come Perdita di identità e Non è colpa dello specchio se le facce sono storte, risalenti all'anno immediatamente successivo), d'altro canto ogni sua iniziativa artistica palpabilmente trasuda la duplice "naturalezza" di sottostanti genuine intime motivazioni e, insieme, di un autentico "goût du travail": ovvero l'imprescindibile piacere di una artigianalità plastico-scenografica ansiosa -- e sempre magistralmente capace -- di contemperare l'etereo e il concreto, l'estro visionario e la manualità destinata a tradurlo in poetica della materia rivisitata e rivivificata. Nell'agone del postmoderno -- in cui troppo spesso si danno per Arte le più o meno originali produzioni di qualche talentuoso homo faber nel migliore dei casi in grado di scendere a patti con materiali variamente plasmabili ma da ultimo destinati a rimanere inerti, non di rado prigionieri della loro stessa opaca fisicità -- il nostro può ben dirsi raro modello di vero Artista: demiurgo indagatore/risolutore di una dualità estetica dove l'infinito (pensiero poetante della natura naturans) e il finito (strumento raffigurante della natura naturata) si integrano ad ogni passo, anzi indissolubilmente si immedesimano. 

   Ma a monte di questo suo non comune esito artistico, a me Alessandro Nastasio lascia indovinare un percorso interiore ugualmente singolare e in qualche modo emblematico. "L'infinito (chi lo asserisce e lo insegna è Rabindranath Tagore: il "gran vegliardo" alla cui autorevolezza di poeta/pensatore/pedagogo non a caso il nostro ha esplicitamente voluto dedicare un recentissimo tributo personale in veste di artista/filosofo egli stesso) non è oggetto di rarefatta speculazione intellettuale, esso è reale e concreto come lo sono la luce e il calore del sole.  In India la maggior parte della letteratura è di carattere religioso proprio perché Dio, per noi, non è un Dio lontano: Egli abita giorno e notte le nostre case, tutte le nostre cose quotidiane, non meno che i nostri templi."  Ebbene, a me pare indizio significativo che, già parecchi anni fa, Nastasio scegliesse di denominare suggestivamente una sua opera I Novantanove Nomi di Dio; non saprei dire quanto consapevole fosse allora il nostro di richiamarsi così, indirettamente, per molte affinità intuitive di fondo, a quell'illustre poeta orientale Kabir (1400-1517), allievo dell'altrettanto celebre Ramananda e all'epoca attivissimo mediatore religioso fra induisti, musulmani e cristiani, i cui Bijak (Canti) furono tradotti da Tagore perfino in bengali, affinché anche gli allievi della sua famosa scuola potessero godere della profonda lezione spirituale che per quel tramite poetico viene trasmessa. In effetti, gli insegnamenti del Kabir 'ecumenico' sono appassionatamente elogiati e ribaditi da Tagore nel contesto di "Personality": volume in cui, quattro anni dopo aver conseguito il Nobel, egli volle compendiare sei delle sue conferenze più provocatorie ad orientamento psicosociofilosofico, nel complesso concepite come vademecum di "riflessioni per l'uomo occidentale".     

   Ad implicito commento di tanta parte di pensiero trasfigurato che l'arte di Nastasio sottende (e qui come non rammentare, fra l'altro, fra il 1982 e il 1998, nell'ambito di una serie di sculture poi raggruppate sotto il titolo rappresentativo di "Contraddizioni", alcune proposte quali L'Albero della Vita,  La Vita e la Morte allo Specchio,  Qualche luce nell'Uomo?, o Spirito celeste, uomo solare, o ancora Processo di solarizzazione...) mi piace perciò riprendere per esteso uno dei Bijak che figurano tra i fondamentali citati da Tagore in quel medesimo libro suddetto:


Ritmica scocca il battito della vita e della morte:

l'estasi zampilla e tutto lo spazio s'irradia di luce.

Là si suona musica non suonata, è la musica d'amore di tre mondi:

Là dove, a milioni, ardono le fiaccole del sole e della luna;

Là dove il tamburo rimbomba e l'amante si dondola nel gioco;

Là dove echeggiano canti d'amore e, a scrosci, ne piove la luce.


   D'altra parte, il Nastasio assiduo frequentatore e intenditore di simbologia di matrice anche diversa da quella schiettamente biblico-evangelica, mi pare qua e là ispirato anche su quest'altro versante complementare: a mio personale sentire, fin dal lontano 1977 ne scaturivano mirabili esemplari di 'poesia concreta' sulla cui recondita allusività esoterica qui sono indotto a voler riflettere. E penserei in particolare alla stessa strutturazione scultorea di Preghiera celeste/Alfabeto e Crollo di un alfabeto: opere entrambe segnatamente connotate da quella certa simbolica "verticalità spaziale" per Tradizione riconducibile alle alterne sacre epifanie dello Spirito/Verbo dall'alto verso il basso, e viceversa. Non diverso torna a presentarsi l'impianto formale di un'altra scultura, datata 1989, Parole logorate dal tempo, che, ben potendosi idealmente riallacciare alle due cronologicamente anteriori, in definitiva viene a suggerirmi quanto radicato ed accorato sia il perdurante cogitare filosofico di Nastasio intorno al primigenio valore della Parola Divina in rapporto ad un Suo deplorevole costante processo degenerativo di frantumazione, di desemantizzazione e/o totale travisamento nella sempre più accomodante, ormai fatua interpretazione contemporanea del miglior significato del "luminoso/numinoso" vivere su questo nostro "atomo opaco del male".

  Dichiaratamente stimolato dalla diffusa polisemia della mia silloge poetica "Il vero, il bello...l'anello che non tiene", oggi l'amico Alessandro così mi scrive: "Carissimo, difficile è capire l'intreccio tra Verità e Bellezza, e tra ragione e fede. A detta di Agostino, 'la verità abita nell'uomo interiore'. Se non è pensata, è nulla."

Roberto Vittorio Di Pietro

domenica, marzo 23

MODELLO DEL LAICO CRISTIANO – SAN GIUSEPPE - 3 conferenza – DEVOZIONE e LEGGENDE - Padre CLAUDIO TRUZZI OCD


MODELLO DEL LAICO CRISTIANO – SAN GIUSEPPE
3 – DEVOZIONE e LEGGENDE 

Un argomento “di peso” in favore di san Giuseppe – TERESA di Gesù
Si tratta della testimonianza di santa Teresa di Gesù, che, scoprendosi liberata da una grave infermità, secondo lei per intercessione di san Giuseppe, scrive la pagina che maggiormente influì, a partire da lei, per l’estendersi della devozione al santo Patriarca.
«Non fui mai portata a certe devozioni che alcuni praticano, specialmente donne, nelle quali entrano non so quali cerimonie che io non ho mai potuto soffrire, e che a loro piacciono tanto. Poi si conobbe che non erano convenienti e sapevano di superstizione. Io invece presi come avvocato san Giuseppe e mi raccomandai a lui con fervore. Questo mio padre e protettore mi aiutò nelle necessità in cui mi trovavo e in molte altre più gravi in cui era in gioco il mio onore e la salute dell'anima mia.
Ho visto chiaramente che il suo aiuto fu sempre più grande di quello che avrei potuto sperare. Non mi ricordo finora di averlo mai pregato di una grazia senza averla subito ottenuta. Ed è cosa che fa meraviglia ricordare i grandi favori che il Signore mi ha fatto e i pericoli di anima e di corpo da cui mi ha liberata per l'intercessione di questo santo benedetto. 
Ad altri santi sembra che Dio abbia concesso di soccorrerci in questa o in quell'altra necessità, mentre ho sperimentato che il glorioso san Giuseppe estende il suo patrocinio su tutte. 
Con ciò il Signore vuole darci a intendere che, a quel modo che era a lui soggetto in terra, dove egli come padre putativo gli poteva comandare, altrettanto gli sia ora in cielo nel fare ciò che gli chiede. 
Ciò han riconosciuto per esperienza varie altre persone che, dietro mio consiglio, gli si sono raccomandate. Molte altre gli si son da poco fatte devote per aver sperimentato questa verità» ...
«Procuravo di celebrarne la festa con la maggior possibile solennità... Per la grande esperienza che ho dei favori di san Giuseppe, vorrei che tutti si persuadessero ad essergli devoti. Non ho conosciuta persona che gli sia veramente devota e gli renda qualche particolare servizio senza far progressi nella virtù. Egli aiuta moltissimo chi si raccomanda a lui. È già da vari anni che nel giorno della sua festa gli chiedo qualche grazia, e sempre mi sono vista esaudita. Se la mia domanda non è tanto retta, egli la raddrizza per il mio maggior bene». «Chiedo solo, per amor di Dio, che chi non mi crede ne faccia la prova, e vedrà per esperienza come sia vantaggioso raccomandarsi a questo glorioso patriarca ed essergli devoti».  (Vita 6, 6-8). 
È il testo classico cui attingono coloro che vogliono parlare del glorioso Patriarca. Dell'efficacia del suo patrocinio non si potrebbe dir di più e di meglio, né con espressioni più infocate e convincenti.
L'Ordine del Carmelo fu sempre devoto di san Giuseppe. Per testimonianza di Papa Benedetto XIV, il Carmelo «fu l'Ordine che portò dall’oriente in occidente la lodevole usanza di onorare s. Giuseppe con solennissimo culto». Il Breviario carmelitano recava l'ufficio proprio del Santo fin dal 1480; e il Capitolo Generale tenuto in Parigi nel 1456, ordinava che la sua festa fosse celebrata nell'Ordine con pompa solenne.
Alla fine del 1700, infatti, si contavano, nel solo Ordine del Carmelo, più di centocinque chiese dedicate a san Giuseppe; e quando nel 1847 Pio IX estendeva alla Chiesa universale la festa del Patrocinio di san Giuseppe, il Carmelo celebrava già questa festa dal 1680, accordatagli da Innocenzo XI il 6 aprile dello stesso anno.
Teresa fece di tutto per diffonderne e rassodarne il culto. In suo onore eresse il primo monastero della Riforma (in Avila). Delle sue altre 17 case, 12 ne volle dedicate proprio a san Giuseppe. E lasciò scritto tra i suoi avvisi: 
«Benché tu abbia molti santi per avvocati, sii devota in modo particolare di san Giuseppe che può molto presso Dio» … Qualunque grazia si domandi a san Giuseppe verrà certamente concessa; chi vuol credere ne faccia la prova affinché si persuada”, sosteneva. «Io presi per mio avvocato e patrono il glorioso san Giuseppe e mi raccomandai a lui con fervore. Questo mio padre e protettore mi aiutò nelle necessità in cui mi trovavo e in molte altre più gravi, in cui era in gioco il mio onore e la salute dell’anima. Ho visto che il suo aiuto fu sempre più grande di quello che avrei potuto sperare…». (cap. VI dell’Autobiografia). 
Difficile dubitarne. Fra tutti i santi, il Falegname di Nazareth è quello più vicino a Gesù e Maria: lo fu sulla terra, a maggior ragione lo è in cielo. Perché, sia pure adottivo, di Gesù è stato il padre, di Maria lo sposo. 
È stato scritto: «O Maria, rinunciando ad altri aspetti dei vostri costumi, che noi non seguiamo più, vogliamo ripetere, che Giuseppe è stato vero sposo tuo nell'amore più concreto e insieme casto; è stato con te padre terreno e educatore di Gesù, ha fatto da segreto e forte baluardo umano durante la vostra vita, in Egitto e a Nazareth. Giustamente nella Chiesa lo si onora come il Santo per tutte le necessità: diremmo l'uomo dell'“emergenza” (a partire dall'emergenza-base dell'Incarnazione di Gesù), il modello per i lavoratori (egli risulta l'“homo faber” di cui parlano volentieri i dotti di oggi: colui che maneggia, costruisce, forgia, pialla ecc.), per i poveri che sudano, per i perseguitati che debbono abbandonare la loro terra».
Sono davvero senza numero le grazie che si ottengono da Dio, ricorrendo a lui. Patrono universale della Chiesa per volere di Pio IX, è conosciuto anche come “patrono dei lavoratori”, nonché dei moribondi e delle anime purganti; ma il suo patrocinio si estende a tutte le necessità. 
Giovanni Paolo II confessò di pregarlo ogni giorno. Additandolo alla devozione del popolo cristiano, nel 1989 stese in suo onore l’Esortazione apostolica Redemptoris Custos [Custode del Redentore], aggiungendo il proprio nome alla lista di devoti suoi predecessori: il beato Pio IX, Pio X, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI. 
•  Sotto la sua protezione si sono posti Ordini e Congregazioni religiose, associazioni e pie unioni, sacerdoti e laici, dotti e ignoranti. 
Forse non tutti sanno che Papa Giovanni XXIII, nel salire al soglio pontificio aveva accarezzato l’idea di farsi chiamare Giuseppe, tanta la devozione che lo legava al santo falegname di Nazareth.
 Nessun pontefice aveva mai scelto tale nome, che, in verità, non appartiene alla tradizione della Chiesa, ma il “papa buono” si sarebbe fatto chiamare volentieri Giuseppe I, se fosse stato possibile, proprio in virtù della profonda venerazione che nutriva per questo grande Santo.
•  A lui sono dedicate più di cinquecento parrocchie in Italia ed un centinaio di cattedrali in quarantacinque nazioni: dall'Angola al Congo, passando per l'Argentina, il Brasile, il Canada, le Filippine, il Messico, gli Stati Uniti, il Venezuela, e tante altre ancora. 
•  Basta d'altronde osservare le statistiche dei nomi più utilizzati per rendersi conto che Giuseppe è nelle prime posizioni in tutti i Paesi cristiani: in Italia è il primo in assoluto e anche il femminile “Giuseppina” segue in graduatoria subito dopo gli altrettanto prevedibili Maria e Anna. Cosicché non è casuale la ricchezza di tradizioni popolari, nate in decine di località italiane e spesso trapiantate dagli immigrati all'estero come memoria viva delle lontane radici. E, di per sé, perfino la consumistica "Festa del papà" – inventata dall'industria delle cravatte e dei “dopo barba” – documenta il forte richiamo unanimemente associato allo sposo della Madonna e al padre “putativo” di Gesù.
•  Nel 1909 Pio X approvò le “litanie di san Giuseppe”, alla cui recita il Manuale delle indulgenze associò l'indulgenza parziale. [cfr. Litanie di san Giuseppe, in allegato, pag 5].
•  A san Giuseppe è attribuita una speciale protezione in ogni circostanza della vita: più in particolare, egli viene però indicato come il patrono della “buona morte”, poiché nel momento del suo trapasso fu assistito da Gesù e da Maria. 
In memoria di ciò, sono a lui intitolate pie associazioni come l'“Arci-sodalizio della Buona Morte”, avviato nel 1648 dai Gesuiti a Roma, e l'“Unione del Transito di san Giuseppe” per la salvezza dei morenti”, fondata nel 1913 nella parrocchia romana di san Giuseppe al Trionfale dal beato don Luigi Guanella. 

LEGGENDE e narrazioni sul Santo
La più nota leggenda è quella intitolata: “San Giuseppe e il suo devoto”, nella quale egli minaccia d’abbandonare il Paradiso qualora il suo protetto non sia fatto entrare da Dio. Lo studioso Giuseppe Tammi ne individuò ben undici versioni, comprese la spagnola e la canadese. E Il noto autore napoletano Eduardo De Filippo inserì l'episodio sia nel poemetto “De Pretore Vincenzo”, sia nell'omonima commedia.
A partire dal 1400 furono scritte numerose sacre rappresentazioni, relative in particolare alla ricerca natalizia dell'alloggio da parte di Giuseppe e di Maria, tuttora messe in scena, con la partecipazione di attori non professionisti. In Sicilia è caratteristica la rappresentazione della “Fuga in Egitto”, specialmente nella versione scritta in versi dal poeta Archinà intorno al 1850 e musicata dal canonico La Porta.
  All'origine di uno dei pii esercizi in onore del Santo (“I Sette dolori e gioie di san Giuseppe”), c'è fra' Giovanni da Fano, [vissuto tra il 1469 e il 1539], che fu tra i promotori del nuovo ramo francescano dei Cappuccini. Da un confratello dell'Osservanza (un ramo dei Francescani) egli ricevette la confidenza di altri due “frati minori”, salvati da una sicura morte in mare per intercessione di san Giuseppe. Egli quale si rivelò ai due naufraghi con queste parole: «Io sono san Giuseppe, degnissimo sposo della beatissima Madre di Dio, al quale vi siete tanto raccomandati». Quindi il Santo garantì loro di aver «impetrato dalla infinita clemenza divina che chiunque dirà ogni giorno, per tutto un anno, 7 Padre nostro e 7 Ave Maria, meditando sui sette dolori che io ebbi nel mondo, otterrà da Dio ogni grazia che sia conforme al suo bene spirituale».
–– La preghiera consiste nel ripetere le seguenti sette invocazioni a san Giuseppe (secondo la formulazione attribuita al beato settecentesco Gennaro Sarnelli), al termine di ciascuna delle quali si rivolge la richiesta: «Assistimi paternamente in vita e in morte», e si recitano appunto 1 Padre nostro ed 1 Ave Maria. 
La pietà cristiana ha prodotto lungo gli anni altre varie pratiche legate al Santo, oltre quelle accennate: Rosari, Corona a san Giuseppe, Settenari, Novene (fra cui quella detta “delle Chiavi di San Giuseppe”), Le sette domeniche, Suppliche..., oltre a molte preghiere per chiedere grazie e ringraziare.

FESTA DEL 19 MARZO
Come altre feste del calendario, anche questa di san Giuseppe ha una propria storia che l'ha portata, dopo un periodo “glorioso”, ad essere molto ridimensionata, proprio mentre il Santo festeggiato ha avuto un'ulteriore proclamazione d’importanza nella vita della Chiesa (oltre al 19 marzo, il 1° maggio: san Giuseppe lavoratore) ed una continuata vitalità nella devozione dei fedeli. 
– Ci pare interessante e persino istruttivo preporre una rapida visione storica di questa festa, inserendola nell'evoluzione di tutte le celebrazioni della Chiesa.
1 – Tante feste: perché?
* Innanzi tutto, è interessante conoscere come la Chiesa abbia fissato, nel corso di duemila anni, le sue feste solenni con il precetto, cioè l'obbligo della partecipazione alla Messa e dell'astensione dai lavori “servili”, vale a dire quelli degli artigiani e degli operai.
L'imperatore romano Costantino – che nel 313 d.C. aveva concesso ai Cristiani la libertà di esercitare il loro culto – otto anni dopo stabilì per legge che le domeniche e le altre feste fossero tali anche per la società civile. Allo scadere dello stesso secolo, il Concilio di Laodicea ripeteva per i cristiani l'obbligo di partecipare alla celebrazione Eucaristica e di riposare in domenica e nelle feste comandate.
Il numero di tali feste variò molto nel tempo: erano 11 nel VII secolo, arrivarono a 41 nel XII sec., per raggiungere le 45 nel XIII secolo. Le feste, insomma, si moltiplicavano al passo dello sviluppo della società europea: ogni regno, provincia e città, diocesi e parrocchia desiderava festeggiare il proprio santo patrono.
– Alcuni storici criticano per questo la Chiesa: sostengono che, in tal modo, la produzione dei campi e delle botteghe calava e la scarsità delle merci faceva salire i prezzi; nello stesso tempo l'ozio favoriva le cattive abitudini e molti festeggiamenti si sviluppavano con elementi magici e superstizioni (come avviene ancora in qualche festa patronale, dove sussistono antiche usanze).
– Altri storici lodano invece la Chiesa, che con le molte feste sottraeva, almeno un po', contadini e artigiani allo sfruttamento dei padroni, alla fatica e alle prestazioni gratuite dovute ai signori feudali. Ed inoltre, cosa ancor più importante, ogni festa imponeva la “tregua di Dio”, la cessazione, cioè, d’ogni combattimento o razzia in tempi in cui le lotte tra i signori erano incessanti e producevano devastazioni ovunque.
Certo, i fedeli erano confusi, non conoscendo neppure quali fossero esattamente le feste da osservare e il calendario giusto. L'ignoranza generale favoriva il diffondersi di storie leggendarie ed impediva di cogliere la relazione stretta tra festa, santità e preghiera comunitaria.
Solo la riforma liturgica di san Pio V, nella seconda metà del Cinquecento, mise un certo ordine nel numero e nella regolamentazione delle feste, riducendo la possibilità di vescovi e sovrani di proclamare festività a loro piacimento. Fu poi il decreto di papa Urbano VIII, nel 1642, a stabilire un elenco preciso delle feste riconosciute dalla Chiesa universale.
2 – La festa di san Giuseppe 
Prima del Seicento, san Giuseppe era festeggiato in molte città e regioni, con giorni di precetto che vale-vano in sede locale, ed il cui numero era in continua crescita. 
Si ha notizia che a Bologna, già nel 1129 c'era una chiesa dedicata al nostro Santo, e la festa era celebrata solennemente e con manifestazioni popolari di giochi. Nel ducato di Milano, fin dal Quattrocento si celebrava il 19 marzo, e fu “di precetto” dal 1498. Il doge di Genova, Ottaviano Fregoso, stabilì che dal 1519 il 19 marzo doveva essere festa solenne e di precetto. E altrettanto avveniva in altre regioni e città dell'Italia.
In Spagna, Valencia e Granada onoravano san Giuseppe pubblicamente fin dalla fine del '400, ed ancor prima era nata la devozione in Olanda e in Francia. Lo stesso Gerson (grande propagandista del culto di san Giuseppe in Francia), fu sorpreso di scoprire, ai primi del '400, che in tutte le chiese e le cappelle d’Avignone, il culto del Santo era già praticato in forma solenne, come avveniva per le più importanti feste religiose, e ciò sembra sia dovuto alla volontà precisa di un papa, Gregorio XI, che la suggerì per tutta la Chiesa universale. 
A Roma, papa Sisto V la inserì nel calendario romano alla data fissata del 19 marzo. E sempre a Roma, in seguito, nel 1540, una trentina di falegnami romani s’unirono e fondarono una Confraternita intitolata al Santo che aveva esercitato il loro mestiere e con cui aveva assicurato il pane a Gesù e Maria. Costituirono una piccola chiesa presso l'antico carcere mamertino (Roma), e fra gli scopi si diedero quelli di promuovere il culto del Santo e di far celebrarne solennemente la festa.
*    Festa di precetto
Finalmente, quando le insistenze di molti prelati, di studiosi, di religiosi e laici, di sovrani e di popolo, si fecero un unico coro, la Santa Sede raccolse il desiderio di tutti. 
I Cardinali della Congregazione dei Riti sottoposero a papa Gregorio XV una richiesta: «Piaccia a Vostra Santità di comandare che il giorno della festa di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria beatissima Madre di Dio, sia d'ora in poi, ed in perpetuo, giorno di precetto, e che tutti i fedeli si astengano in tale giorno dal lavoro servile». Il Papa approvò e firmò il decreto: era l'8 maggio 1621.
L'elenco delle feste ufficiali della Chiesa fu stabilito da papa Urbano VII. Il 13 settembre 1642 pubblicò infatti la Costituzione “Universa per Orbem” allo scopo di mettere ordine tra le festività. La lista dei giorni da considerarsi “di precetto” era ancora nutrita: 35, oltre le domeniche. Fra queste c'era il 19 marzo per san Giuseppe, come pure le feste dei santi patroni della nazione e del luogo. Nessuno poteva, in avanti, istituirne di nuove, se non la Santa Sede. Nel medesimo decreto era resa universale la festa del Corpus Domini].
*   Festa di precetto, soppressa
Nel 1624 il Canada, con voto popolare, aveva proclamato Giuseppe patrono della Chiesa che stava nascendo in quel paese. In Italia, Napoli e Torino si posero sotto la protezione del Santo nel 1690 e 1696. L'Austria lo dichiarò patrono della Boemia nel 1655, e nel 1676 tutto l'Impero fu posto sotto la sua tutela. Il regno di Baviera gli fu dedicato nel 1664. In Asia, i gesuiti chiesero la protezione di Giuseppe su tutte le loro missioni nell'Indocina e in Cina.
Possiamo concludere che il bisogno di dedicare una solennità al nostro Patrono si rafforzò proprio in un secolo che tendeva invece a ridurre il numero delle feste.  Questo dimostra quanto fosse importante.
Nel secolo seguente (1800), infatti, gli Stati europei seguirono piuttosto le ispirazioni laiche e illuministi-che, e, di conseguenza, i Papi furono costretti a ridurre nettamente le feste di precetto – compresa quella del 19 marzo – per molte parti d'Europa. 
(L’eccezione avvenne con Benedetto XV, che nel 1917, proprio durante la Prima guerra mondiale, stabilì che la festa [19 marzo]] di san Giuseppe facesse parte delle 10 feste di precetto della cattolicità). 
Purtroppo, le esigenze della produttività industriale e la concorrenza fra gli Stati provocarono ulteriori richieste d’abolire le festività infrasettimanali, religiose e civili, data la cattiva abitudine di cittadini di fare i cosiddetti “ponti”, in altre parole d’assentarsi dal lavoro pure nei giorni intermedi. [Ma la “moda” non è per nulla sparita, anzi! Niente Messa, ma, sì, agli scioperi ed altre manifestazioni! La coerenza!!!].
E così la Santa Sede autorizzò l'Italia (ed il Messico) a non considerare più festivo il 19 marzo. Conseguenza? Questo impedisce al popolo di ricevere un'istruzione più profonda su san Giuseppe nel giorno a lui dedicato.
•  Le tradizioni legate al 19 marzo sono molteplici in tutta Italia, e in varie regioni il sentimento popolare manifesta una specifica condivisione con le sofferenze della Santa Famiglia attraverso un gesto di solidarietà.
– In Sicilia viene generalmente accolta in famiglie una persona anziana e bisognosa. Nel Molise si invitano a pranzo una coppia di sposi e un giovane – in rappresentanza di Giuseppe, Maria e Gesù – e si servono a tavola speciali dolciumi chiamati “cauzione di san Giuseppe”, ad indicare l'intercessione del santo verso i suoi devoti.
– In Puglia si svolge la cerimonia della “mattra”, che consiste in una serie di tavole imbandite appositamente per i poveri e gli anziani. Nel meridione d'Italia, e anche in alcune zone d'emigrazione italiana, in questo giorno s’inforna il cosiddetto “pane di san Giuseppe” – a forma di barba, bastone e corona (simboli del Santo), ma anche di animali – che il capofamiglia divide con i commensali durante il pranzo e che vengono poi donati a quanti entrano in casa: una volta erano i poveri del paese, oggi sono bambini festanti.
Un'antica tradizione contadina prevedeva invece la conservazione di qualche pagnotta, che in occasione dei temporali veniva divisa in quattro parti, ciascuna lanciata in direzione di un punto cardinale per invocare la protezione di san Giuseppe dal maltempo che poteva causare gravi danni alle colture.
LITANIE di San Giuseppe

Signore, pietà – Cristo, pietà – Signore, pietà  
Padre celeste, Dio   
Figlio redentore del mondo, Dio   
Spirito Santo, Dio   
Santa Trinità, unico Dio  

Santa Maria  
San Giuseppe  
Inclita prole di Davide   
Luce dei Patriarchi   
Sposo della Madre di Dio 
Custode purissimo della Vergine   
Tu che nutristi il Figlio di Dio  
Solerte difensore di Cristo   
Capo dell'Alma Famiglia 
O Giuseppe giustissimo   
O Giuseppe castissimo  
O Giuseppe prudentissimo   
O Giuseppe obbedientissimo   
O Giuseppe fedelissimo   
Specchio di pazienza  
Amante della povertà   
Esempio agli operai   
Decoro della vita domestica   
Custode dei vergini  
Sostegno delle famiglie   
Conforto dei sofferenti   
Speranza degli infermi  
Patrono dei moribondi   
Terrore dei demoni   
Protettore della S. Chiesa  

Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo   
Ascoltaci
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo   
Esaudiscici
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo.
Abbi pietà di noi

sabato, marzo 22

IL POTERE DEI SENZA POTERE di Padre MAURO ARMANINO

                   Il potere dei senza potere

Nel mondo comandano le armi e il denaro al quale tutto è funzionale. Le guerre sono concepite per rigenerare e perpetuare l’economia dei ricchi, della quale le cicliche crisi del capitale svelano i meccanismi di espropriazione. La ‘distruzione creativa’ è in realtà un gioco al massacro nel quale le categorie umane più fragili, cominciando dai bambini, sono, fin dall’inizio della rivoluzione capitalista, le prime vittime. Comandano i militari, con o senza uniforme e sono presi, abbastanza spesso, come liberatori dalle ‘inutili’ e ‘corrotte’ democrazie dei partiti politici di cui le Costituzioni sono considerate pietose espressioni.

Dio non ha più nessun potere. Viene usato, abusato, manipolato, integrato e soprattutto pregato di lasciar fare a coloro che ne difendono gli interessi, i valori e la credibilità. Si trova ad essere ostaggio di chi si arroga il diritto di difendere la sua causa. Non da oggi in esilio volontario, preferito allontanarsi dai santuari, templi e monumenti costruiti, a sua insaputa, per un onore che non ha mai cercato. Presente in tutte le assenze e i tradimenti dell’umano non si lascia arruolare tra i richiedenti asilo e meno ancora nelle interminabili statistiche volte a definire i ‘vulnerabili’ del momento.

I contadini dei villaggi adiacenti alla cittadina di Makalondi, a meno di cento kilometri dalla capitale Niamey, sono stati espulsi dalle loro case, campi e averi, non senza aver pagato la tassa rituale prevista, in nome, appunto, di Dio. Nell’assordante silenzio stampa, da qualche giorno, altre decine di famiglie hanno raggiunto i campi di raccolta di persone definite ‘sfollate’ e nella realtà sradicate dalla propria terra. A loro è affidato il potere della storia perché di essa i poveri hanno ricevuto la versione definitiva. Sulla sabbia sta infatti scritto che i ‘potenti sono rovesciati dai troni e gli umili innalzati’ nel vento. Da lontano e senza darlo a vedere, il Dio volontariamente confinato tra gli sfollati, sorride.

                  Mauro Armanino, Niamey, marzo 2025



martedì, marzo 18

La speranza quale forza sociale - ricevo da Padre MAURO ARMANINO - consigliata la lettura

 

Gustavo Esteva


La speranza quale forza sociale

Speranza forza sociale / di Gustavo Esteva, Elias Gonzáles Gómez, Ana Cecilia Dinerstein; a cura di Aldo Zanchetta. - Museodei by Hermatena, 2024. - 216 p. - (Ripensare il mondo). - ISBN 979-12-81662-00-1. 
di Salvatore A. Bravo - mercoledì 12 marzo 2025 - 74 letture 
“Speranza forza sociale” è un testo che già nel titolo è trasgressivo rispetto all’ordine costituito. Nella gabbia d’acciaio del nostro tempo la “speranza” non è accolta e non è pensata; è stata sostituita con le “merci” che assediano i consumatori. In una realtà pianificata ad immagine e somiglianza del consumo illimitato per l’accumulo di risorse finanziarie, anche gli stessi cittadini non sono più tali ma “clienti” sempre più simili a merci prodotte in serie. Nella gabbia d’acciaio l’immensa rete informatica agisce su ogni punto dello spazio (comunità territoriali) e del tempo (coscienze) per fagocitarci e nulla sembra esistere al di fuori della rete.

La grammatica del nostro tempo è la disperazione, poiché l’esistenza si sciupa e si dilapida nella violenza e nell’insensato. Eppure, l’assoluto (il capitalismo) che incombe ha i suoi punti ottici di resistenza e di azione che dimostrano che la coscienza umana è condizionabile, ma non è determinabile, malgrado le tempeste della storia è “libera”. La libertà è manifesta nel cupo dolore di molti.
La resistenza consapevole, anche di un numero esiguo di oppositori all’ordine costituito, dimostra che nella “gabbia d’acciaio” la speranza c’è e le sbarre che appaiono invalicabili sono in realtà miseramente umane e non sono l’assoluto dinanzi al quale bisogna chinare il capo e abdicare ad ogni progettualità politica. Nella gabbia d’acciaio non vi è solo la passione triste della resilienza, ma abita anche colui che ancora sa guardare e scorgerà la presenza reale della speranza nel presente. Vi è un contro-potere che silenziosamente e lentamente sta avanzando, malgrado i trombettieri abbiano proclamato “la fine della storia”.
Il testo composto da una serie di saggi è dedicato a Gustavo Esteva [1] scomparso nel 2022. L’impegno di Gustavo Esteva per la speranza è durato quanto la sua esistenza e l’ha testimoniata con le sue opere e con le sue parole. Gustavo Esteva fu “intellettuale deprofessionalizzato”, ovvero egli da uomo che viveva la speranza, sapeva bene che la speranza non è nell’intellettuale chiuso nel suo ruolo ieratico che indica l’orizzonte verso cui marciare, è pane condiviso, è parola che diviene prassi, solo la coralità del dolore e la progettualità discussa dal basso può far emergere la dimensione della speranza nella distopia della gabbia d’acciaio.
Le parole di Gustavo Esteva sono esplicative del processo di emancipazione dal capitalismo, il quale, non è “fuori” del soggetto, ma si infiltra nel corpo e nella mente, distorce la percezione sensoriale fino a “insegnare” al suddito ad astrarsi dalla materialità viva del suo tempo per proiettarlo in una dimensione solipsistica e impotente. Egli ha testimoniato e testimonia la necessità di disalienarsi dalle tossine del capitalismo per imparare a guardare la “speranza” che fiorisce anche nella prigione invisibile del nostro tempo. Si impara la speranza come si impara a guardare, ma ciò non può che avvenire nella comunità piccola o grande, non importa, purché essa sia “il tempo” nel quale affrancarsi dai miti divisori del capitalismo per vivere la prossimità del dono. La speranza è nel tocco che genera e rigenera la vita e le vite, è nella resistenza di coloro che difendono la propria umanità con “l’economia del pane”:
“All’interno di una lotta anti-capitalista non possiamo liberarla fintanto che si mantenga una visione del capitalismo che ci sommerge in questa paranoia unitaria e totalizzante, finché la si percepisce come un sistema unificato, omogeneo, che occupa tutto lo spazio sociale e dal quale niente può fuggire. Sarebbe onnipresente e quasi onnipotente. (…) Quello che è importante per il nostro proposito è riconoscere il capitalismo come un regime economico caratterizzato da determinate relazioni sociali di produzione, descritte tecnicamente dai tempi di Marx. Nelle società dove questo regime domina, esistono ampi spazi in cui non prevalgono queste relazioni sociali. Questi spazi autonomi come le aree sotto controllo zapatista sono circoscritti e sono minacciati dal regime dominante, ma sono sacche di resistenza dalle quali si sprigiona e si organizza l’insurrezione in corso, come esaminerò più avanti. Lì, come anche in spazi sotto lo stretto controllo del regime dominante, iniziano a svilupparsi nuovi tipi di relazioni” [2].
Speranza e dolore
La speranza nasce dalla deportazione e dall’esilio, è il fiore del deserto, è il segno che l’umanità è spirito che vince le frontiere geografiche e mentali e apre i numerosi chiavistelli che il potere ha posto a sua custodia. Essa in una realtà terrorizzata dal “nuovo” e che tutto pianifica e prevede, è lo spirito e sbriciola la meccanica organizzazione causale ordita dal potere. Le oligarchie l’avversano, poiché è la forza rigeneratrice della vita che trascendendo sofferenze indescrivibili con le parole e ciò malgrado comunicabili con lo sguardo e con la delicatezza espressiva dei gesti smentisce i “piani” e le “pianificazioni” del dominio. La storia è in questa lotta tra la vita (speranza) e la morte (potere). La speranza è già nel presente in forme che il dominio con i suoi servitori non sa immaginare e decodificare. Gli ultimi sono il motore della storia, ne sono il sale, poiché la speranza giunge a noi con l’esperienza del dolore dal quale sgorgano prospettive impensabili e che sono visibili già nel presente:
“La speranza nasce sempre da una deportazione e un esilio. Ogni altra speranza è illusoria perché non si fonda sulla sabbia dalla quale tutto scaturisce e alla quale tutto ritorna. Essa si incontra soprattutto dove si presume non possa trovarsi e torna quando tutto è perduto” [3].
Dove inizia la speranza? In quale tempo essa si configura? Mauro Armanino ci risponde con la semplicità di colui che conosce le profondità dell’anima. La speranza è dove l’alterità è riconosciuta nella sua umanità. Il miracolo è nel tempo ordinario degli sguardi che si riconoscono come parte di un unico destino nella medesima fragilità della carne. La condivisione libera dalle morbosità che si annidano nel corpo e nello spirito incidendo in essi ferendoli. Nello sguardo che fuga le paure e i timori abita la speranza:
“La speranza ha un corpo migrante che le intemperie, il caldo del giorno e il freddo delle notti nel deserto hanno reso ancora più sottile ed esiguo. Anche il corpo della speranza è passato attraverso la grande tribolazione del viaggio che in fondo costituisce il proprio di ogni migrazione, talvolta più importante della destinazione. La guarigione dei corpi accade nel momento in cui il migrante è trattato da persona umana, ed è precisamente quel miracolo che riesce a far sorridere, per un momento, la speranza, silenziosa fino ad allora” [4].
Principio di scarsità
Il dominio per inficiare la speranza pone in essere “il principio di scarsità”. Si è ricchi e ci si percepisce miseri, si ha tutto eppure ci si tormenta per i beni che mancano. Il principio di scarsità insegna a tenere basso lo sguardo. Esso si fissa verso la terra e ricerca solo le merci, in tal modo ci si divide dai fratelli, si opera un taglio che spinge verso la solitudine mai paga dell’accumulo. L’arsura delle merci divide e rende fragili, in quanto la rabbia e la paura prevalgono e oscurano lo sguardo:
“Il risveglio della speranza sgretola i due aspetti del principio di scarsità. Alla scarsità contrappone la sufficienza, la nozione che non siamo privi di qualcosa, non siamo esseri che hanno bisogno di qualcosa, ma abbiamo quanto basta e possiamo vivere gioiosamente e pienamente a partire dai tessuti comunitari del dono condiviso. All’espropriazione che instaura l’individuo carente e bisognoso si contrappone la condivisione che forgia la persona e la sua rete di amicizia di sostegno e di dono reciproco” [5].
Ogni tempo ha la sua lotta, e dove vi è lotta vi è speranza. Nel nostro tempo al principio di scarsità si aggiunge la riduzione della vita a “nuda vita”. La speranza deve confrontarsi con l’inganno della vita burocratizzata e ridotta a soffio vitale senza spirito. Il dolore di coloro che disperdono la vita sotto il giogo dell’amministrazione non è definibile, perché è infiltrante e indefinibile. La speranza si genera tra le piaghe e tra le pieghe della burocratizzazione della vita ridotta a mezzo senza voce:
“La vita umana, ridotta a nuda vita, diviene un fatto burocratico, amministrativo, e, come dicono gli zapatisti, le persone vengono trattate secondo il principio dell’usa e getta. In una società tecnologica avanzata come quella odierna ne servono sempre meno, omogeneizzate secondo le esigenze di macchine più complesse e più obbedienti” [6].
La speranza è collettiva
La speranza deve confrontarsi con le asperità della storia con i suoi inganni e con le sue tragedie quotidiane, è la sorpresa che rovescia i troni e innalzi gli umili verso nuove configurazioni sociali. La speranza obbedisce all’autentica natura umana, essa è agire collettivo. L’essere umano per natura è sociale e solidale, pertanto dove la natura umana non è vinta risorge la speranza quale forza che rimescola “i tempi della storia” e sorprende con il suo incanto, finché l’essere umano sarà sul pianeta nella forma che conosciamo, non perirà, poiché è nella natura dell’essere umano la pratica immaginativa della speranza:
“Niente è fattibile finché non lo diventa attraverso l’azione collettiva” [7].
Il capitalismo ha fondato la prima società autofaga e antropofaga. La vita è minacciata nella sua totalità. La sofferenza è generalizzata e attraversa in modo differente popoli e culture. Il potere non è assoluto, è umano troppo umano; pertanto, è necessario conoscerlo per disarticolarlo nella sua malvagia insipienza. La speranza è nel dolore di coloro che lo conoscono, poiché è nella loro carne, ma da questo vulnus nell’anima e nel corpo rinasce la vita e con essa la speranza. Solo coloro che sono toccati dalla sofferenza sono il pane del mondo dalla cui forza vitale risorge eterna la passione della speranza che rompe il disperato grigiore del potere e delle passioni tristi. Il futuro non è in una dimensione altra, ma come Gustavo Esteva affermava, è “qui ed ora”. La speranza ha il suo cominciamento nel dono e nella pratica dei bisogni autentici che rompono con l’asfissiante atomismo della globalizzazione con il suo dogma “il principio di scarsità”:
“La strategia da applicare, sottolinea Esteva, è quella del ritorno dal futuro astratto al presente reale, al qui e ora, e alla realtà del territorio in cui si vive, contrapposto al mito della globalizzazione” [8].
Il potere ci vuole tutti, ricchi e poveri, soli e disperati in modo da nutrirci con le cattive merci e con i suoi miti, ma noi restiamo umani, malgrado tutto; da questo germoglio di consapevolezza inizia una storia sconosciuta ai dominatori del “pensiero unico”. L’assoluto del capitale si scioglie al sole della speranza, questa verità è l’incipit comunitario di un’altra storia.




sabato, marzo 15

MODELLO DEL LAICO CRISTIANO 2 – SAN GIUSEPPE NEI SECOLI - seconda conferenza Padre CLAUDIO TRUZZI OCD

MODELLO DEL LAICO CRISTIANO 2 – SAN GIUSEPPE NEI SECOLI - seconda conferenza Padre CLAUDIO TRUZZI OCD

 

MODELLO DEL LAICO CRISTIANO   

2 – SAN GIUSEPPE NEI SECOLI  

Grande, eppure ancor oggi piuttosto sconosciuto. Il nascondimento, nel corso della sua intera vita come dopo la sua morte, sembra quasi essere la “cifra”, il segno distintivo di san Giuseppe. Come giustamente ha osservato Vittorio Messori: “Lo starsene celato ed emergere solo pian piano con il tempo sembra far parte dello straordinario ruolo che gli è stato attribuito nella storia della salvezza”. 

La presenza di san Giuseppe lungo la storia della Chiesa è stato, infatti, qualcosa di sconcertante, e contrariamente a ciò che accadde per altri santi, egli, in questo senso, non ha avuto un eccessivo successo.

Dai Vangeli agli Apocrifi

La prima catechesi cristiana s’incontrò con la necessità di riflettere sugli avvenimenti antecedenti la Risurrezione del Signore, e il “Vangelo dell'Infanzia” – che narra gli avvenimenti evangelici prima della vita pubblica di Gesù – presentò Giuseppe come trasmettitore dell'ascendenza davidica, come “padre di Gesù” (così lo chiamava Maria), come sposo della Vergine, come mediatore del disegno di salvezza. Sebbene nei Vangeli non si registri neppure una sua parola, non è poi così poco ciò che di lui dicono i Vangeli. [Lo abbiamo visto !!!]

I cristiani, sentivano, però, il bisogno d’avere maggiori notizie dell'infanzia e della gioventù di Gesù, e per saziare la comprensibile curiosità, come portatori di certe idee a volte non troppo ortodosse, dal 200 d.C.  iniziarono a redigere [anche se la loro divulgazione fu a volte un po' posteriore] gli “Evangeli Apocrifi”. 

Questi erano prodotti ingenui – o, non tanto “ingenui”! – della fantasia. Preistoria di Gesù fino ai suoi nonni; fanciullezza di Maria nel tempio; le sue nozze accompagnate dal meraviglioso (Il bastone fiorito dello sposo); episodi e compagni di viaggio verso Betlemme, la fuga, la permanenza e il ritorno dall'Egitto… tutti questi spazi si riempiono d’una buona dose d’immaginazione. 

Un altro punto sgradevole negli Apocrifi è il primo matrimonio e la conseguente vedovanza di san Giuseppe.

Furono essi (soprattutto i così detti “Proto-evangelo di San Giacomo”, “Pseudo-Matteo”, “Storia di Giuseppe il carpentiere”) i creatori di un san Giuseppe vecchio, molto vecchio – quanto più vecchio, meglio! – . Inoltre, lo presentavano vedovo, e, per di più, con sufficienti figli allorché si sposò con Maria, dopo quella sfida fra i pretendenti migliori fisicamente, socialmente ed economicamente, e... perché continuare...!? 

Scrittori ecclesiastici e I Padri della Chiesa * 

* Con tale nome si trovano designati – specie a partire della metà del secolo IV (350) – i principali scrittori ecclesiastici il cui insegnamento e la cui dottrina sono ritenuti fondamentali per la dottrina della Chiesa. (Ma 4 di loro, oltre che dottori sono santi: Agostino d’Ippona, Ambrogio, Girolamo e Gregorio Magno. Quelli orientali, pure 4 sono [greci] sono s. Atanasio dall’Alessandria d’Egitto, s Basilio, Giovanni Crisostomo e Cirillo d’Alessandria).

Orbene, i Padri della Chiesa e altri scrittori ecclesiastici, con maggior o minore vigore secondo i tempi, si scontrarono con problemi apologetici, che tentavano di risolvere. Era un ambiente, il loro, in cui, generalmente, il valore della verginità si stava imponendo, a volte come valore assoluto. E poiché nel Vangelo appaiono “alcuni fratelli di Gesù”, e si affermava che Giuseppe (sposo di Maria) ne era il padre, di ciò se n’approfitta-vano molto bene alcuni eretici dell'epoca..., era, quindi opportuno passare sotto silenzio la persona e il ruolo di Giuseppe o convertirlo in strumento di verginità. Certo alcuni – con maggior forza e pure con parole più belle (sant’Agostino) – s’impegnarono a valorizzare una paternità tanto reale quanto più verginale; altri, però, ripresero le posizioni apocrife e contribuirono a trasmettere l'immagine del vedovo e del vecchio, piuttosto che padre “normale” di Gesù, progenitore di coloro che erano chiamati suoi “fratelli di Gesù”. 

Esempio, sant’Epifanio di Salamina (315-403) è una testimonianza ben qualificata di tale singolare apologetica: Giuseppe, padre solo in apparenza di Gesù, «in età avanzata e vedovo della donna che gli diede quattro figli (Giacomo, chiamato fratello di Gesù, perché educato con Lui, Simone e Giuda e Giovanni) e di due femmine (Anna e Salomè), questo Giuseppe, dico, già vecchio e vedovo, in virtù della sorte si vide obbligato a contrarre matrimonio con la santissima Vergine Maria»».

La “dimenticanza” del Medio Evo

Per vari secoli san Giuseppe non uscì da tale nascondimento. Furono i secoli medievali, di spiritualità monastica, in cui poco significato aveva il matrimonio di Giuseppe, ed ancor meno la sua paternità.

D'altra parte, la catechesi plastica – quella delle pitture e delle statue – s’incaricarono di diffondere e rendere popolare la figura di un Giuseppe che stava al margine della Natività, nelle adorazioni del neonato. 

La sua figura è abbastanza grottesca, quando non addirittura comica: erano frequenti le rappresentazioni di un santo vecchissimo ed addormentato, assente a tutto o quasi: che portava una lanterna per la stalla e sempre in secondo piano; talvolta, che preparava addirittura i pasti. 

La medesima immagine, tanto vicina al ridicolo, si ripeteva nei giochi, nelle rappresentazioni drammatiche religiose, nei canti eseguiti in chiesa nel periodo natalizio, in alcuno dei quali Maria lo chiama “Padre”, ed Anna “Reverendo Padre”! E poiché nelle società analfabete il migliore e quasi unico mezzo d’informazione erano le prediche, anche qui san Giuseppe non faceva granché bella figura; come per esempio in uno dei predicatori più popolari alla fine del 1300, san Vincenzo Ferrer. Questi, oltre al fatto di far pensare allo sposo le cose peggiori dinanzi alla gravidanza di Maria, il ritornello con cui dovunque lo qualifica è: “vecchio e povero”.

I Precursori e l'Umanesimo

Non tutti i predicatori, naturalmente, trasmettevano una simile immagine, che muoveva a compassione. 

•   I Francescani, in Italia, ed alcuni di prestigio come Bernardino da Feltre e s. Bernardino da Siena, propagavano un Giuseppe molto più evangelico, colmo di tenerezza e di dedizione a Gesù ed a Maria; e persino lo facevano patrono di quella specie di “Banca” primitiva e caritativa che erano i primi “Monti di Pietà”.

•  Attraverso l'Europa apparvero in quel tempo anche i Carmelitani – originari dalla Palestina – che si professavano “Fratelli della Vergine” e che non tardarono a far proprie certe tradizioni circa il loro tratto familiare con la Sacra Famiglia nella loro culla primitiva del Monte Carmelo.

•  Fu, però, dalla Francia che si fece sentire la voce di richiamo per un'attenzione sulla necessità d’una maggior presenza nella Chiesa del Padre di Gesù e sposo di Maria. All'inizio del 1400 una costellazione di apostoli si dedicò a simile missione. 

È sufficiente ricordare il più insigne ed entusiasta: Giovanni Gerson (1363-1429), cancelliere dell'Università di Parigi, che dovette vivere da protagonista il difficile ritorno all'unità della Chiesa con la fine del nefasto Scisma papale d'Occidente. [Proprio nel Concilio di Costanza (1414-1418), questi proclamava la necessità di guardare a Giuseppe, di celebrare la festa delle sue nozze con una Messa e Ufficio che lui stesso aveva steso. Egli compose il primo poema dedicato a Giuseppe, la “Giuseppina” di 4.800 versi. Nelle sue considerazioni e sermoni sul Santo offre già i capitoli che saranno di fondamento a ciò che potremmo chiamare “la teologia” di san Giuseppe.

È indicativo il suo impegno per mutare l'immagine di Giuseppe “vecchio” per uno “giovane”, come per Maria, formulando gli argomenti che si convertiranno in un fortunato luogo comune. Gerson fu una personalità con un prestigio difficile da immaginare (gli si attribuì l'“Imitazione di Cristo”), e per secoli i suoi echi risuoneranno nella teologia, nella predicazione, nella spiritualità e nella mistica. Per coloro che in un modo o in un altro s'interessano di san Giuseppe, il riferimento a Gerson sarà inevitabile.

•    L'Evangelismo presente nelle correnti umanistiche (cioè, che propugnava un ritorno al Cristo evangelico), si ripercossero nel nuovo modo di considerare san Giuseppe: dalla teologia alla predicazione ed alla devozione popolare (alquanto indietro, questa, e scossa soprattutto dai Francescani). L'iconografia rinascimentale cominciò a trattarlo con rispetto e dignità; e la stampa facilitò l'impulso decisivo che fece maggiormente conoscere sia Gerson, sia il primo trattato sistematico giuseppino, la “Somma delle doti di San Giuseppe” del domenicano Isidoro de Isolanis (1525) o l'altra “Giuseppina” di Laredo, uno dei maestri di santa Teresa d’Avila.

L'esplosione del Barocco

Ai tempi vicini al Concilio di Trento [1545-1563] l'attenzione delle “élites” si fuse con le predilezioni popolari. E fu precisamente s. Teresa d'Avila il detonatore in un ambiente in parte ereditato ed in maggior parte accelerato da lei in maniera sorprendente, sia per le sue calorose esortazioni ed esperienze riflesse nel cap. VI del libro della Vita, sia per la coerenza di dedicare i suoi monasteri a san Giuseppe (che non n’aveva nessuno fino a quello di Avila), per la dedizione del suo Ordine al Santo, che lo considerava quasi cofondatore. Là dove giunsero i libri di Teresa ed i suoi conventi di frati e di monache (e arrivarono molto lontano!) si poteva contare su centri d’irradiazione “giuseppina” incondizionata, con feste in cui i predicatori più celebri – come Bossuet – scioglievano lodi al Santo.

Libri ben scritti – come la tanto edita «Josefina» del carmelitano scalzo padre Graçián o il fortunato e immenso poema di Giuseppe di Valdivielso (anch’esso chiamato “Josefina”), solo per citare alcuni dell'incontenibile letteratura apparsa in Spagna nel sec. XVII –; sermoni, devozioni nuove (come quella dei «Sette dolori»)  sicurezza di protezione dinanzi alla morte, che i cristiani desideravano fosse come quella di Giuseppe; confraternite associative o devozionali o assistenziali (come quella dei bambini esposti)... portavano il suo nome; reliquie [non autentiche!] come quelle dell'anello dello sposalizio, il suo bastone fiorito, la sua cappa, (che si veneravano sia a Perugia sia a Parigi...); tutto, e molto di più, testimoniano che Giuseppe, dopo il Concilio di Trento, aveva rotto i silenzi delle epoche anteriori e occupava il primo posto nelle predilezioni spirituali di quasi tutti. 

Segno di tale incontenibile esplosione possono essere l'iconografia, in cui appare un Giuseppe da solo, o accompagnato dal bambino Gesù, slanciato, forte e giovane. Episcopati, province, domini territoriali, persino nazioni intere lo proclamano loro protettore. 

È ciò che successe con monarchia spagnola, ai tempi di Carlo II, in un patronato effimero che non poté affermarsi (come non aveva potuto quello di s. Teresa) per le resistenze procedenti dal Capitolo di Santiago di Compostela. 

In altri luoghi non esistettero tali difficoltà; e così san Giuseppe fu patrono della Nuova Spagna dal 1525; del Belgio più tardi, dell'Impero Germanico, del Canada francese, della Baviera, di Genova; delle missioni cinesi.…

Il patronato non era solo territoriale; lo era anche personale, e molti seguirono l'esempio di s. Teresa nello sceglierlo come avvocato e protettore. Di fatto c'è una certa corrispondenza tra la propaganda teresiana e la frequenza con cui in certi luoghi (dalla Francia alla Polonia) si va imponendo ai bambini nel Battesimo il nome di Giuseppe, con tutte le conseguenze inerenti. Appena presente fino allora, dall'inizio del '600 s’inizia a chiamare Giuseppe o Giuseppina un numero sempre maggiore di bambini, fino a giungere a ciò che fu corrente in Casti-glia (la patria di Teresa): alla fine del secolo più del 12% avevano questo nome, una proporzione che non diminuirà fino al 1964.

•  Contrastava con il fervore del clero (in tutti i suoi settori) e del popolo, l'attitudine di Roma. San Giuseppe, infatti, nonostante tutto, non disponeva di una festa universale, anche se lo si celebrava in forma privata, in quasi tutti gli Ordini religiosi e in diocesi speciali. Finché un Papa, Gregorio X riuscì, nel 1621, ad averla vinta sulle resistenze della Congregazione dei Riti, e a stabilire che la festa di san Giuseppe si celebrasse in tutta la Chiesa, persino come precetto. Nonostante la Messa e l'Ufficio divino fossero liturgicamente poveri e il precetto presto cessasse d’essere universale, non si pone in dubbio l'importanza di questo primo intervento pontificio.

Crescita e crisi

Contrariamente a ciò che si suole affermare, la corrente filosofica dell’illuminismo del 1700 non significò un freno a questa devozione, ma soltanto una depurazione. Com’era naturale, si posero in questione specifiche forme di pietà (determinate reliquie impossibili, maniere popolari di celebrare il Santo) che non erano in concordanza con il nuovo stile esigente e critico che stava nascendo. 

In tal modo Giuseppe diviene più “evangelico”, e col dar valore al matrimonio ed alla famiglia, lo si propone come esempio cui rivolgersi, come avveniva per Gesù e Maria. Continua ad approfondirsi il suo modello di una “buona morte”, ed egli appare invocato nei testamenti, si creano “Confraternite giuseppine”; come non diminuisce di numero il nome di coloro che si chiamano Giuseppe, né la produzione editoriale di ogni genere.

Il momento culminate di tale crescita fu, tuttavia, l'Ottocento, nettamente “Giuseppino”. Pullularono devozioni e i cosiddetti” devozionari” che incontrarono la loro espressione più popolare nelle immaginette (di solito provenienti dalla Francia) che invasero il mercato. 

Il nuovo tipo di vita religiosa, di presenza sociale nell'insegnamento e negli ospedali, cioè, le Congregazioni religiose moderne, guardò con predilezione a Giuseppe: delle (circa) 239 che portano il nome del Santo, l'immensa maggioranza è di questo secolo. Nelle case e nelle chiese s’iniziò a recitare la preghiera: «A Te, o beato Giuseppe...» per chiedere la protezione del Santo in “tempi calamitosi” (come si diceva allora). La preghiera proveniva dallo stesso Leone XIII, il Papa che promulgò l'unica enciclica esistente (1889) su san Giuseppe e che stabilì per tutta la Chiesa la festa della Sacra Famiglia durante il tempo Natalizio. 

La decisione pontificia più indicativa fu, tuttavia, quella di Pio IX, che proclamò san Giuseppe Patrono della Chiesa Universale (1870), estendendo a tutta la Chiesa una festa che già tante Istituzioni celebravano privatamente da quando lo iniziarono nel '600 i Carmelitani Scalzi.Poco progresso, invece, si notò nella riflessione scritturistica e teologica, e neppure molto in quella liturgica, sempre a rimorchio della devozione. 

Le innumerevoli campagne che dagli inizi del secolo si misero in piedi per ottenere la presenza di san Giuseppe nella Messa (nell'atto penitenziale, e soprattutto nel Canone) insieme a tanti altri santi – per lo più romani –, urtarono sempre contro la resistenza rocciosa della Sacra Congregazione dei Riti, decisa a non toccare in nulla ciò che da sempre era una venerata antichità. In verità, la presenza di san Giuseppe nel culto ufficiale e generale della Chiesa, è dovuto a decisioni personali di Papi devoti, contro l'opposizione dei corrispondenti Dicasteri.

Il contraddittorio secolo XX

Tali inerzie e contraddizioni permangono nel secolo XX con il Concilio Vaticano II, come fulcro di mutamenti sostanziali, che non furono soltanto ecclesiali, ma pure sociali, di mentalità e di religiosità. 

Fino agli anni '60 si percepisce la continuità di forme devozionali anteriori. Ma dopo quegli anni, anche san Giuseppe è toccato dalle nuove correnti (forse più del clero che popolari), ed entra nella linea, a volte addirittura disprezzata, delle “devozioni” in generale.

È vero che Pio XII, nel 1955, stabilisce la festa di “San Giuseppe Lavoratore”, però la sua attenzione era rivolta più al mondo del lavoro, al 1° maggio, che allo Sposo artigiano di Maria; e per di più tale Festa fu introdotta a spese di quella del “Patrocinio Universale”, soppressa in quel tempo. 

Nel 1962 Giovanni XXIII *– facendo proprie le proposte promosse dai Centri “Giuseppini” di Valladolid, Montreal (Canada) e d’Italia, e la petizione di mons. Benedetti (carmelitano scalzo prima di essere vescovo di Lodi – che in pieno Concilio ne aveva espresso il desiderio) decretava l'introduzione del nome di san Giuseppe nel Canone romano. Tale introduzione – in sé rilevante – fu però presto ridotta a ben poco con la riforma liturgica conciliare, che propose altre preghiere liturgiche che in sostanza annullarono quella del Canone romano.

Fu invece l'investigazione teologica quella che maggiormente manifestò progressi. La teologia, che nel secolo passato (1900) enumera non pochi trattati su san Giuseppe, fu inizialmente di tipo scolastico. Verso gli anni '40 iniziò ad apparire la prima rivista d’investigazione specializzata, “Estudios josefinos” (Valladolid), cui si unì nel decennio successivo la sua replica canadese (“Cahiers de Joséphologie” – Montreal). Ambedue presentavano i lavori di “Società di studi” radicati nel “Centro Josefino” di Valladolid e nell'“Oratorio di San Giuseppe” a Montreal (Canada). Organizzati da Valladolid si celebravano Settimane di Studi, i cui prodotti erano speculativi o storici, ma a volte di singolare valore. Dal tempo del Vaticano II si è mantenuta la linea d’investigazione storica, sempre più però, secondo posizioni maggiormente biblici, evangeliche e pastorali.

A questi due Centri se ne unirono altri in Messico, Cile, Polonia, vari in Italia, Malta e persino in Corea. Fra loro si organizzano, dal 1970, simposi internazionali, che hanno tentato – ed a volte ottenuto – di scoprire la presenza di san Giuseppe nel mistero di Cristo e nella vita della Chiesa. 

Come testimonianza popolare od espressioni della spiritualità di Congregazioni giuseppine, appaiono numerose riviste di divulgazione (una delle più antiche è il “Messaggero di S. Giuseppe” , Valladolid). Esistono luoghi di pellegrinaggi come quello dell'Oratorio di san Giuseppe a Montreal.

*  Ai nostri giorni?  Ora come ora, san Giuseppe non suscita tanti entusiasmi come prima. Si può affermare, che, indotta da altre cause, la devozione popolare verso di Lui è diminuita. [Nota. Perché nelle Litanie della Madonna non è inserita “Maria sposa?”], Si registra, invece, un rinnovato interesse, però soltanto fra minoranze, convinte della possibilità che san Giuseppe – sempre partendo dal mistero dell'Incarnazione – possa offrire per la riflessione teologica e per la vita cristiana, così com’è esposta nell’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, "Custode del Redentore"

* Non tutti sanno che papa Giovanni XXIII, nel salire al soglio pontificio aveva accarezzato l’idea di farsi chiamare Giuseppe, tanta era la devozione che lo legava allo Sposo di Maria. Nessun pontefice aveva mai scelto questo nome, che in verità non appartiene alla tradizione della Chiesa, ma il “papa buono” si sarebbe fatto chiamare volentieri Giuseppe I, se fosse stato possibile, proprio in virtù della profonda venerazione che nutriva per questo grande Santo. 

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A te, o Beato Giuseppe

A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio insieme con quello della tua santissima Sposa. Per quel sacro vincolo di carità che to strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, riguarda, te ne preghiamo con occhio benigno, la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potente aiuto soccorri ai nostri bisogni.

Proteggi, o provvido custode della divina famiglia l’eletta prole di Gesù Cristo; allontana da noi, o Padre amatissimo, la peste di errori e di vizi che ammorba il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta contro il potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore, e come un tempo salvasti dalla morte la minaccia alla vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità e stendi ognora sopra ciascuno di noi il tuo patrocinio, affinché a tuo esempio e mediante il tuo soccorso possiamo virtuosamente vivere, piamente morire e conseguire l'eterna beatitudine in cielo. Amen.

ALLEGATI

Letteratura apocrifa e san Giuseppe

La letteratura apocrifa (non riconosciuta dalla Chiesa come “rivelata”) intorno a Giuseppe sviluppò molti motivi leggendari, tuttavia non privi d'interesse per l'influsso che hanno avuto nella tradizione e nell'arte. 

I principali Apocrifi che si occuparono del Santo sono: “Proto-evangelo di Giacomo” (sec. Il), “Pseudo-Tommaso” (probabilmente sec. III), “Pseudo-Matteo” (sec. V), “De nativitate Mariae”, “Evangelo arabico della Infanzia”, e in particolare la “Storia di Giuseppe falegname” (sec. IV o V). 

I primi cinque Apocrifi abbracciano il solo periodo dell'Infanzia di Gesù. L'ultimo – “Storia di Giuseppe...” – pretende di raccontare la storia di Giuseppe per bocca stessa di Gesù in un colloquio con gli Apostoli. per la storia dell'infanzia, invece, segue per lo più il “Proto-evangelo di Giacomo” ed i Vangeli canonici; di proprio ha  le notizie sugli ultimi giorni e la morte di Giuseppe, ed è interessante per le idee sull'oltretomba.

Secondo tali racconti, Giuseppe si unì in matrimonio una prima volta, all'età di 40 anni, con una donna per nome Melcha o Escha, con cui visse 49 anni; da lei ebbe 4 figli – quelli che più tardi saranno chiamati “fratelli del Signore” – [qualche apocrifo aggiunge 2 figlie]. il minore sarebbe Giacomo, presunto autore del Proto-evangelo che ne porta il nome e testimone dei fatti dell'Infanzia di Gesù. 

Rimasto vedovo all'età di 89 anni, Giuseppe seguitava ad esercitare il suo mestiere di falegname in Betlemme sua patria. Qui fu ricercato dai sacerdoti del Tempio per essere dato in sposo ad una fanciulla di 14 anni per nome Maria. Ma, essendovi altri competitori, il sommo sacerdote affidò la scelta alla volontà divina, che si manifestò con il miracolo del bastone fiorito, e, – secondo lo “Pseudo-Tommaso” –, con l'apparizione della colomba sul capo di Giuseppe. 

È noto l'influsso di tale episodio, specialmente della “verga fiorita” – del resto assai suggestivo per il suo simbolismo – nell'iconografia del Santo e nell'arte cristiana: si ricordi il celebre quadro di Raffaello “Lo Sposalizio”. 

Due anni dopo seguì l'Annunciazione. Giuseppe era assente. Quando tornò, nella sua sposa erano palesi i segni della maternità. Oltre il turbamento del Santo, gli Apocrifi riferiscono l'episodio della prova dell'acqua amara (cf. Num. 5, 11 ss.), da cui risultò l'innocenza di Giuseppe e di Maria. 

Seguono gli altri episodi della nascita ed infanzia di Gesù fino ai 12 anni (viaggio a Betlemme, fuga in Egitto, ritorno a Nazareth, ecc.), che corrispondono nella sostanza a quelli dei Vangeli canonici, ma con frequenti chiose ed amplificazioni, e con una esuberanza del prodigioso che cade nel ridicolo. Alcuni particolari non solo sono futili, ma poco riguardosi per Giuseppe: così, p. es., il ragionamento che gli si mette in bocca all'arrivo a Betlemme (“Proto-evangelo di Giacomo”, 17); a Nazareth egli viene a trovarsi più d'una volta in imbarazzo per l'indole vivace del fanciullo e per i suoi miracoli punitivi (“Pseudo Tommaso”, 3 ss). 

Secondo l'apocrifa “Storia”, Giuseppe sarebbe morto all'età di 111 anni, dopo aver trascorso una ventina di anni con Gesù a Nazareth. Negli ultimi giorni l'infermo avrebbe sentito nausea del cibo e della bevanda, e sarebbe stato in preda a forte turbamento, ma Gesù l'avrebbe consolato, pregando il Padre ad inviare gli arcangeli Michele e Gabriele: questi ne avrebbero ricevuta l'anima alla uscita dal corpo, il quale, affidato alla custodia di due angeli, sarebbe rimasto incorrotto “fino al convito di mille anni”.

•• Quel che maggiormente urta negli Apocrifi, oltre i frequenti episodi frivoli, è l'asserita età decrepita di Giuseppe al tempo dello sposalizio con Maria. È una leggenda che si deve rigettare, quantunque abbia fatto presa nella fantasia popolare, fino ad oggi. 

Forse in un primo tempo poté sembrare utile espediente per dimostrare ai semplici in maniera chiara la perpetua verginità della Madre di Dio. Ma si rivela subito paradossale, ad un'ovvia considerazione: non si sarebbe salvata la dignità ed onorabilità di Maria – dovendo restare un segreto la concezione verginale –, se il suo sposo fosse stato un vecchio decrepito di 90 anni; inoltre non poteva essere ritenuto padre di Gesù un vecchio di tale età. Era dunque necessario che tra Maria e Giuseppe, all'atto del matrimonio, non ci fosse un incolmabile distacco di anni. Queste ragioni hanno anche un solido appoggio nelle rappresentazioni più antiche (dei primi cinque secoli), nelle quali il Santo non è mai rappresentato in sembianza di vecchio, ma di giovane o di uomo maturo nel pieno vigore degli anni, per lo più senza barba. Solo più tardi, per l'influsso degli Apocrifi, si comincio a rappresentarlo con la barba e i capelli bianchi ed in sembianze senili. 

Non è possibile, tuttavia, determinare esattamente l'età di Giuseppe al tempo del matrimonio con Maria: doveva probabilmente oscillare sui 30 anni. E se morì poco prima dell'inizio della vita pubblica di Gesù, doveva avere alla morte ca. 60-70 anni, tenuto conto che la vita nascosta di Nazareth durò ca. 32-34 anni.

La Morte di san Giuseppe (poesia)

Giuseppe muore... Nessuno ha detto come dovette morire...   

 È venuto senza rumore; ha lottato senza gloria;   

Attore silenzioso d’una sublime storia,  

scomparve un giorno per non più comparire. 

L’abbiamo visto passare sullo sfondo della scena,   

il Figlio di Dio sui suoi passi, la Vergine al fianco;    

piallava di giorno; e gli angeli, di notte, 

lo mettevano al corrente dei complotti dell’odio. 

Alla partenza di Gesù, terminò il suo compito; 

e su di lui ormai tacerà il Vangelo.

Una sera, dovette lasciare la sua pialla inutile 

e coricarsi, con Maria al suo capezzale. 

La notte scendeva, simile a quella notte lontana 

in cui l’Angelo del Signore lo svegliò per fuggire...

Ritorna, questa sera, per aiutarlo a morire;

e Giuseppe sente la sua voce dolce e serena. 

L’Angelo diceva: «Giuseppe, figlio di Davide, sono ancora io.

Riposa in pace, perché il Bambino e sua madre 

non avranno più da temere pericoli sulla terra. 

Ora possono vivere e morire senza di te». 

Ma Giuseppe tardava ad addormentarsi. Senza dubbio 

attendeva qualcuno che desiderava rivedere, 

perché tendeva l’orecchio ai rumori della strada 

e nei suoi occhi passava un barlume di speranza. 

Si alza d’improvviso... Un passo rompe il silenzio; 

la porta di casa si socchiude sulla notte, 

e Gesù, superando la soglia della sua infanzia, 

si avvicina a suo padre e si china su di lui. 

Quanto dovette camminare per venire! La polvere 

ricopre i suoi piedi nudi e sottolinea i suoi tratti. 

Ma dal suo sguardo chiaro emana una luce 

della quale gli occhi di Giuseppe si riempiono per sempre. 

Maria ha sussurrato: «Sei tu Figlio mio!». E l’Angelo 

si prostra. Gesù, curvo sull’infermo, 

stringe suo padre; non si scambiano parole tra loro. 

Gesù libera alla morte il suo primo combattimento! 

E nell’ombra, la morte impotente s’attarda... 

Ma il vecchio operaio non si aspetta, così tardi, 

che suo Figlio gli renda un cuore giovane e forte: guarda 

il divino viso e muore in questo sguardo. 

Ah! Beato colui che, con anima fiduciosa, 

dopo aver pregato, sofferto e lavorato, 

una sera, si è sdraiato per fatica ed attesa, 

e poi, in un bacio divino, se ne è andato!...


Georges D’Aurac www.biblisem.net/narratio/auracmj.htm