Momenti di preghiera e riunioni a Niamey (NIGER)
Frantz Fanon
Momenti di preghiera e riunioni a Niamey (NIGER)
Frantz Fanon
La febbre dell’oro nel Sahel
Partito dal Paese più ‘giovane’ del mondo, il Sud Sudan, James si è prefisso di cercare l’oro ovunque si trovasse. Parte dalla capitale Djuba nel 2021 e passa nell’altro Sudan per raggiungere il Ciad. Lavora per qualche mese in una zona aurifera e riesce a mettere da parte qualche centinaio di migliaia di franchi locali. Di ritorno dalle miniere è derubato dai banditi di quanto aveva faticosamente risparmiato. Arriva in Libia e vi rimane il tempo necessario per capire di andare dove l’oro è a portata di mano, per esempio nel confinante Niger. James si impegna per seguire il cammino dell’oro e ne trova quanto basta per decidere di partire. Ma solo per essere derubato da banditi o da ‘terroristi’ che gli portano via il ricavato di altri mesi di arduo scavo nelle miniere della zona. Non gli rimane che andare ancora più lontano e tentare la sorte nel confinante Burkina Faso.
Lavora duro per sei mesi e la somma accumulata passa il milione di franchi che gli sono sottratti da elementi dei gruppi armati che finanziano l’insurrezione nel Sahel anche grazie al sostegno dell’oro. Conoscono le zone, le piste, i passaggi e James può dirsi fortunato se ha salvato la vita. Gli hanno preso tutto quanto possedeva, soldi, borsa da viaggio e i documenti che gli rimanevano dopo tutti questi viaggi. Stavolta è l’oceano Atlantico a sedurlo perché raggiunge prima il Togo e poi il Benin. Senza più nulla in tasca riesce in qualche modo a percorrere lo stesso cammino a ritroso. I militari del Burkina lo accompagnano alla frontiera col Niger. Sbarcato da una settimana nella capitale del Paese, Niamey, non esita a presentarsi presso le agenzie delle Nazioni Unite. Senza documenti di viaggio o d’identità appare nell’ufficio ‘migranti’ con un foglio che porta la scritta ‘Cattedrale Zongo’.
Accanto al nome della cattedrale c’era quello del sottoscritto e dunque James può raccontare la sua storia affascinante e tragica di cercatore d’oro. Non ha casa, cibo, lavoro, documenti e solo gli rimane la storia vissuta e il desiderio di tornare al suo Paese di origine con la complicità delle apposite istituzioni delle Nazioni Unite. James è consapevole che le locali autorità esigono documenti in regola e continua a sostenere che finora in Africa si poteva viaggiare così, liberamente e senza documenti particolari. E’ accampato presso l’Ufficio Polivalente delle Nazioni Unite per i rifugiati e richiedenti asilo i cui bisogni superano largamente le reali possibilità del Servizio. Convivono all’aperto altri sudanesi, centroafricani, somali e cittadini originari dell’Etiopia, Yemen e Palestina. Un’intera cartina geografica dei disastri provocati da interessi, guerre, lotte di potere, armi e follia geopolitica.
James rimane imperturbabile e anche quanto racconta di essere stato derubato dal ricavato dell’oro sembra come parlare di avvenimenti ineluttabili. La persona che ha attraversato il Sudan, il Tchad, la Libia, il Niger, il Burkina Faso, il Togo, il Benin e il ritorno nel Niger non è la stessa di prima. Lui stesso è stato attraversato dalle frontiere dell’oro e dei banditi che l’hanno derubato del lavoro e del tempo. James vuole tornare al suo Paese di origine, il Sud Sudan, malgrado il Paese sia tutt’altro che stabile, ma non gli importa. Afferma sottovoce che l’oro che cercava lontano si trovava dentro di lui.
Mauro Armanino, Niamey, maggio 2025
Narrative e realtà nel Sahel Centrale
Com’è noto i fatti non parlano da sé. Vanno contestualizzati e soprattutto interpretati con onestà. Da ciò si deduce l’importanza crescente delle narrazioni che hanno l’ambizione di ‘raccontare’ la realtà. Quest’ultima è, come si suol dire, ‘testarda’ e come ogni verità che si rispetta arriva tardi ma, inesorabile, arriva. In questa parte del mondo si sono inventati i ‘griot’ o cantastorie che, con arte che si trasmette di generazione in generazione, narrano genealogie e avvenimenti che glorificano (e talvolta) contestano il potere. La realtà fatta di avvenimenti scorre, ambigua, tra le loro parole.
Oggigiorno sono i social network che giocano questo ruolo in termini, spesso, di mera propaganda ideologica. Le parole chiave dei Paesi che compongono il Sahel Centrale, Burkina Faso, Mali e Niger, riflettono quanto sotto altri cieli si definisce populismo sovranista. La salvaguardia della patria si innesta sulla sovranità nazionale e il tutto sfocia in una ‘rifondazione’ che dovrebbe riaprire l’orizzonte, finora tradito, della vera realtà. Non casualmente dunque, questi paesi, per coerenza con quanto enunciato sopra, liquidano i partiti e la vita politica del Paese si traduce in meri simboli.
Le tre bandiere del Paesi citati poste sulle rotonde della capitale, sbiadite e dimenticate nel vento sono sostituite da una bandiera unica. C’è pure un nuovo passaporto che non apre le frontiere ancora chiuse per scelta. Si è creato un nuovo inno battezzato ‘La Confederale’. Operano comitati notturni e diurni che vegliano alla buona salute del regime presunto antimperialista, panafricanista e rivoluzionario. Si creano nuove alleanze e nuovi partner senza rinnegare i vecchi. Tra un simbolo e l’altro la realtà torna, ostinata, ad affacciarsi sull’arduo e inesorabile quotidiano dei cittadini nigerini.
Non casuale appare lo sforzo dei Paesi in questione di ‘orientare’ e rendere ‘compatibile’ coi regimi militari l’informazione e la ‘narrazione’ a senso unico della realtà. I giornalisti o i cittadini che sarebbero tentati di proporre una forma di racconto differente da quello ‘ufficiale’, incappano in sequestri, sparizioni, interpellazioni presso le unità antiterroriste e, talvolta, imprigionamenti. Il ‘Ministero della Verità’, come ricordava l’autore George Orwell, ha un brillante futuro davanti a sé. Non fosse che la realtà ha il difetto di essere testarda e, alla fine, si impone sempre.
George Orwell
Mauro Armanino, Niamey, maggio 2025
sabato 17 maggio 2025
Il giorno della Costituzione norvegese è la festa nazionale norvegese. I norvegesi la chiamano semplicemente syttende mai, o Grunnlovsdagen, sebbene quest'ultima dicitura sia la meno frequente Il 17 maggio è l'anniversario della firma della Costituzione del 1814. In Norvegia il Giorno della Costituzione è una festa grandiosa. e viene celebrato con una sfilata di bambini oltre ad altri eventi per adulti e bambini.
La nostra costituzione, che decretò la Norvegia una nazione indipendente, fu firmata il 17 maggio 1814. Nonostante l'indipendenza non fu pienamente raggiunta fino al 1905, questa data rimane la giornata nazionale della Norvegia, ed è una festa nazionale.
I Punti salienti della giornata sono la sfilata dei bambini, le bandiere norvegesi ed i costumi nazionali che riempiono le strade. La sfilata a Oslo è composta di circa 60.000 bambini oltre a bande musicali.
Le scuole si dirigono da Festning plassen, Youngstorget e Stortorvet verso Karl Johans gate, e percorrono la via principale fino al Palazzo Reale, dove la famiglia reale saluta il corteo dal balcone. Dopo il passaggio dal palazzo reale, i bambini vanno in Rådhusplassen. Lungo la Karl Johans Gate e davanti al castello c'è sempre molta folla, con molte persone vestite negli abiti tradizionali in occasione della giornata.
Harald V (Skaugum, 21 febbraio 1937) è il re di Norvegia dal 1991, unico figlio maschio di Olav V e della principessa Marta di Svezia.
È il primo re di Norvegia a essere nato nel paese dai tempi di re Olav IV Haakonsson (1370 - 1387). Alla nascita era secondo nella linea di successione dopo suo padre. Nel 1940, a seguito dell'occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale, la famiglia reale andò in esilio. Harald trascorse parte della sua infanzia in Svezia e negli Stati Uniti. Tornò in Norvegia nel 1945 e successivamente studiò all'Università di Oslo, all'Accademia militare di Norvegia e al Balliol College dell'Università di Oxford. Nel 1957, alla morte del nonno, re Haakon VII, Harald divenne principe ereditario. Appassionato sportivo, rappresentò il suo paese nelle competizioni di vela alle Olimpiadi di Tokyo 1964, Città del Messico 1968 e Monaco di Baviera 1972 e più tardi divenne patrono della Federazione Internazionale della Vela. Nel 1968 sposò la borghese Sonja Haraldsen. Inizialmente tale matrimonio fu contrastato a causa dello status di comune cittadina della Haraldsen. La coppia ha due figli, Martha Louise e Haakon, l'erede al trono ed ora reggente poiché il padre è molto malato.
Harald V (Skaugum, 1937) è il re di Norvegia dal 1991. È il primo re di Norvegia ad essere nato nel paese dai tempi di re Olav IV Haakonsson (1370 – 1387). Nel 1940, a seguito dell’occupazione tedesca durante la Seconda guerra mondiale, la famiglia reale andò in esilio. Harald trascorse parte della sua infanzia in Svezia e negli Stati Uniti. Tornò in Norvegia nel 1945 e poi studiò presso l’Università di Oslo, l’Accademia militare di Norvegia e nell’Università di Oxford. Nel 1957, alla morte del nonno, re Haakon VII, Harald divenne principe ereditario. Appassionato sportivo, rappresentò il suo Paese nelle competizioni di vela alle Olimpiadi di Tokyo 1964, Città del Messico 1968 e Monaco di Baviera 1972 e più tardi divenne patrono della Federazione Internazionale della Vela. Nel 1968 sposò la borghese Sonja Haraldsen. La coppia ebbe due figli, Martha Louise e Haakon, l’erede al trono.
E anche il suo re, Harald V, merita di essere meglio conosciuto. Con piacere raccolgo dal cassetto della memoria le forti parole da lui pronunciate nel Palazzo reale il 1° settembre 2016. Un discorso difficile in un periodo storico dominato dalla paura e dall’incertezza.
"La Norvegia è alte montagne e fiordi profondi. È spazi aperte e coste rocciose. È isole e arcipelaghi. È rigorose terre agricole e brughiere. Il mare lambisce le coste della Norvegia nel nord, ovest e sud. La Norvegia è il sole di mezzanotte e la notte polare. È inverni duri e inverni miti. È estati calde ed estati fredde. La Norvegia è un Paese lungo e scarsamente popolato. Ma prima di tutto la Norvegia è la sua gente.
I norvegesi vengono dal nord della Norvegia, dalla Norvegia centrale, dal sud della Norvegia e da tutte le altre parti della Norvegia. I norvegesi sono immigrati da Afghanistan, Pakistan e Polonia, dalla Svezia, Somalia e Siria. Anche i miei nonni centodieci anni fa vennero qui emigrando dalla Danimarca e dall’Inghilterra.
Non è sempre facile dire da dove veniamo, a quale nazionalità apparteniamo.
Casa è dove sta il nostro cuore, e questo spesso non si trova all’interno dei confini di uno Stato.
I norvegesi sono giovani e anziani, alti e bassi, fisicamente abili e persone su sedie a rotelle. Sempre più persone raggiungono cento anni d’età. I norvegesi sono ricchi, poveri e una via di mezzo.
Ai norvegesi piacciono il calcio e la pallamano, l’alpinismo e la vela – mentre altri preferiscono rimanere sul divano. Alcuni sono sicuri di sé, mentre altri fanno fatica a credere di essere all’altezza di se stessi.
I norvegesi lavorano nei negozi, negli ospedali, sulle piattaforme offshore. I norvegesi lavorano per tenerci al sicuro e protetti, per tenere il nostro Paese libero dall’inquinamento e per trovare nuove soluzioni per un futuro verde. I norvegesi I norvegesi sono giovani ed entusiasti, e persone anziane e sagge.
I norvegesi sono single, divorziati, famiglie con figli, e coppie sposate di lunga data. I norvegesi sono ragazze che amano ragazze, ragazzi che amano ragazzi, e ragazzi e ragazze che si amano l’un l’altro.
I norvegesi credono in Dio, in Allah, in tutto e in nulla.
Ai norvegesi piacciono i musicisti Grieg e Kygo, Helibillies e Kari Bremnes.
coltivano la terra e pescano. I norvegesi fanno ricerca e insegnano.
In altre parole, tu sei la Norvegia, noi siamo la Norvegia. Quando cantiamo ‘Ja, vi elsker dette landet’ (Sì, amiamo questo Paese, l’inno nazionale norvegese), dobbiamo ricordarci che l’inno parla di tutti noi. Perché noi siamo questo Paese. Quindi il nostro inno nazionale è anche una dichiarazione d’amore per il popolo norvegese.
La mia più grande speranza è che saremo in grado di prenderci cura l’uno dell’altro. Che noi continuiamo a costruire questo Paese basandolo sui valori della fiducia, della comunità e della generosità. Che noi siamo consapevoli di essere un solo popolo, nonostante ogni differenza tra noi. Che la Norvegia è una."
Perché nulla cambi
La cosa migliore è quella di cambiare tutto. Lo scrisse in un noto passaggio Tomasi di Lampedusa ne’ Il gattopardo’. Dal mio arrivo, nel 2011, il Niger viene classificato agli ultimi posti nell’Indice dello Sviluppo Umano. Il rapporto annuale, pubblicato recentemente dalle Nazioni Unite, seppur sfumando i dettagli, conferma che l’Africa sub-sahariana conserva in classifica le posizioni di coda. I fattori presi in considerazione per stilare la graduatoria sono tre. Si tratta della speranza di vita, l’indice di istruzione e il prodotto interno lordo pro capite. I regimi militari seguono quelli civili che sfociano in colpi di stato a loro volta creatori di periodi di eccezione e terminare, per ora, nella ‘rifondazione’ del Paese. Tutto ciò passa e il Niger rimane, nel rapporto citato, non lontano dall’ultimo posto della lista.
Paese incastonato nel Sahel Centrale, il Niger, per la sua posizione geografica, è una Terra di Mezzo, uno degli spazi di passaggio verso l’Africa del Nord. Non casualmente fu proposto e in parte ‘imposto’ dall’Unione Europea come argine ufficiale alla mobilità dei migranti proveniente dalla costa atlantica o l’Africa Centrale. Il Niger divenne come una frontiera mobile, invisibile e reale per migliaia di persone che tentavano di tradurre a proprio conto il diritto di viaggiare così come sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani al numero 13. Secondo l’attuale ministro delle Giustizia e dei Diritti Umani nel rapporto periodico del Niger a Ginevra, il Paese ha ricevuto 1 844 661 migranti nel 2018 e 451 857 nel 2022. L’attuale regime ha abolito la legge che criminalizzava e dissuadeva la mobilità dei migranti.
Ciò cambia tutto e non cambia nulla perché la confinante Algeria continua ad arrestare, spogliare di tutti i beni, deportare, espellere e abbandonare migliaia di migranti nel deserto che la separa dal Niger. Sono migliaia i migranti che sopravvivono in condizioni al limite dell’umano nella cittadina nigerina frontaliera di Assamaka. Le cose non vanno meglio in Tunisia anche grazie agli accordi con l’Unione Europea con l’Italia in testa. Peggio ancora in Libia dove, dalla guerra della Nato e l’assassinio di Mohammed Kaddafi, nel 2011, ha ridotto in macerie incattivite un Paese che godeva di un livello di vita notevole. Da anni ormai i migranti, i rifugiati, i richiedenti asilo e le persone in cerca di lavoro in Libia sono detenuti e usati da schiavi in campi di concentramento più volte denunciati dall’ONU.
Nel 2025, l’Ufficio per la Coordinazione degli Affari Umanitari delle Nazioni Unite, stima che 4,8 milioni di persone, il 18,31% della popolazione, avrà bisogno di aiuto umanitario. Di questi più di tre milioni avranno bisogno di aiuto alimentare d’urgenza per la prossima stagione di passaggio. Inoltre, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il Niger accoglie un numero importante di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati. Quest’anno ancora circa un milione di persone si trovano nel Paese, in particolare nelle regioni di Tillaberi, Diffa e Tahoua. Un Paese povero che si trova ad accogliere altri ancora più poveri. Anche in questo nulla è cambiato in questi anni dove tutto cambia perché niente cambi. Gli attacchi dei gruppi armati si intensificano e creano nuovi sfollati.
Proprio stamane è passato un migrante liberiano, vecchia conoscenza del nostro servizio. Dice di essere appena tornato dallo ‘snodo’ migrante che è la città di Agadez. Ha passato due anni in carcere con l’accusa di terrorismo perché si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato. E’ stato finalmente rilasciato perché l’accusa era infondata. Torna a Niamey, dove nulla è cambiato, senza una casa, abiti, cibo e un futuro da inventare sulle incertezze del passato. Mostra la carta d’identità che lo ha salvato e, prima di partire, chiede una croce perché ha smarrito quella che portava.
Mauro Armanino, Niamey, maggio 2025
Finché c’è un nemico ci sarà speranza
(per il potere)
Nel Sahel i nemici non mancano. Dal caldo torrido di stagione, alla polvere permanente per arrivare alle inedite inondazioni di questi ultimi anni, i nemici non mancano. Ma non si tratta di questi, tutto sommato ciclici. I nemici di cui non è proprio possibile fare a meno sono altri. La storia di questa porzione d’Africa, tra le due rive così come il nome Sahel indica, è successione di guerre, jihad, imperi, colonizzazioni e fragili tentativi di liberazione. Come dire che la figura del nemico è stata coltivata in modo assiduo e creativo in tutti questi secoli. Non ci si dovrebbe dunque stupire di loro, i nemici che anzi fanno parte del paesaggio storico, culturale e politico del Sahel.
I colpi di stato militare e i conseguenti regimi di eccezione che a tutt’oggi marcano il Sahel Centrale appaiono come una semplice e conseguente applicazione del titolo sopra enunciato. Finché ci saranno nemici i giorni felici dei militari al potere non saranno prossimi a finire. Nel Niger, ad esempio, il colpo di stato militare del luglio del 2023 è stato giustificato dalla minacciosa presenza di due nemici. L’insicurezza crescente nel Paese dovuta ai ‘gruppi armati terroristi’ e alla pessima gestione della cosa pubblica e le risorse dello Stato. Entrambi nemici veri, agguerriti e pronti, secondo i fautori del golpe, a far perfino sparire il Niger come entità autonoma e repubblicana, dalla cartina.
Poi, strada facendo, il nemico è andato precisandosi. Nuovi e inediti scenari hanno offerto al grande nemico nuovi orizzonti. La cacciata della base militare francese dal cuore della capitale Niamey, gli interessi francesi, la storia coloniale francese e i suoi inenarrabili soprusi e umiliazioni, sono stati un tempo forte di identificazione e di vittoria sul nemico principale. Altri nemici sono in seguito apparsi. Il neocolonialismo occidentale e la complicità della Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale con le sanzioni economiche. Di lì a identificare l’imperialismo, come nemico permanente esteriore da combattere, il passo è stato breve. Ottenere un visto per il Niger dai Paesi incriminati è un percorso da combattente. Giunti all’aeroporto il vostro passaporto sarà confiscato per il tempo necessario.
Dai nemici esterni, assai ben identificati in numero e qualità crescenti, si passa ai nemici ‘interni’. Si tratta dei politici, istituzioni e regole della democrazia liberale con elezioni regolari ad essere demonizzati. La corruzione, la svendita del Paese e le sue ricchezze alle potenze straniere sono senz’altro l’altro nemico da abbattere. I partiti sono sospesi così come la vita politica del Paese e la stessa libertà di associazione è sotto controllo. La parola chiave di questa fase sarà dunque ‘rifondazione’ che si usa appaiata con ‘sovranità nazionale’ in tutti gli ambiti. Alimentare, militare, economica, culturale, umanitaria, educativa, sportiva, informativa e, naturalmente, religiosa.
Si passa in seguito ai gruppi armati che minano la sicurezza e la cosiddetta e mai ben definita ‘coesione sociale’ di centinaia di migliaia di persone nel Paese. Risultano necessarie armi sofisticate, investimenti bellici e forze militari ben preparate e motivate per combattere il nemico in una guerra complessa e asimmetrica. I costi in vite umane nei confronti di questo nemico spesso invisibile e mobile sono rilevanti. Giovani soprattutto che, in ambo i campi, perdono la vita per Altri che, più grandi di loro, spesso prosperano altrove e profittano dell’ecomia di guerra per arricchirsi. Si tratta di nemici che assicurano un futuro assai promettente per i venditori e i commercianti d’armi.
Nemici esterni, interni e dunque ‘eterni’. Sembra piuttosto difficile, per un regime nel quale le armi sono una garanzia di continuità, che i nemici vengano un giorno a finire. Sarebbe per molti un vero dramma ma non c’è da temere. Come dice il noto proverbio...’chi cerca trova’.
Mauro Armanino, Niamey, maggio 2025
La ragazza vive la sua giovinezza isolata, i genitori la circondano di attenzioni, la madre, Agnes, molto amorevole, le trasmette la passione per la pittura. Insieme si dipingono ad acquarello cartoline di Natale, per poi rivenderle. Questa piccola attività diventa un modo per contribuire al sostentamento della famiglia.
Maud a pochi anni di distanza perde i suoi genitori, nel 1935 il padre, John Dowley e nel ’37 la madre Agnes. Il fratello maggiore, Charles, divenuto erede universale, la costringe a ritirarsi nella casa di una zia a Digby.
Non ci sono gioie per Maud che, con il suo carattere mite, continua ad essere travolta dagli eventi. Dopo una relazione con il giovane Emery Allen, nasce Catherine, ma Emery non si assume nessuna responsabilità e Maud è costretta a dare in adozione la sua unica figlia, con la quale non si ricongiungerà mai.
Maud, nonostante tutte le avversità, mantiene una grande forza d’animo e sente sempre di più il bisogno di crearsi una vita indipendente. Risponde così a un annuncio di ricerca di una domestica. Maud si reca a casa di Everett Lewis, un venditore ambulante di pesce. In realtà non era una vera e propria casa, ma una piccola baracca, composta da un’unica stanza e un sottotetto, che serviva da camera da letto. Nella casa non c’era nessun comfort, non c’erano né acqua né elettricità, solo una stufa a legna che serviva per riscaldare e cucinare.
Ma Maud in quella umile dimora trova tutto ciò che desidera: la libertà.
Lentamente il rapporto tra Maud ed Everett si trasforma, finché decidono di sposarsi. Maud dipingeva, dipingeva continuamente. I suoi colori invadono la piccola dimora, ogni angolo viene dipinto, in ogni superficie c’è una traccia del passaggio dei suoi pennelli: sui vetri, le porte, le finestre, le mensole, le pareti.
La coppia vive poveramente, in una casa fredda che fa peggiorare le condizioni di salute della pittrice, ma Maud non si arrende e instancabile continua a lavorare e a dipingere. Fuori dalla baracca appende un cartello con scritto: “Painting for sale”.
Si sparge la voce e le persone raggiungono l’umile casa per comprare i suoi quadri, e per ordinarne altri. Per la maggior parte della sua vita lavora così, nell’anonimato, fino a quando nel 1964 il quotidiano nazionale di Toronto, lo Star Weekly, le dedica un articolo portando all’attenzione del pubblico l’arte di questa artista unica.
"Maud Lewis – scrive Stefania Delendati – una delle artiste folk canadesi più conosciute, aveva qualcosa di speciale. È stata un esempio del trionfo dello spirito umano sulle avversità, un modello di resilienza, parola che oggi va di moda e che lei, non conoscendola, ha messo in pratica con naturalezza. Una donna intensa, appassionata e particolarissima, delicata nel corpo e dotata di una forza mentale eccezionale. Chi si trova davanti alla ricostruzione della sua minuscola casetta, stenta a credere che una persona con i suoi problemi di salute abbia potuto viverci per oltre trent’anni".
Dopo l’articolo dello Star Weekly, nel 1965 arriva il documentario della CBC-TV, la intervistano nella sua casa e così diventa nota in tutti gli Stati Uniti, anche il presidente in carica, Richard Nixon, le commissiona un paio di dipinti
I suoi dipinti sono contraddistinti da una vivacità di colore e da una semplicità di forme, ritraggono scene di vita quotidiana, bucolici paesaggi disseminati di alberi, fiori, animali. Sono solitamente di piccole dimensioni, essendo Maud limitata nei movimenti. La sua arte commuove profondamente, come colpisce la semplicità di questa coppia che vive con umiltà e dignità.
L’artista dovette arrendersi alla malattia il 30 luglio del 1970. Everett fu ucciso da un ladro, che si era introdotto nell’abitazione, nel 1979.
Dopo la morte di entrambi i coniugi Lewis, la casa iniziò a deperire. Ma, grazie alla sensibilità di alcuni cittadini dell’area di Digby, la casa è stata poi consegnata alla cura della Art Gallery della Nuova Scozia ad Halifax, che l’ha restaurata e trasformata in casa museo con la galleria permanente dei dipinti di Maud.
Note
1 1. Il 4 ottobre del 2018, la figlia di Maud, Catherine, ormai diventata nonna, si è recata nella casa museo, con il figlio e i nipoti. Il figlio Benoit ha raccontato che Catherine parlava molto di rado della sua vera madre. Ma quel momento di ricongiungimento è stato per tutti una grande emozione: https://atlantic.ctvnews.ca/maud-lewis-descendants-have-special-homecoming-at-n-s-art-gallery-1.4122360
2 Negli ultimi anni, i suoi dipinti sono stati venduti all'asta con un costante aumento dei prezzi. Due dei suoi dipinti sono stati venduti a più di $16.000. Il prezzo d'asta più alto è di $22.200 per il lotto 196 "A Family Outing". Il quadro è stato venduto all'asta di Bonham a Toronto il 30 novembre 2009. Un altro dipinto, "A View of Sandy Cove", fu venduto nel 2012 per $20.400. Un dipinto ritrovato nel 2016, "Portrait of Eddie Barnes and Ed Murphy, Lobster Fishermen", in un negozio dell'usato in Ontario è stato venduto in un'asta online terminata il 19 maggio 2017 a un prezzo di $45.000
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Maud Kathleen Lewis
Nel 2016 è uscito il film Maudie - Una vita a colori, diretto da Aisling Walsh con protagonisti Sally Hawkins e Ethan Hawke, che racconta la storia della sua vita
Il museo di Maud: https://artgalleryofnovascotia.ca/maud-lewis
prima immagine: Maud Lewis di fronte a casa sua. Foto di Ron Cogswell. Fonte Flickr. CC BY 2.0
seconda immagine: La casa di Maud Kathleen Lewis. Foto di Jock Rutherford. Fonte Flickr. Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic license.Un’altra nota opera di Maud Lewis.
Il passaparola trasformò Maud in una celebrità. Nel 1964 il giornale di Toronto, «Star Weekly», pubblicò un articolo su di lei, e nel 1965 la CBC-TV le dedicò un documentario.Dopo la trasmissione, divenne una figura di culto in Canada, i suoi dipinti si vendevano anche a dieci dollari, un’inezia considerando che nel 2017 un quadro della Lewis è stato battuto all’asta per 45.000 dollari e un piccolo originale autenticato ne vale fino a 2.000.
La sua notorietà raggiunse gli Stati Uniti e durante la sua presidenza alla Casa Bianca, Richard Nixon le commissionò due dipinti. Era lei il capofamiglia, quella che portava a casa il pane, ma non pareva affatto farci caso. Il suo piacere più grande restava l’atto creativo in sé, vedere la felicità negli occhi di chi guardava i suoi disegni e con essi tornava ad apprezzare il piacere delle cose semplici.Durante i suoi ultimi cinque anni di vita, un flusso costante di persone si affacciava alla porta della sua casa, tutti erano intrigati dal suo spirito e da quello stile pieno di vitalità, dal suo vivere solitario. Solitario sì, ma anche insalubre e per nulla adatto ad una donna nelle sue condizioni di salute.Nel 1969 fu un continuo pellegrinaggio avanti e indietro dall’ospedale. Confinata permanentemente in casa, quando non era ricoverata, rimaneva nel solito angolo davanti alla finestra, dipingendo ogni volta che poteva. Morì nel nosocomio di Digby, il 30 luglio 1970, per le conseguenze di una polmonite. Il suo apparato respiratorio era rovinato dalla costante esposizione alle vernici e al fumo della legna.Aveva sessantasette anni, venne coricata in una bara per bambini e sepolta in una tomba per indigenti. Un finale ingrato per quella che ormai era una figura di culto in Canada.Dopo la sua scomparsa alcuni truffatori – tra cui, si dice, il marito – produssero dei falsi con l’intento di speculare sulla fama dell’artista, una pittrice prolifica che aveva lasciato centinaia di opere, un’icona del movimento popolare per la quale la domanda del mercato era aumentata.Fortunatamente non tutti miravano al vile denaro. Dal 1979, anno della morte di Everett per mano di un ladro, la casetta cominciò ad andare in rovina. Nella contea molti la consideravano un monumento, e così un gruppo di cittadini fondò la Maud Lewis Painted House Society, un’organizzazione che aveva lo scopo di raccogliere fondi per ristrutturare quella dimora dipinta con amore. Resisi però conto che l’impresa avrebbe richiesto molto più denaro di quanto sarebbero riusciti a racimolare, nel 1984 la casa venne venduta alla Provincia della Nuova Scozia e consegnata alle cure della Art Gallery of Nova Scotia, smontata, restaurata e rimontata all’interno della galleria, dove tuttora si trova come parte permanente della mostra di Maud Lewis.
Nella posizione originaria, a Marshalltown, vi è invece una replica dell’abitazione in acciaio, mentre nel 1999, pochi chilometri più a Nord, sulla strada per Digby, un pescatore in pensione ne ha costruito una copia fedele, completa degli interni.Chi si trova davanti all’originale o a uno dei suoi “cloni”, stenta a credere che in quello spazio ristretto abbia potuto vivere una persona per oltre trent’anni. Maud era una “finta semplice”, mi si passi la definizione, come le sue opere, evocative e nostalgiche, che risultano infantili soltanto ad un occhio poco attento, perché in realtà hanno composizioni sofisticate e denotano un acuto spirito di osservazione.Aveva qualcosa di speciale, è un esempio del trionfo dello spirito umano sulle avversità, un modello di resilienza, parola che oggi va di moda e che lei, non conoscendola, ha messo in pratica con naturalezza. Una donna intensa, appassionata e particolarissima, delicata nel corpo e dotata di una forza mentale eccezionale.* Il presente testo è già stato pubblicato su Superando.it, il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), e viene qui ripreso per gentile concessione.
Il signor Everett assume come governante Maudie, una donna molto fragile ma dall’anima profonda. L’uomo ben presto si innamora di lei. Tratto dalla vera storia di Maud Lewis.
La felicità è racchiusa in due cose: una finestra davanti agli occhi e un pennello fra le mani. Maud, fragile nel fisico ma lucidissima nella mente, riesce nonostante l’artrite deformante a vivere un’esistenza artistica e coniugale appassionata e appassionante.
Ispirato alla biografia della pittrice folk Maud Lewis, Maudie è il classico melò che vibra esclusivamente grazie alla performance toccante della sua interprete protagonista. Mai come in questo ruolo che la vede ripiegata nel corpo deforme ma vibrante nello sguardo, Sally Hawkins riesce a illuminare ogni singola inquadratura in cui è presente.
Fin dalla scena iniziale è sufficiente il suo occhio attento a sbirciare la mano deformata che stringe faticosamente il pennello mentre è sorretta da un braccio sofferente, per raccogliere l’intensità dedicata al personaggio dall’attrice inglese: un mondo unico e parallelo alla “normalità” è racchiuso in quell’attimo, sintomo di una forza straordinaria nel senso letterale del termine.
A farle da specchio è l’interpretazione intensa di Ethan Hawke nei panni del marito Everett Lewis: rozzo commerciante, semi analfabeta, solitario e certamente problematico, l’uomo sposò Maudie prendendosela in casa prima come donna di servizio e poi come moglie.
Più che l’universo artistico di questa donna particolarissima, il film di Aisling Walsh si concentra sulla storia d’amore fra i due, coppia di “freak” confinati nelle terre gelide dell’Ontario costiero, capaci di intendersi attraverso una “diversità” fatta di codici in miniatura, proprio come la fragile corporatura di Maudie. La commozione non manca nel corso della pellicola, specie verso un finale piuttosto ovvio e da nota biografia. Resta la convinzione che senza Sally Hawkins in questo film non esisterebbe.
Termino qui, ma ci sarebbe molto altro da scrivere su questa forte donnina, capace di trovare il modo per rendere speciali i suoi giorni, pur se colmi di dolore.