POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

venerdì, maggio 29

Una deliziosa cena virtuale

 Due sere fa ho ricevuto l'invito a cena da parte della mia cara amica Angie. Con lei c'era anche Sesìl, la sua giovane amica cinese. Andare a Ferrara nello spazio di poche ore mi sarebbe stato impossibile, ma abbiamo ovviato all'inconveniente, cenando in forma virtuale.
Mi aveva assicurato che i tortellini modenesi, acquistati a Settecani, erano fuori dal comune, e che aveva comperato un salamino ferrarese dal gusto eccezionale. Come rifiutare un simile invito?
E allora ho accettato, così Angie (Angela Fabbri, scrittrice e cuoca di grande talento) mi ha inviato le foto dei suoi manicaretti.
A questo punto, invito a cena anche voi, Angie permettendo!


I turtlen

Gli asparagi

Un buon vinello

Il salamino ferrarese

Le fragole e le amiche pronte a gustarle!

E per finire, una bella ciotola di fragole!Le foto sono state scattate da Sesìl, io sono di fronte a loro, non avete notato che sulla tavola c'è un piatto in più? Quello era destinato a me.
Grazie Angie, per la squisita cenetta a tre, in buona compagnia!
Dani

lunedì, maggio 25

Poesie scritte dal gatto



Dissi ad Angie che i miei versi
Spesso sono scritti di getto
Lei, un po' stanca, lesse invece
Che son a volte scritti dal gatto

E di certo ha ragione
Poiché non sempre certe rime
Dal centro del cuore son dettate
Di questo strano fatto la cagione
E’ che da temi son imbrigliate

Un sorriso m’ha strappato
E a Maui ho chiesto aiuto
Lui però mi ha graffiato
Poiché dal sonno disturbato

Angie pensò che quel che dissi
Fosse una cosa meravigliosa
Mi chiedo: le poesie scritte di getto
O che ci ha messo zampino il gatto?

Non lo so, però devo asserire
Che le battute son divertenti
Il gatto ed io a gareggiare
A chi tra i due meglio crea versetti

Da domani gli compro una penna
E gliela lego allo zampino
Forse o di certo mi scotenna
Ma ad Angie faccio un inchino!

Pure questa è scritta di getto
Con l’aiuto del mio gatto!

Dani
Inedita

venerdì, maggio 22

Tra passato e presente

 Indossava abiti smessi, ancora in buono stato, di una bimba di qualche anno più grande di lei, e temeva d’incontrarla, e di sentirle dire: “Ma quel vestito è mio!”. Ciò non è mai accaduto, perché Rossella, era dolce e gentile.
Si sentiva comunque a disagio in abiti non acquistati apposta per lei.
Ricorda come era intimidita dalla casa di Rossella. Le stanze emanavano un odore dolciastro, un insieme di spezie orientali, cera e profumo di donna, di certo quello della madre, una donnina minuta e raffinata. Il mobilio antico, i tappeti persiani, i quadri che, allora solo intuiva, ma che oggi sa con certezza esser stati d’autore affermato, tutto era così diverso da casa sua, così lontano dalla realtà che le apparteneva, da creare in lei uno strano malessere. Ondeggiava nell’irreale, quasi nel metafisico. Quello non era e non sarebbe mai stato il suo mondo.
Giocattoli suoi non ne aveva mai avuti, quelli con cui giocava, spesso erano creati da lei, in parte con le sue piccole mani, nella stragrande maggioranza dei casi, dalla sua fertile fantasia di bimba povera di cose ma ricca d’immaginazione.
Anche le bambole erano “adottate” come altri giocattoli ripudiati da Rossella, ancora nuovi, e accolti amorevolmente da un’aspirante mammina.
Mai avrebbe pensato allora, non ancora decenne, che la camera dei suoi bimbi rigurgitassero di giochi d’ogni tipo.
Girando nella camera di Rossella, naso in aria, osservava lo scrittoio antico, colmo di ninnoli rari, la libreria stipata di volumi e volumetti e una raccolta di bamboline di varia provenienza, doni portati dai viaggi del padre.
Quando mai avrebbe potuto possedere un simile tesoro? L’appartamento dove abitava – una vera metafora definirlo così – erano 40 mq di spazio suddiviso in camera matrimoniale, quella dei genitori, divisa a sua volta da una tenda, oltre la quale c’era il suo lettino. Il mini appartamento comprendeva un piccolo bagno e un altro locale che fungeva da cucina, tinello, zona pranzo. Era la stanza nella quale giocava, studiava, leggeva, ballava e ballando, sognava di essere una principessa, o Carla Fracci e ogni altro personaggio che la sua fantasia le suggeriva.
L’appartamento di Rossella, due piani sopra il suo, occupava 300 mq. e comprendeva una quantità tale di stanze, da perdersi come percorrendo un labirinto. Ricorda un salone di vaste proporzioni, corridoi, studi, camere, bagni e un’enorme cucina con attigua una stanza che fungeva da dispensa.
La camera di Rossella, che nella sua memoria ricordava grande, in proporzione al resto della casa, era piccola. Gli abitini di Rossella, che poi divennero suoi, a quei tempi erano capi d’’abbigliamento di gran lusso, realizzati in ottimo materiale. Le gonnelline scozzesi di lana shetland (i kilt che andavano tanto di moda nella Milano bene) o i golfini di pura lana vergine, le camicette di popeline con ricami e i vestitini con la pettorina lavorata a nido d’ape, in rilievo, tutti di squisita fattura, oggi le appaiono banali.
Eppure, allora tutto questo benessere, chiamiamola pure ricchezza, per lei era qualcosa d‘irraggiungibile.
Sapeva che non sarebbe mai potuta appartenere a quel mondo, niente di tutto ciò che Rossella e la sua famiglia possedeva, forse neppure rendendosi conto della situazione fortunata in cui vivevano, sarebbe stato possibile per lei.
Rossella era “in” e lei “out”!
D’altro canto, veniva dalla campagna, passando dal dialetto alla lingua italiana attraverso sorrisini di scherno. Frequentava le elementari nella scuola più rinomata di Milano, una scuola d’élite, per bacino d’utenza, non certo per scelta, poiché se si fosse trattato di scegliere, sarebbe stata allontanata come un’appestata. Le sue compagne di classe organizzavano festicciole di compleanno? Venti su trenta erano del giro, le altre erano escluse dagli inviti, accomunate dalla sventura alquanto singolare e bizzarra, d’esser nate povere.
Talvolta accadeva che qualche compagna, mossa da pietà o da un falso senso di parità sociale, la invitasse a casa sua, e lei accettava. Ma come sarebbe stato meglio non avesse accolto quegli inviti! Si sentiva osservata come una bestia rara. I suoi abiti non erano adeguati, il regalino che portava era di poco valore e riconosceva il sorriso di compatimento, poiché dotata di un animo sensibile. Questo contribuiva a renderla ancor più timida e vulnerabile di quanto già non fosse. Non si divertiva mai, a quelle feste, stava seduta in un cantuccio e non assaggiava nemmeno quanto esposto sul buffet, elegantemente imbandito.
La sua mamma le diceva: “stai attenta, sii educata, e non fare brutte figure, non disturbare, ringrazia, ecc.”
Così lei, davanti ai vassoi di pasticcini offertole dalla cameriera di turno, rispondeva: “Grazie, no”. E tornava a casa con l’animo gonfio di tristezza e lo stomaco vuoto. Aveva sentito il profumo di tante cose buone, adocchiato dolcetti e tramezzini mai gustati a casa sua. Ma aveva detto: “Grazie, no”.
Poi crebbe un pochino, d’anni non di statura, e si chiese: “Ma in questo mio mondo che è chiuso come una prigione, non c’è neppure una porticina da cui evadere alla chetichella?”.
Forse esisteva, questa uscita, il problema era trovare la strada: studiare, lavorare e con i soldi guadagnati, forse avrebbe cambiato anche il tenore di vita.
Per esempio avrebbe potuto vestirsi in modo più elegante, frequentare gente dalla quale apprendere cose nuove.  Poteva imparare qualunque cosa, purché diversa da quella vissuta fra le quattro mura domestiche.
Doveva farsi una cultura, oltre a quella limitata agli studi scolastici. E trovare l’uomo giusto che l’avrebbe accettata per quello che era, che l’aiutasse a salire la scala dei valori, quelli veri, che la spingesse a rompere quella barriera mentale che si era creata in lei. Vedeva, infatti, il mondo come fosse a compartimenti stagni: di qua i poveri, di là i ricchi. Di qua gli ignoranti, di là i colti. Di qua gli operai, di là gli impiegati. Di qua i borghesi, di là i nobili. Di qui e di là…divisioni indivisibili!
Secondo lei, nulla poteva o doveva mescolarsi. E chi era nato di qua, di qua doveva morire, nessuna via di scampo. Non riusciva a immaginare che un nobile poteva anche essere povero, o che un impiegato avrebbe potuto arricchirsi.  Che un ignorante si sarebbe istruito, e un ricco cadere in disgrazia.
Se solo avesse immaginato come girava davvero il mondo, sarebbe stata meno insicura e senz’altro più saggia.
Lei si ricordava anche di quando viveva in campagna, nata da famiglia contadina, in quel piccolo paese erano onorati e tenuti in alta considerazione i notabili del luogo: il parroco, il medico, il farmacista e, ovviamente, il Sindaco.
Non aveva alcuna importanza se il farmacista, padre di numerosi figli, e con pochi clienti
perché le medicine erano un lusso poiché a quei tempi non esisteva “la mutua”, doveva tirare la cinghia anche sul cibo. Lui era una persona di riguardo, mentre i suoi nonni solo dei “bifolchi”: Peccato che nessuno abbia mai visto il nonno, uomo  intelligente e di gran cuore – non si dice forse “contadino, scarpe grosse, cervello fino?” -  andare di nascosto a casa del farmacista, portando con sé una cesta colma di formaggi, farina di mais per polenta, ortaggi, un pollo spennato, uova, e quant’altro si poteva raccogliere dai campi e dall’orto di casa, oltre che dal pollaio! A casa sua, in campagna, nessuno è mai morto  di fame! Eppure il contadino era considerato povero e il farmacista ricco. Vorrei sapere chi si sia preso mai la briga di fare in conti in tasca ad ognuno di loro!
Questo accadeva nel dopoguerra e durò fino agli anni del boom economico. Poi arrivò il ’68 con la sua rivoluzione culturale, e quel netto divario tra poveri e ricchi scomparve. Non
scomparvero la povertà e neppure la ricchezza. Anche oggi, i poveri sono sempre più poveri a causa della disoccupazione e delle tassazioni eccessive rispetto ai Paesi Nordeuropei. Il costo della vita lievita giorno dopo l’altro e la borsa della spesa non si riempie più di tante cose buone, come un tempo, ma si presenta sempre più vuota, poiché anche il portafoglio si svuota in breve tempo. Molte piccole e medie aziende chiudono i battenti, soffocate dalle multinazionali e pare di essere tornati ancora ai tempi del dopoguerra, con un’enorme differenza: allora ci fu la ricostruzione, che diede lavoro a tutti, adesso si smantella quel che era stato costruito con tanto amore e dedizione. Cultura compresa.
La storia che ho raccontato è uno spaccato di vita del tempo passato. I ricchi donavano ai poveri quello che a loro non serviva più e i poveri ben volentieri gradivano quei doni, non potendo acquistarli.  Gli attuali poveri, faticano ad accettare roba riciclata, e piuttosto nascondono, come possono, la loro nuova situazione economica, rovesciatasi quasi all’improvviso, per aver perso il posto di lavoro, e senza alcun aiuto da parte dello Stato. L’arrampicata sociale è potuta accadere per merito della crescita economica degli anni ’60, e chi era povero, grazie al lavoro, è diventato benestante ed ha potuto cancellare parte di quel divario sociale che era ad appannaggio dei ricchi. La cameriera, era trattata come una serva, non aveva neppure la giornata di libertà e se era assunta dalle famiglie danarose, a tempo pieno, lavorava dalla mattina presto fino a notte inoltrata. Certo le erano consentiti vitto e alloggio, ma il lavoro era tiranno. Però almeno c’era! Poi con l’arrivo dei sindacati in difesa dei lavoratori, molte cose sono cambiate in meglio. Le dattilografe lavoravano dieci ore al giorno, spesso anche di sabato. C’era molto da cambiare e questo avvenne. E i signori con la puzza sotto il naso, hanno capito che dovevano abbassare la cresta, avendo già tanto ottenuto dalla vita, che almeno non la facessero pesare su quelli meno fortunati di loro.
Oggi i ricchi sono chiusi nel loro bunker, dove cercano di ammassare più denaro possibile, a volte speculando, riciclando denaro sporco, abusando del loro potere per schiacciare le piccole aziende, evadendo le tasse accendendo conti correnti all’estero. Che li accendessero con un cerino così da dar loro fuoco! E i poveri? Quelli ci sono sempre stati e sempre esiteranno. Mi spiegate come fa chi è ricco, a sapere di esserlo, se non vi sono i poveri a fungere da cartina di tornasole?  Non sapremo mai che la neve è bianca, se non avessimo il carbone che ci dimostra che è nero!
E a tal proposito, sono incazzata nera, al pensiero di come potrebbe essere diverso il mondo, se la ricchezza fosse distribuita con maggior equità, quanta meno gente morirebbe di fame!
Già, perché non costa nulla donare un vestito smesso a chi non può comprarselo, ma costa molto creare nuove occasioni di lavoro, così che con uno stipendio, chi non ha mai mangiato pane possa finalmente gustarne il sapore.

Danila Oppio





mercoledì, maggio 20

"ATTIMI" Della pittrice Carla Colombo

Buon pomeriggio 
Ho il piacere di comunicarvi che dal 30 maggio al 7 giugno terro’ la mia personale, dal titolo “Attimi”, a Olginate (Lc) presso la splendida Villa Sirtori in Piazza Marchesi d’Adda, col patrocinio del Comune. 
Continua cosi il mio percorso artistico che negli ultimi tempi mi ha vista impegnata in collettive internazionali presso il The Breck di Londra, la biennale di Linas in Francia  ed alla Galleria Centrale dell’Unione a S.Pietroburgo.
Senza trascurare le numerose partecipazioni a collettive di rilievo nazionale e regionale.
"Questa di Olginate sarà l’occasione, come  dice il critico dr. R. Aracri :” di immergerVi nel Suo  mondo poetico fatto di colori brillanti e avvolgenti supportati da un talento innato e da una tecnica che lascia il segno e diventa marchio della sua pittura. Le sue opere spaziano dal paesaggio brianzolo ripreso nella sua variegata espressività stagionale, all’informale che diventa confine di sperimentazioni innovative, all’acquerello dove riversa la sua sensibilità poetica fatto di linee calde ed emotivamente coinvolgente.                                       
Una bella full immersion nei suoi colori da cui si esce con un sentimento diverso e che certamente ci concilia con le vicissitudini del quotidiano".
La mostra sarà aperta : martedi 2 giugno e sabato e domenica ore  09,30-12 e 14,30-19. Gli altri giorni 15,00-18,00.  
A tutti un caro saluto e a un presto vederci

Carla Colombo cell  349 5509930 



lunedì, maggio 18

Storie di bambole


Da bambina, ma non prima dei 6 o 7 anni, ho avuto in dono una bambola che aveva il corpo di stoffa, riempito di segatura mentre viso, braccia e gambe erano di gesso. I capelli parevano un nido di rondine marrone, impossibile da pettinare. Era proprio bruttina, ma questa pupattola l’amavo molto. Le avevo messo nome Renata e per anni, insieme a una mia amichetta e compagna di scuola, con i ritagli di tessuto che ci regalavano le nostre rispettive sarte, ci divertivamo a cucirle i vestitini. Ricordo che mi era stato dato anche un pezzo di pelle da guanti, sottile e duttile, e con quella le avevo fatto anche le scarpette.
Avrò avuto 12 o 13 anni, quando un giorno non la trovai più. Che me ne facevo della scatola piena dei suoi vestitini fatti su misura e dei ritagli di stoffa, se non possedevo più la modella che li indossava? Si, perché per me era il gioco più bello, quello di confezionarle i vestitini di vari colori. Renata era come fosse il manichino per le prove sartoriali.
Ho chiesto a papà dove fosse finita, e lui mi disse che mamma l’aveva buttata via, perché vecchia e brutta. L’ho recuperata nella pattumiera condominiale, in mezzo a scarti di cibarie, lurida. L’ho lavata e salvata, Ma dopo un po’ di tempo, la segatura del suo corpo si perdeva in giro per casa, e fui costretta a separarmi definitivamente da lei.
Durante gli anni della mia prima infanzia, avevo ricevuto in dono due bambole Lenci, di straordinaria bellezza. Una aveva le gambe e le braccia lunghe, come fosse un’adolescente. Gli occhi erano realizzati in vetro azzurro intenso, quasi cobalto, e indossava un abito d’organza bianco, con ricamate delle bordure a punto croce. L’altra era un tipo spagnolesco, dall’incarnato abbronzato e dall'espressione imbronciata, pienotta, con due treccioni neri. Indossava un abito arlecchino, proprio quello a losanghe di vari colori. Il fatto pietoso fu che io, essendo troppo piccola e inesperta, davo da mangiare alle bambole, attraverso un buco fatto nella loro bocca, e così il materiale con cui il loro corpo era imbottito marcì, e puzzavano da schifo. Allora ho salvato gli abitini, e buttato le bambole, che se ora le avessi, avrebbero un valore non indifferente. Anche l’abito arlecchino, col tempo è stato rovinato dalle tarme, e gettato tra i rifiuti. Mentre dell’abito di organza deve trovarsi ancora in uno dei bauli della casa di campagna di mamma.
Poi ero la “mamma” di Stefano, un bambolotto di lattice, che aveva l’incarnato proprio come quello di un bimbo vero, al quale mia madre sferruzzava abitini di lana, come quelli che allora si facevano anche per i cuccioli d’uomo. Poi c’era Alessandro, che invece era di celluloide, rigido quindi, ma molto bello, perché sembrava proprio un neonato, forse come aspetto, era l’antenato di Cicciobello. Anche per lui, mamma gli confezionava calzoncini e magliette.  Che fine abbiano fatto, questo lo so, come tutti gli altri giochi (servizi di piattini e tazzine da caffè in porcellana, pentoline di alluminio o rame e quant’altro). Ormai ero cresciuta per pettinare le bambole, ma i miei giocattoli erano ancora quasi nuovi. Sono così stati portati nella casa di campagna, in attesa di eventuali figlie. Dentro le loro scatole originali o in scatoloni di cartone. E poi riposti in un armadio.

Nonna Ina, la madre di mia madre, si prendeva cura della casa e del giardino, nel periodo in cui noi eravamo a Milano, in modo che durante le vacanze, la nostra casa fosse agibile. Con lei, c’era la mia cuginetta Dolores e per farla stare tranquilla, le dava i miei giochi. Ovviamente senza aver informato nessuno. Così quando in estate andavo nella casa di campagna per trascorrere le vacanze, mancava sempre qualcosa: le bambole, qualche tazzina, le pentole erano piene di bernoccoli, o schiacciate. Alla fine, per mia figlia era rimasto ben poco e quel poco, piuttosto malconcio.

A parte la mia passione sartoriale infantile (che poi cucivo alla bel e meglio, con punti lunghi e storti, e solo con ago e filo, perché la macchina da cucire non ho mai imparato ad usarla anche se mamma la possedeva) preferivo i giochi all’aria aperta, ai giardinetti, dove mi arrampicavo sugli alberi come uno scoiattolo, e regolarmente tornavo a casa con il vestito sbrindellato. Oppure mettevo i miei pattini a rotelle, ma non quelli belli che hanno inventato poi, con la scarpetta annessa. I miei andavano agganciati alle scarpe normali,
regolando  con la farfallina metallica la misura della lunghezza, e stringendoli con cinturini di cuoio. Il rischio che di tanto in tanto, il pattino uscisse dalla scarpa, era quello di tombolare a terra, e sbucciarsi le ginocchia.
Mi piaceva molto leggere tanti libri di fiabe, durante i giorni invernali o di maltempo.

Sono storie di bambole e di giochi di bambina, ancora vive nei miei ricordi di un’infanzia serena e felice.



Danila Oppio



sabato, maggio 16

TBM - intervista Anna Montella



Da ascoltare!

La verità esiste?


Buongiorno amica mia,
vorrei parlarti della verità, quella che tu dici di professare. 
Ieri sera, alla trasmissione Otto e mezzo presentata da Lilly Gruber c'era, insieme ad un altro scrittore-giornalista di cui ora mi sfugge il nome (memoria svanita!) e a Jas Gawronski, Roberto D'Agostino e parlavano di verità. D'Agostino ha sostenuto che la verità NON esiste. E ha ricordato il film Rashomon, nel quale, durante un processo, tre testimoni che avevano assistito al delitto e si erano perfino auto-accusati dello stesso, hanno dato tre versioni diverse. Eppure erano presenti tutti e tre e avevano visto la stessa scena. Ha portato questo caso ad esempio, proprio per dire che ognuno si crea la propria verità, che è sua e inappellabile, ma che non corrisponde a quella del pensiero altrui. Ognuno possiede la certezza di essere nel vero e nel giusto, in realtà, è quanto fa parte della sua auto-convinzione. Devo dire che ha espresso il mio stesso pensiero. 

Potrei porti un esempio: siamo nella tua nuova cucina, mi cade una tazzina dalle mani, e sono presenti tre persone: tu, S. e J. Tu dirai che la tazzina mi è caduta perché sono distratta, S. dirà che è stato un banale incidente che potrebbe capitare a tutti. J. sosterrà che la tazzina era bagnata, e per questo mi è scivolata dalle mani. Ora, la verità assoluta è che la tazzina è caduta a terra ed è andata in pezzi, ma la ragione per cui questo è accaduto, potrebbe avere diverse motivazioni. E quelle sono verità relative.
Quando si parla di verità, questa può senz'altro riferirsi ad un fatto reale. Se hai scritto un libro ed è stato pubblicato, non si può negare che questo sia avvenuto. Ma il contenuto del libro da cosa è stato ispirato? Quale decisione è nata in te per scegliere una casa editrice piuttosto che un'altra?
E mille altre domande potrebbero nascere e da queste scaturire mille altre risposte. Ma sono le tue verità. L'unica che non potrà mai essere contestata o messa in discussione, è quella che il libro è stato stampato e scritto da te.
Quindi anch'io avrei una preghiera da farti, e non si tratta di un ordine: "smettila di...." come mi hai scritto tu.  Per favore, non pensare di essere la sola depositaria della verità assoluta. Tu sei in possesso della tua verità. Io della mia, gli altri delle loro.
Se leggo un giornale, la nuda verità è che quell'articolo è stato pubblicato, ma che sia vero e reale il suo contenuto, o un insieme di mistificazioni, di mezze verità, o di vere e proprie
falsità, questo non lo posso sapere. Lo sa solo il giornalista che lo ha scritto. 
Ci tenevo a dirti questo mio pensiero, poiché tu sei sempre pronta a giudicare, ad accarezzare il gatto contropelo, come così bene ti sei espressa, ma devi imparare a guardare alle cose con un occhio più magnanimo, e ad accettare anche l'opinione (e bada bene, non dico verità poiché la verità è solo un'opinione personale) che gli altri si fanno di te. Buona, meno buona o sbagliata del tutto, che sia. Io ti vedo in un modo, J. in un altro e S. in un altro ancora. Non siamo di granito, che resta immutabile per secoli. Cambiamo a seconda degli stati d'animo. E siamo sempre in crescita o decrescita, scossi dal vento della vita. E come si trasforma il corpo, durante la nostra esistenza, tanto più si trasforma il nostro carattere, il nostro modo di pensare. Chi ci ha conosciuto nel passato, non può dire che siamo fatti in un certo modo, perché nel frattempo abbiamo modificato in noi molte cose e non siamo più gli stessi di allora.
Così appare che la verità non è il ricordo di noi, conservato nella mente di chi ci ha conosciuto un tempo, ma quello che siamo ora, in questo preciso istante. Così come chi ci vede arrabbiati, non può pensare che abbiamo un brutto carattere, e chi ci vede allegri e spensierati, che siamo persone simpatiche e piacevoli.  Noi siamo tutto questo e molto di più. Ma la verità non appartiene a nessuno.
Le menzogne non rientrano in questo contesto. Quelle sono bugie e basta. Qui ho trattato della verità e di come possa variare in base a chi la interpreta.

Danila Oppio
16 maggio 2015