POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

giovedì, giugno 30

"ALI D'UN SOGNO" l'ultimo libro di ANNALENA CIMINO, la poetessa di Capri e dell'Amore - recensione di RENATA RUSCA ZARGAR



“Ali d’un sogno” l’ultimo libro di Annalena Cimino,

la poetessa di Capri e dell’Amore

Vivere a Capri significa trattenere negli occhi il fascino impetuoso del mare che circonda l’isola con un anello di tinte e di salmastro. Come significa respirare profumi intensi di fiori che si abbarbicano in ogni strada, vicolo o poggiolo.

Passeggiare per Capri è curiosare le tante piastrelle di ceramica colorate che indicano le abitazioni e celebrano eventi e persone.

Vivere a Capri, pertanto, è già di per sé una vita straordinaria. 

Poi, c'è “l'Amor che move il sole e l'altre stelle”. Dante, nell’ultimo verso del Paradiso, rappresenta Dio come Amore perché l’Amore è  il sentimento che solo giustifica il senso della vita umana, che la rende degna di essere vissuta, che permette di trovare un pensiero traboccante di emozioni la sera, prima di dormire, e la mattina al risveglio.

Dunque, Annalena Cimino è la poetessa di Capri.

A Capri vive la sua esistenza e si ammalia di irresistibile bellezza. Infine, è la poetessa dell'Amore perché è l’energia dell'Amore che la ispira.

Infatti, le figurazioni che nutrono la sua poesia hanno la sorprendente intensità dell’unione di due amanti misti alla natura, ai giardini abbandonati, alla danza del vento, al pianto del mare, in una ricerca incessante dell’essere amato.

“Salsedine sulle labbra, / aulica sensazione di te,” scrive, ad esempio la Poetessa “[…] Poesia… volava tra i nostri corpi / intrecciati indissolubilmente / e salsedine fra noi nelle notti d’amore.” Oppure: “Balleremo ancora / tra le noti struggenti della vita, / tra le tumultuose acque / della cascata che annegherà / ogni dolore e solitudine, / tra le crepe delle rocce eterne, / a piedi nudi, / scansando rovi e serpi senza timore.”  

La poesia di Annalena Cimino è un intreccio di musicalità e di visioni immaginifiche, di moti incessanti e inarrestabili dell’anima.

Leggendo, si rimane stupiti, sconvolti, davanti all’incanto totalizzante che si rivela nei versi, per la forza titanica dei sentimenti in cui si esprime “l’immensità” del percorso della vita “tenendoci per mano”.

Sfogliare le pagine di questo libro ( ALI D'UN SOGNO Poesie di Annalena Cimino (intermediaedizioni.it) significa sapere che qualcosa di meravigliosamente travolgente esista davvero per il quale si possa lottare e sognare, significa riconoscere che “l’Amor che move il sole e l’altre stelle” è dentro di noi e gonfia le vele di un’esistenza doviziosa e stracolma di passione.

Renata Rusca Zargar


lunedì, giugno 27

SOLTANTO OSTAGGI di ENRICO EULI



soltanto ostaggi 

Il popolo ucraino, sempre meno entusiasta e sempre più devastato, scopre sempre più di essere soltanto un ostaggio.
E che il suo rappresentante politico più alto, Zelensky, sta ottenendo i suoi risultati politici e personali a discapito del suo popolo.
'Ci siamo meritati la candidatura in Europa!', esclama.
Il prezzo? Decine di migliaia di morti tra i suoi concittadini.
Ma la ragion di stato conta sempre più delle vite, umane e no, nella necropolitica. 
É qui, sulla pelle degli ostaggi ucraini, che le superpotenze giocano il loro dominio sul mondo, combattendosi tra loro, ma alleati contro la vita ed il pianeta.
L'Ucraina va verso la sconfitta militare, lentamente ma inesorabilmente.
Ma il cerchio si sta chiudendo non solo intorno alla gola di quei poveracci ai confini dell'impero.
Si sta chiudendo anche attorno alla nostra, ultimi privilegiati del mondo. 
Anche noi scopriamo di essere soltanto dei poveri ostaggi sotto ricatto.
Il ricatto energetico inizia a presentare il conto.
Le materie prime aumentano spropositatamente i loro costi, l'inflazione sale esponenzialmente e fuori controllo (e con essa, la povertà materiale di molti).
L'acqua procede a diventare un bene di lusso, e non più soltanto per i popoli del deserto.
I cambiamenti climatici accelerano e ne vediamo gli effetti sempre più evidenti ed inquietanti per il nostro comfort.
Energia, materie prime, acqua: da quanto diciamo che sono e saranno le cause di nuove, continue, terrificanti guerre?
Sta accadendo, ora, anche per noi: noi che avevamo (soli nel mondo) la possibilità di scegliere la decrescita, iniziamo a subirla per obbligo, ostaggi di noi stessi.
La risposta la conosciamo già, arriva automatica e l'abbiamo già sperimentata con la pandemia.
Stati d'emergenza permanenti, gestiti da esperti e politici che continuano ad esigere - col paternalismo o l'aperta repressione - di essere seguiti, obbediti, votati e magari anche ringraziati per le loro soluzioni e rassicurazioni.
Come veri banditi gentiluomini quali sono, si prendono cura di noi, mentre ci tengono in prigionia.
Siamo ostaggi e - anche se volessimo - non possiamo neppure offrire un riscatto per liberarci di chi ci ha rapito e ci ha tolto la libertà.
E se qualcuno si lamenta o - anche solo timidamente - protesta, è subito trasformato in ribelle fuori dal tempo o traditore della patria in armi.
Nessun minimo segno di ripensamento, nessun - neppur parziale o momentaneo - sprazzo di lungimiranza.
Non vogliamo finire di giocare questo gioco che ormai è giunto a coincidere con la nostra ed altrui vita. É un gioco che non sa come finire e che conosce come unica sua fine solo la fine di chi lo gioca.
Ecco perché, sino alla fine, non crederemo alla nostra fine.

Enrico Euli

Università degli Studi di Cagliari
Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni Culturali
Ruolo Ricercatore universitario
Area scientifico disciplinare
Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
M-PED/03 DIDATTICA E PEDAGOGIA SPECIALE
Emaileuli@unica.it

Mi ha trasmesso questo interessante articolo Padre Mauro Armanino, che ringrazio di tutto cuore.


domenica, giugno 26

SE NON MI INSEGNI NON POSSO IMPARARE: IL LEGAME DI ATTACCAMENTO di ZARINA ZARGAR

 Se non mi insegni non posso imparare: il legame di attaccamento


Che cos’è:

Partiamo da un concetto fondamentale. L’attaccamento è quel legame particolarissimo e speciale che ci permette di entrare in connessione con i caregiver, chi si prende cura di noi, fin dai primi giorni di vita e ci garantisce la sopravvivenza.

Lo sappiamo, tutti i cuccioli di mammiferi, come noi, dipendono dalle cure genitoriali e non avrebbero speranze di arrivare all’età adulta se non ci fosse qualcuno che si prenda cura di loro. Lo possiamo vedere anche nella vita di tutti i giorni: basta aver avuto tra le mani un gattino di pochi giorni per essersi resi conto di quanto sia fragile.

Ovviamente il discorso risuona ancora di più se pensiamo ai piccoli dell’essere umano, quelli nostri:

alla nascita siamo tutti indifesi, vediamo poco, non conosciamo l’ambiente e non sappiamo come muoverci, tantomeno procurarci il nutrimento da soli.

Senza cure adeguate non avremmo la possibilità di crescere e andare avanti.

L’attaccamento, quindi, è un legame istintivo e indispensabile alla sopravvivenza che ha origine nella relazione primaria, cioè quella che mette in relazione il neonato alla madre, al padre o chi si prende cura di lui. È un legame salvifico che lega il nuovo arrivato alla figura accudente con la quale si innesca uno scambio continuo di informazioni relative ai bisogni fisiologici e non.

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Esame psicodiagnostico

Come ha inizio?

Si sviluppa fin dai primissimi giorni di vita e si basa sulla disponibilità e sull’attenzione che l’adulto investe nei confronti del neonato.

Le madri lo sanno bene: bastano piccoli gesti, uno sguardo o un pianto diverso dal solito per capire di cosa il piccolo ha bisogno. Il legame di attaccamento, di connessione e fiducia reciproca che si crea fin dall’inizio rende tutto ciò molto naturale e di semplice decifrazione.

A causa della sua natura affettiva e del momento delicatissimo in cui ha inizio, questo è un legame molto intenso che si sviluppa nel tempo e prende direzioni diverse in base al temperamento innato del bambino (più attivo o meno) e le reazioni del caregiver che può essere più o meno rispondente ai reali bisogni fisiologici ma anche emotivi dell’esserino che richiede le cure.

Questo primissimo legame fondamentale, come ben spiegato dallo psicologo e medico John Bowlby, teorico dell’attaccamento, avrà delle influenze a lungo termine sull’esperienza di vita del bambino (Bowlby J., 1969)

E una volta adulti?

Una volta cresciuto, il bambino diventato adulto, in base all’esperienza vissuta con i caregiver (presenti, assenti, intrusivi o rifiutanti), saprà muoversi all’interno delle relazioni sociali, amicali e di coppia con maggiore o minore fiducia e sicurezza. Svilupperà, quindi, uno stile di attaccamento che utilizzerà per entrare in relazione con l’altro, sentendo dentro sé e aspettandosi comportamenti in linea con quelli sperimentati con la figura primaria.

In poche parole, gradualmente si struttureranno nella mente del bambino dei modelli operativi interni, cioè delle rappresentazioni mentali di sé, del legame costruito con l’attaccamento e poi più generalmente di ciò che può aspettarsi anche dagli altri e dall’ambiente esterno, con lo scopo di guidarlo nelle sue interazioni con l’ambiente facilitandole (Bowlby J., 1979).


Può succedere, in alcuni casi, che la figura primaria di accudimento viva contemporaneamente alla nascita del figlio/a una situazione personale di disagio dettata dai più svariati fattori e eventi: salute propria o del bambino (nascita pretermine o altri imprevisti), problemi di coppia, difficoltà di adattamento alla nuova vita, paura di non essere all’altezza, ambivalenza nei confronti della genitorialità, depressione post-partum, forti ristrettezze economiche e molte altre situazioni che possono contribuire all’esaurimento delle energie psicofisiche 

necessarie ad accogliere il nuovo nato nel mondo e prendersene cura.

In base al vissuto del genitore, infatti, anche la relazione con il neonato cambia.


Non per forza, però, gli esiti saranno negativi. Come già anticipato prima, l’attaccamento è frutto di un continuo scambio in cui giocano ruoli importanti le caratteristiche dell’una e dell’altra parte, quindi anche assestamenti e migliorie, dopo un iniziale periodo di difficoltà, sono sicuramente possibili.

Una base sicura…

Quando il legame di attaccamento si consolida in maniera positiva si va a creare quello che la dott.ssa Mary Ainsworth (Ainsworth et al. 1978) ha per prima definito “base sicura“: una sorta di punto di partenza e punto di ritorno costantemente presente e in grado di adattarsi flessibilmente a esigenze di esplorazione e di crescita.

Bowlby ha poi ulteriormente approfondito questo concetto riferendolo al legame di attaccamento: quando un bambino inizia a esplorare attivamente l’ambiente extrafamiliare e a muoversi anche distanziandosi poco a poco dalle figure genitoriali ha bisogno di questa base sicura carica di sicurezza e di fiducia che gli garantirà un buono sviluppo sul piano sociale ed emotivo.

Il pieno appoggio del caregiver e lo sguardo sereno di approvazione nei movimenti di esplorazione permetterà all’infante di sentirsi sicuro e fiducioso nei momenti di allontanamento e allo stesso modo accolto non appena ritornerà indietro “sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato” (Bowlby J., 1988).

I genitori che nel tempo hanno saputo costruire una base sicura per i loro i figli li sostengono nelle loro esperienze di autonomia, ma intervengono per proteggerli, rassicurarli e accudirli quando necessario (Baldoni 2005a).

Nuove figure di attaccamento, quali?

Fortunatamente i modelli operativi interni, modelli a cui ci riferiamo quando ci relazioniamo con il mondo esterno, sono costantemente sottoposti ad un processo di riorganizzazione perché hanno a che fare con esperienze reali del passato e del presente e possono modificarsi, soprattutto sulla base di esperienze significative nel corso del ciclo vitale (Crittenden P.M., 1999).

Non è raro, ad esempio, che lo stile di attaccamento originario venga modificato dalla relazione profonda con il padre, con un pari o con un partner accogliente e incoraggiante.

Ma non solo: è stato osservato che tra gli effetti estremamente positivi di una buona psicoterapia ci può essere anche la profonda riorganizzazione delle rappresentazioni interne relative all’attaccamento (Crittenden 1999; Baldoni 2005a).

Un cambio di rotta dovuto a una nuova esperienza significativa relazionale che va a mettere in discussione i modelli operativi interni e di conseguenza sia aspettative che reazioni, quindi, è possibile.

Se una volta cresciuti percepiamo ancora ferite emotive e relazionali che riteniamo affondino radici nel nostro passato sta in definitiva a noi, ormai adulti, decidere in quale direzione muoverci per poterle iniziare a medicare.

Bibliografia:

1 Bowlby J. (1969): Attaccamento e perdita, vol. 1: L’attaccamento alla madre.

Boringhieri, Torino, 1972.

2 Bowlby J. (1979): Costruzione e rottura dei legami affettivi. Raffaello Cortina, Milano, 1982.

3 Ainsworth M.D.S., Blehar M.C., Waters E., Wall S. (1978): Patterns of attachment: a psychological study of the Strange Situation. Erlbaum Associates, Hillsdale, NJ.

4 Bowlby J. (1988): Una base sicura. Raffaello Cortina, Milano, 1989.

5 Baldoni F. (2005a): “Funzione paterna e attaccamento di coppia: l’importanza di una base sicura.” In: Bertozzi N., Hamon C. (a cura di): Padri & paternità. Edizioni Junior, Bergamo, pp. 79-102.

6 Crittenden P.M. (1999): Attaccamento in età adulta. L’approccio dinamico-maturativo all’Adult Attachment Interview. Raffaello Cortina, Milano.

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 ZARINA ZARGAR


PRIGIONIERA NELLO SPAZIO di RENATA RUSCA ZARGAR



Un gruppo di donne terrestri viene rapito durante un viaggio aereo e trasportato sul Pianeta Blu a novanta anni luce dalla Terra. Infatti, alcuni extraterrestri di colore blu vogliono unirsi a donne della Terra. In cambio, condivideranno con gli umani il loro progresso tecnologico molto avanzato.

Nonostante la traumaticità del rapimento, Arianna, una giovane studentessa dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, si innamora di Axel, uno scienziato di quel pianeta.

Dovrà infine decidere: tornare sulla Terra dove c’è la sua vita e i suoi sogni o andare a vivere su quel Pianeta unendosi a una creatura tanto diversa?


Un'appassionante storia d'amore del futuro.


DISEGNO IN COPERTINA DI ZARINA ZARGAR

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sabato, giugno 25

RAMA di RENATA RUSCA ZARGAR

 


RAMA

Racconto vincitore del Primo Premio al Concorso Letterario Internazionale IL CONVIVIO di Giardini Naxos, Taormina nel 2003.

Rama era fiero del suo nuovo lavoro. Per tutto il giorno, dalle dieci del mattino alle sette di sera, vestito di un bel completo grigio con le bande rosse e il berretto duro in testa, apriva e chiudeva le porte al passaggio dei clienti del “Pandit Shop”, uno splendido negozio di abbigliamento maschile della città di Delhi.

Gli avevano insegnato - ma egli lo sapeva già prima- che, all’avvicinarsi di un probabile cliente sulla popolosa Road, egli doveva inchinarsi e spalancare la porta di vetro, introducendolo nel fresco climatizzato del locale; e così pure quando gli avventori stavano per uscire, carichi magari di sacchetti di plastica verdi con il nome “Pandit Shop” scritto in nero. Veramente, Rama non sapeva leggere, ma aveva subito capito che “Pandit Shop” era proprio ciò che c’era scritto.

Poi, dopo le venti, bisognava ripulire il pavimento, inginocchiati per terra a passare lo straccio perché tutto ritornasse lucido e in ordine per il giorno dopo. Chissà, pensava Rama, forse, tra qualche tempo, potrò diventare commesso, porgere ossequioso gli indumenti da indossare, infilare nei sacchetti ciò che viene scelto, consegnare tutto alla cassa e, la sera, riordinare negli scaffali, invece di pulire il pavimento. Ah, i sogni! Eppure, qualche volta si avverano, come era successo proprio a lui.

Rama, infatti, aveva più o meno otto anni (di preciso non lo sapeva neppure la mamma) e, da almeno tre, passava con i fratellini davanti a quello splendido negozio, perché abitava nelle baracche che si trovavano proprio al di là della zona centrale della città. Ogni volta, guardava il vetro trasparente e pulito, le luci, la merce ordinata negli scaffali e, subito dopo, quei ragazzi che aprivano e chiudevano le porte, così belli nelle loro divise! Rama era, invece, vestito di stracci ma, con i soldi che guadagnava –poche rupie al mese - vendendo il tè, aiutava la famiglia a vivere.

Un giorno, aveva incontrato il padrone dello splendido negozio per la strada e, rosso come un peperoncino dalla vergogna, gli aveva chiesto di prenderlo a lavorare. Shri Balu non gli aveva neppure risposto e, con la sua pancia prominente, aveva proseguito il cammino. Ma Rama gliel’aveva chiesto ancora e ancora, ogni volta che lo incontrava per caso, anche se non riceveva mai nessuna risposta. Tutte le mattine, dunque, prima di prendere servizio al banchetto dove vendeva il tè ai passanti, puntualmente si fermava ad ammirare incantato quelle belle vetrine luminose lucidate con gli stracci puliti dei boy nelle loro uniformi impeccabili. Il banchetto, invece, constava di un carrettino con un fornello e, sopra, due pentoloni grigi con il fondo annerito dal fuoco che contenevano l’acqua bollente e il latte. Niente a che vedere, insomma, con quel piccolo Paradiso che si apriva sulla lussuosa Chandni Chowk –piazza della Luna -!

Ma un giorno il miracolo era avvenuto.

Per qualche motivo, uno dei ragazzi con l’incarico di aprire e chiudere le porte non si era presentato al lavoro, proprio in una giornata di soldes - saldi- in cui si prevedeva un’enorme ressa di clienti.

Rama era là davanti, come tutte le mattine, con la bocca aperta ad ammirare il locale e gli indumenti, e il padrone aveva detto sbrigativamente a uno dei commessi di prenderlo, ripulirlo per bene, vestirlo con l’uniforme e insegnargli ad aprire e chiudere la porta d’ingresso.

-Ma fate presto! -aveva aggiunto - Tra un’ora qui ci sarà tanta gente da non potersi girare. -

Rama aveva capito subito ciò che doveva fare, anche perché l’aveva osservato tante volte. Quando sbirciava nello specchio del locale (ah, veramente, i sogni si avverano!), pettinato, pulito, senza la solita canottiera stracciata ma con la bella giacca grigia a bordi rossi, nel fresco climatizzato di quel luogo meraviglioso, non credeva ai suoi occhi!

E poi, le novecento rupie al mese avrebbero permesso a tutta la famiglia di mangiare un po’ di riso –e forse anche qualche verdura con cui condirlo- due volte al giorno. Eh sì, perché il ragazzo che si era assentato non era mai tornato al lavoro e il padrone, soddisfatto del suo comportamento impeccabile, l’aveva tenuto volentieri (è proprio vero, dunque, che i sogni si avverano!).

Un pomeriggio di relativa calma, mentre molti, per il caldo stancante, non si erano ancora avventurati a far shopping, un signore di media età, molto distinto, si attardava, invece, tra gli scaffali. Ogni tanto, mentre chiacchierava con il commesso che lo serviva ossequioso, lanciava a Rama delle curiose occhiate.

Infine, l’uomo aveva comprato diversi capi di vestiario e aveva chiesto che il bambino che si trovava alla porta lo accompagnasse in albergo con i pacchi. Il facoltoso cliente era, infatti, straniero e si sapeva che veniva almeno una volta l’anno in India, proveniente da un paese europeo. Non potendo negargli quel favore, nonostante si avvicinasse l’ora di punta dello shopping e si prevedesse un affollamento di clienti, a Rama era stato affidato l’incarico di accompagnarlo e di tornare il più presto possibile.

L’albergo non era molto lontano, ma agli occhi incantati di Rama si era presentato qualcosa che non conosceva: nella hall vi erano magnifiche poltrone ricoperte di velluto rosso, dal soffitto pendevano lampadari sfarzosi che scintillavano alla luce con vivaci bagliori, in terra, il pavimento era ricoperto di soffice moquette blu.

Rama non era mai entrato in un posto simile e non riusciva a nascondere lo stupore. L’uomo, poi, che gli aveva detto di chiamarsi Antonio, gli aveva offerto un enorme gelato guarnito di fragoline e infine lo aveva rimandato al negozio.

Il cuore di Rama tremava dall’emozione: chissà se un giorno, quando sarebbe stato un po’ più grande, avrebbe potuto anch’egli lavorare in un posto simile, ancora più splendido di quanto non fosse già il negozio!

L’uomo era tornato a fare acquisti dopo un paio di giorni: non appena l’aveva visto, il cuore di Rama si era messo a battere più forte. Chissà se si sarebbe fatto accompagnare all’albergo ancora da lui! Distrattamente, o almeno così sembrava, ogni tanto il bambino lo sbirciava per vedere se acquistasse molto e avesse bisogno di un accompagnatore. Ma quella volta Antonio non sembrava soddisfatto: di qualcosa non c’era la misura, di un altro capo non c’era il colore adatto… insomma, le compere non andavano a buon fine e se n’era andato via, acquistando solo una sciarpetta. Rama c’era rimasto male: niente passeggiata all’albergo dove, magari, avrebbe potuto, chissà, gustare un altro gelato e soprattutto contemplare tutte le meraviglie che si trovavano là!

Alla fine della giornata, prima di tornare a casa, non aveva potuto fare a meno di passare davanti all’hotel. Antonio, casualmente, in quel momento, si trovava proprio in strada là davanti.

- Namasté - aveva salutato l’uomo e subito l’aveva invitato all’interno per prendere un gelato.

Rama, ammaliato e felice, lo aveva seguito.

- Anzi, guarda, Rama, -aveva aggiunto Antonio- il gelato lo andremo ad assaporare nella mia camera, così potrai sederti, riposare e raccontarmi un po’ della tua vita. -

La porta della stanza – 238 - si apriva su di uno spazio ordinato e pulito dove si trovavano un letto matrimoniale dal copriletto ricamato di seta di Benares, due comodini con la loro abat-jour lavorata in sottili strisce di bambù e pendagli colorati, un divano di velluto azzurro, un tavolino di legno intarsiato con la cartella dei fogli da scrivere, la penna e due cassettini per riporre chissà quali segreti. A lato del tavolino, c’era il frigorifero per tenere al fresco (faceva tanto caldo a Delhi!) l’acqua e le bibite, poi un altro tavolo per gli eventuali pasti. Rama osservava ammutolito tutto quanto e lo paragonava con la baracca in cui viveva, senza letto né altri mobili. Là, infatti, in un angolo c’era il fornello per cucinare e in un altro gli stracci che si stendevano a terra la notte per dormire…

Un cameriere in livrea verde aveva portato due enormi coppe di gelato misto: alla frutta, al cioccolato, alla nocciola e torroncino. Antonio e Rama lo gustavano in un silenzio interrotto solo da qualche domanda dell’uomo.

- E così, tua madre lava i panni per qualche famiglia. Certo, guadagnerà poco. E tuo padre?

- Mio padre è morto qualche anno fa. Ha avuto un incidente sul lavoro. Siamo rimasti soli.

- Quanti siete? -

- Cinque. Io sono il più grande, poi c’è mia sorella e un altro fratello. Con noi vive anche la madre di mio padre che è vecchia e non riesce più a camminare. Però aiuta la mamma a stirare i panni.

- Quanto guadagni al Pandit Shop? Scommetto che prendi poche rupie al mese…

- No, il salario è migliore di quello che avevo come venditore di tè. Mi danno novecento rupie al mese.

- Insomma, sarebbero venti euro, una sciocchezza! Vieni, ti faccio vedere il bagno. -

La stanzetta da bagno non era nulla di speciale (così come l’albergo in genere, che era solo di terza categoria) ma Rama non ne aveva mai vista una in vita sua, se non lo sgabuzzino sporco del negozio (riservato solo a chi lavorava là e non certo ai clienti!). A casa sua i bisogni si andavano a fare in strada, in un angolo dietro la baracca. Lì, invece, c’era una grande vasca da bagno rosa, i rubinetti della doccia, il lavabo con uno specchio grande, dove ci si poteva vedere interamente, e poi c’erano le confezioni mono dose di shampoo e di sapone fasciate con le loro belle carte colorate…

- Puoi provare il sapone, se ti piace tanto. Anzi, potresti fare la doccia. Vedi, di lassù scende l’acqua calda, è bellissimo, ti puoi insaponare con questo sapone morbido e farti la schiuma nei capelli…-

Intanto che Antonio diceva così, le sue lunghe mani toglievano la giacchetta grigia con le bande rosse (il cappello duro era già stato posato prima su di una sedia) e la camicia bianca a Rama.

Il bambino avrebbe voluto sì provare tutte quelle delizie, ma sperava che l’uomo uscisse dalla stanza e lo lasciasse solo. Invece, Antonio, come un vecchio amico, continuava a spogliarlo: i calzoni anch’essi con le eleganti bande rosse, le calze bianche (le scarpe, come d’uso, Rama le aveva lasciate fuori della porta), le mutande.

Rama era rimasto nudo, mentre l’acqua tiepida scorreva dal distributore in alto e Antonio lo insaponava fregando tutto il suo corpicino magro… Poi lo aveva sciacquato, sempre accarezzandolo dappertutto. Dalla fronte di Antonio gocciolava il sudore ed egli era visibilmente agitato.

- Aspetta, -gli aveva detto - stai ancora un po’ sotto l’acqua, è fantastico vero? Non l’avevi mai fatta prima una doccia così! Mentre tu te ne stai sotto l’acqua tiepida, ti farò qualche fotografia. -

E, preso l’apparecchio fotografico, aveva iniziato a scattare. Il flash mandava lampi nell’aria umida della stanza. Rama conosceva le macchine fotografiche, per averle viste nelle mani di numerosi clienti al negozio, ma nessuno lo aveva mai ripreso!  Certo, gli sarebbe piaciuto vedere la sua immagine su quei pezzi di carta che uscivano, poi, dopo aver fatto le foto! Ma non così. Lo specchio gli rimandava la sua scarna immagine senza vestiti, nessun altro gli aveva mai mostrato una sua foto senza vestiti addosso!

Antonio, poi, era sempre più agitato mentre gli girava intorno per riprenderlo da ogni lato. Infine, gli aveva detto di rivestirsi in fretta, gli aveva messo in mano una banconota da cento rupie - l’equivalente di due euro, più o meno - e l’aveva mandato via.

Rama non aveva detto nulla a nessuno di quanto gli era successo. Anche se non capiva bene perché, provava una profonda vergogna. La notte non era riuscito a prendere sonno. Ritornava nella sua mente il viso rosso di Antonio mentre lo guardava e il corpo nudo rimandato dallo specchio… Sì, anche i sadu usavano andare a bagnarsi nudi nelle acque del fiume sacro, ma gli sembrava che tutto ciò avesse un significato diverso. Poi, la stanchezza lo aveva vinto mentre pensava che, forse, era un uso degli stranieri –certamente c’erano tante cose che lui non conosceva e non capiva- e che la mamma, con le cento rupie extra avrebbe potuto comprare i libri per il figlio più piccolo e, almeno lui, mandarlo a scuola.

Il lavoro del giorno dopo al negozio aveva riassorbito completamente la sua attenzione e solo a sera, sul suo giaciglio di stracci, a terra, nella baracca, vicino al corpo della mamma e della nonna, della sorella e del fratello, aveva ricordato con bruciante vergogna se stesso che si lavava dinanzi a un estraneo che lo guardava con troppo interesse.

Erano passati due o tre giorni e lo straniero era tornato al negozio in compagnia di amici. Avevano acquistato qualcosa, impiegando molto tempo nella scelta, poi erano andati via e nessuno gli aveva chiesto di accompagnarli.

- Meno male! - pensava Rama – Forse non mi chiameranno più e questa storia sarà finita. -

La sera, però, alla fine del lavoro, quando egli stava tornando a casa, aveva scorto Antonio che, con una faccia allegra e scherzosa, l’aveva chiamato:

- Namastè, Rama. Come stai? - intanto aveva preso la sua manina di bimbo tra le sue grandi di uomo - Vieni, ti porto al mio albergo perché voglio che tu mangi con me. -

Rama, in fondo, era contento. Mangiare in quel posto meraviglioso, chissà che cose buone ci sarebbero state! E poi, forse lo straniero non gli avrebbe fatto più fotografie né gli avrebbe chiesto di fare la doccia.

Infatti, giunti in camera, non si parlò di foto né del bagno. Il cameriere, elegantissimo nella sua livrea verde, aveva apparecchiato sul tavolo con diversi cibi: panir pakora, samosa, tandoori chicken.

Rama era entusiasta, raramente aveva mangiato panir, formaggio, nella sua vita e mai dall’aspetto così appetitoso, ben fritto in olio di semi, come pure erano ottimi gli altri cibi, il pollo al forno, il lassie da bere e l’enorme coppa di gelato che concludeva il tutto. Quando Rama aveva iniziato a mangiare con le mani, come faceva sempre, aveva notato con curiosità che Antonio si serviva di attrezzi, le posate, con i quali portava gli alimenti alla bocca senza toccarli. Rama sapeva già che alcuni usavano tali oggetti e conosceva bene i cucchiaini, che aveva adoperato quando serviva il tè al banchetto, ma non aveva mai visto le forchette! Eh, già, gli stranieri facevano cose diverse dalle loro.

Antonio sembrava tranquillo mentre chiacchierava raccontando delle bellezze del suo paese, anzi, aveva detto a Rama che, forse, quando fosse stato più grande, se la loro amicizia fosse continuata, l’avrebbe portato là con sé.

- La nostra è una bella amicizia, non è vero?

- Sì - aveva assentito Rama con entusiasmo.

- Sono stanco. - aveva detto poi Antonio - Vorrei riposarmi un po’ sul letto. Anzi, vieni anche tu. Ci riposiamo qualche minuto e poi, magari, prendiamo un altro gelato. -

Antonio aveva scostato il copriletto e si era sdraiato sulle lenzuola candide di bucato. Rama, un po’ timoroso, era rimasto sulla sedia ma, poi, data l’insistenza dell’amico, l’aveva raggiunto. Antonio si era spogliato ed era rimasto in camicia e mutande.

- Liberati anche tu dell’uniforme, ti sentirai più libero. - e velocemente aveva iniziato ad aprirgli i bottoni, a slacciare la cintura, a togliergli tutto quanto aveva indosso. Intanto lo accarezzava con mani rapaci. Rama aveva cercato di divincolarsi ma non era servito a nulla.

I minuti erano passati molto lentamente, le lenzuola candide erano ora macchiate di sangue e Antonio, sazio, si era addormentato.

Rama non capiva bene ciò che fosse successo: il dolore e lo schifo avevano invaso le sue membra.

In silenzio si era ripulito, rivestito, e stava per allontanarsi, quando Antonio si era svegliato e gli aveva allungato due banconote da cento rupie: - Non dire nulla a nessuno della nostra amicizia e vedrai che non te ne pentirai. Ma guai se parli, gli altri non potrebbero capire e ti metterebbero in prigione, ricordati, in prigione! Non vedresti più tua madre, tua nonna, tua sorella e tuo fratello. -

Le lacrime pungevano gli occhi di Rama mentre tornava a casa. Si sentiva sporco, colpevole. La vergogna lo bruciava e, quando aveva dato alla madre le rupie, così orribilmente guadagnate, ed ella l’aveva abbracciato contenta, Rama l’aveva allontanata da sé con malagrazia, quasi a non volerle attaccare qualche malattia contagiosa.

- Sei stanco, piccolo mio. - gli aveva detto lei. - Lo vedo dai tuoi occhi. Avrai lavorato più del solito, se il padrone ti ha dato questo aumento e sei tornato a casa così tardi. Vieni, puoi mangiare la cena che ti ho tenuto in caldo. -

Rama non aveva voluto mangiare nulla e si era accoccolato sugli stracci. Ma il sonno non giungeva a liberare i suoi pensieri e anche quando, finalmente, verso il mattino, si era appisolato, Antonio era piombato nei suoi sogni e lo toccava, ovunque, guardandolo con quello sguardo lascivo che gli aveva visto nella realtà.

Il giorno dopo, anche il lavoro al negozio, che prima aveva così desiderato e amato, gli era sembrato difficile e noioso. In qualche occasione, addirittura, non aveva aperto con sollecitudine la porta ai clienti e il padrone l’aveva persino sgridato!  Rama non aveva più quell’entusiasmo e quella volontà che aveva sempre dimostrato e, man mano che le ore passavano e si avvicinava l’ora di chiusura, la sua disattenzione e il suo nervosismo erano aumentati.

Per fortuna, la sera, Antonio non si era visto, e neppure nei due o tre giorni successivi, ed egli si era un po’ rincuorato.

- Forse, - pensava - non verrà più, magari sarà partito per il suo paese che è tanto lontano. Forse ciò che ha fatto con me è una cosa normale nel suo paese e io non devo pensarci più. Gli stranieri hanno tanti usi diversi, non mangiano forse con le posate mentre noi mangiamo con le mani? Non hanno tante cose che noi non abbiamo? -

Lo stesso, la notte, aveva difficoltà a trovare il sonno e poi, una volta addormentato, Antonio forzava sempre nei suoi sogni, che divenivano incubi. Voleva confidarsi con qualcuno, ma con chi? A chi avrebbe detto le cose orribili che gli aveva fatto, a chi avrebbe potuto mai spiegare una tale vergogna? Non c’era che il silenzio.

Antonio era tornato una sera, quando Rama cominciava a pensarlo un po’ meno. Girato l’angolo della strada che dal negozio portava alla sua baracca, se lo era trovato davanti all’improvviso.

- Ciao, Rama - gli aveva detto sorridendo - Come stai?

- Bene. - aveva appena sussurrato il bambino.

- Vieni, andiamo al mio albergo, così potremo cenare e parlare un po’ insieme.

- No, non voglio venire. - aveva risposto Rama tutto d’un fiato con un filo di voce, diventando rosso per la paura e la vergogna.

- Oh, sì, che vuoi venire. Ti aspettano cose buone e anche un bel regalo.

- No, devo tornare dalla mamma.

- La mamma sa che sei a lavorare, sa che puoi fare tardi trattenuto dal padrone per qualche commissione. Non si preoccuperà. D’altra parte, vai a lavorare da quando avevi quattro o cinque anni, non è vero?

-Non voglio venire con te. - Ecco, l’aveva detto! E il volto da rosso si era fatto pallido.

- Invece, verrai, altrimenti andrò a raccontare a tutti… Tu sai cosa. E ti metteranno in prigione e la tua famiglia…-

Rama si era avviato verso l’albergo.

In camera, Antonio non gli aveva offerto né cena né gelati e, d’altra parte, Rama non li avrebbe voluti. Con premura e foga l’aveva spogliato e era giaciuto con lui.

Dopo pochi momenti, qualcuno aveva bussato alla porta. Rama si era nascosto terrorizzato nel bagno.

- Vieni, Rama, non aver paura. -l’aveva richiamato Antonio –Vieni, questi sono amici miei che vogliono conoscerti. -

Rama era uscito dopo essersi rivestito in fretta. Nella stanza c’erano tre uomini.

- Ma quanti anni ha? - aveva domandato uno di loro.

- Ma, non so, otto o nove. Qui non si curano dell’età e forse non se la ricorda neppure sua madre. - aveva risposto Antonio con sicurezza.

-Sei certo che non parlerà con nessuno?

- È ovvio, se parlasse sarebbe lui a fare una brutta fine. Chi gli darebbe retta? E poi, eventualmente, una mancetta a qualcuno troppo zelante e tutto andrebbe a posto per noi. -

Tutti insieme avevano preso il tè e poi l’avevano di nuovo spogliato e, a turno, si erano divertiti con lui.

Era già notte quando Rama si era trovato in strada. Nelle mani stringeva le cinquecento rupie che gli avevano dato, quasi un mese di lavoro al negozio. Con quei soldi, sua mamma sarebbe andata avanti per un po’, ma egli non poteva fare di più.

Giunto a casa, aveva consegnato il denaro e, con una scusa, era poi uscito di nuovo. Aveva iniziato a camminare per le strade del centro città, ormai vuote di traffico e silenziose. Qui e là, vicino ai marciapiedi erano parcheggiati i risciò e i loro padroni, che tutto il giorno avevano faticato pigiando sui pedali per trasportare le persone sedute dietro, ora dormivano nel loro mezzo. Molti, infatti, venivano da lontani villaggi per lavorare e non avevano un altro posto in cui dimorare, se non il loro veicolo. Lo stesso valeva per i risciò a motore: anche là molti loro proprietari dormivano all’interno. La mattina, poi, velocemente, essi si facevano la doccia utilizzando i bocchettoni dell’acqua che si trovavano un po’ dappertutto nelle strade, e una nuova giornata di fatica cominciava.

In cielo brillavano le stelle che sembravano vicine vicine. Invece erano lontane, ed egli era solo. Mormorando sottovoce una preghiera al Dio Rama di cui portava il sacro nome, il bambino continuava a camminare. La sua casa diveniva sempre più distante ed egli aveva raggiunto ormai la periferia della megalopoli. Le strade erano ancora più solitarie, male illuminate, ma non aveva paura. Che aveva da perdere ormai? Camminando per ore, con i suoi piedi scalzi (l’unico paio di scarpe l’aveva lasciato a casa per suo fratello) si era avviato al fiume. I palazzi si allineavano gli uni agli altri: molti nuovi e in fase di costruzione, altri bisognosi di lavori, oppure miserabili baracche, come egli conosceva bene. Qualche cane latrava nella notte.

Infine, era giunto. Le acque scorrevano nere e tranquille giù dai gradoni che servivano alla gente per andare a lavare i panni. Vicino alla riva, quasi del tutto immersi nell’acqua, parecchi bufali si riposavano pacificamente.

Lentamente, aveva sceso le rampe di pietra, mentre le onde iniziavano a lambirgli le gambe. Aveva continuato a immergersi finché l’acqua non gli era arrivata al capo. Indi, con un ultimo movimento, si era abbandonato alla corrente.

L’azzurro aveva invaso i suoi occhi e i suoi polmoni: la quiete era totale, i gesti come una morbida danza e ogni affanno era attutito dalla profondità. Non c’era che l’acqua –e l’eternità - a poterlo ripulire dallo sporco di quella incarnazione.

“Addio, mamma.” era stato l’ultimo rassegnato pensiero.

Eh, sì, i sogni si avverano qualche volta.

Ma per qualcuno, la cui esistenza è già iniziata miseramente, si possono anche tramutare in drammatica disperazione.

RENATA RUSCA ZARGAR


UNA VITA COLORATA DI AVORIO di P. MAURO ARMANINO



Una vita colorata di avorio

Yves è partito per tornare al suo paese di origine dopo 37 anni. Si tratta del numero esatto di anni che ha passato in carcere nel Togo, Paese confinato dall’Atlantico, oceano privilegiato per la tratta degli schiavi. La schiavitù reale e in piena terra ferma l’ha vissuta in parte nel famigerato carcere di Kaza ora chiuso, tra lavori forzati, sevizie e minacce. Yves trafficava avorio con l’Europa e, assieme a suo fratello, viaggiavano spesso ad Amburgo, in Germania, onde perfezionare il lauto commercio con blandi controlli, in quei tempi passati. Una soffiata e lui con suo fratello sono arrestati all’aeroporto di Lomé, capitale del Togo in provenienza, appunto, dalla Costa d’Avorio. Dal giorno della reclusione fino alla liberazione sono passati 37 anni e Yves non è mai passato da un tribunale per il processo. Dal Presidente padre al presidente figlio, l’attuale Foure Gnassimbé, è passata anche la visita del papa Giovanni Paolo secondo per il giubileo, a cui l’allora presidente aveva promesso una grazia presidenziale per i detenuti. La promessa non è stata mantenuta e, anzi, persino il fratello maggiore dell’attuale presidente si trova in carcere con l’accusa di tentativo di colpo di stato. La repressione seguita alle presidenziali dell’epoca ha fatto centinaia di morti.
Yves è di origine sudanese. Il suo paese era ancora uno quando lo ha forzatamente lasciato. Torna alla sua città di nascita, Juba, ormai capitale del nuovo stato chiamato appunto Sud Sudan. I giacimenti di petrolio del nuovo Paese, riconosciuto come indipendente nel 2011, hanno rappresentato la ben conosciuta ‘maledizione’ delle risorse. Il Sud Sudan è passato di guerra in guerra e Yves farà presumibilmente fatica a riconoscere la cittadina diventata nel frattempo capitale del nuovo stato. Torna con un un paio di occhiali usati, la bomboletta spray per l’asma e una scatola di pastiglie per controllare la pressione. Porta, in una delle due borse con le quali ha viaggiato dal Togo, un paio di pantaloni e la camicia di suo fratello Charles morto in carcere di malattia, per la famiglia dello scomparso. Lui stesso indossa camicia e pantaloni di un prete incontrato nel Burkina Faso mentre stava transitando e mendicando cibo e soldi per continuare il viaggio a ritroso. Custodisce, tra il foglio che conferma lo smarrimento del passaporto rubato e l’ultima prescrizione medica, un santino di don Bosco, offertogli da un salesiano prima di lasciare per sempre la capitale del Togo.
Yves dice che in carcere gli agenti commerciavano droga coi detenuti in cambio dei soldi che le famiglie passavano ai loro cari. Nel frattempo, passavano anche i presidenti che promettevano al papa per il giubileo del 2000 e agli organismi internazionali un migliore trattamento per i detenuti e magari un’amnistia. Dal 1985, data dell’arresto e in tutti quegli anni Yves non è mai stato giudicato, il processo verbale del suo percorso giudiziario è sparito, assieme ai soldi che lui e suo fratello avevano con sé. Il primo Yves, nato nel 1959 a Juba, era commerciante d’avorio e l’altro Yves, che torna al Paese dopo 37 anni di carcere, è un commerciante di anni che ancora gli rimangono per rivedere la moglie e i figli di cui non sa più nulla. Dice che ricorda bene il colore della casa, era color d’avorio.
                                                                                               
          Mauro Armanino, Niamey, giugno 2022

sabato, giugno 18

MORIRE DI DOLORE O DI VERGOGNA NEL SAHEL di P.MAURO ARMANINO


 Morire di dolore o di vergogna

 nel Sahel

Era il 16 giugno del 1976 a Soweto, nell’allora regime di apartheid del Sudafrica. Durante una manifestazione di protesta di studenti e scolari la polizia aprì il fuoco uccidendo quattro bambini. La foto del tredicenne Hector Pietersen ucciso divenne un simbolo della violenza della polizia sudafricana. Nella giornata furono uccise altre 23 persone. La giornata del bambino africano è stata celebrata per la prima volta dall’Organizzazione per l’Unità Africana il 16 giugno di ogni anno dal 1991. Da morire di dolore.

Il sistema scolastico nigerino e l’intera società sono stati sconvolti dall’uccisione, all’arma bianca, di un insegnante da parte di uno dei suoi alunni. Fine scuola ‘primaria’, un ragazzo neppure quindicenne, rivela in modo drammatico lo stato di violenza strutturale della scuola nigerina. Essa si chiama esclusione, impreparazione, commercio educativo, estroversione valoriale, isolamento dalla vita reale della società, assenteismo proverbiale dei genitori e liquidazione vocazionale degli insegnanti. Da morire di vergogna.

Come in altre aree del Sahel, il Niger bagna in un clima quotidiano di violenza. Non passa giorno che piovono i comunicati di attacchi contri i militari, i civili e i beni primari della gente. La parola che riassume tutto ciò sarebbe quella di ‘desolazione’, che evidentemente tocca anche e soprattutto gli scolari e gli studenti delle zone rurali, i più poveri, mentre le scuole dei ricchi possono continuare, ben difese, in città. Una violenza capillare che chiude per sempre il futuro di migliaia di bambini. Da morire di vergogna.

Nel vicino Burkina Faso, a causa degli attacchi dei gruppi armati terroristi, si registrano 3280 scuole chiuse che implica la diserzione scolastica di 511.221 allievi e di 14.901 insegnanti. Nel Mali, per lo stesso motivo, sono 150.000 i giovani e bambini estromessi dal processo scolastico. Nel Niger le scuole chiuse, non lontano dalla capitale Niamey sono 791 e gli scolari estromessi dalla scuola 63.306 di cui circa la metà sono ragazze. Nel Sahel circa undici milioni le persone hanno bisogno di assistenza alimentare. Da morire di dolore.

Nel Niger le cifre della fragilità alimentare sono ricorrenti e variano secondo il momento e le fonti. C’è chi parla di quattro milioni e mezzo di persone in insufficienza alimentare e due milioni e mezzo in quasi carestia. Altrove e in altri momenti, a partire da molto poco, c’è chi ha moltiplicato i pani perché tutti fossero sazi. Per questo e altro ha ragione il poeta dell’Uruguay Mario Benedetti. Una cosa è morire di dolore e l’altra è morire di vergogna. Lo scrisse a suo figlio e gli ricorda che è meglio piangere che tradirsi

Mauro Armanino, festa del Corpus Domini,

giugno 2022

Ho trovato un articolo di Padre Armanino, pubblicato su Il Fatto Quotidiano, 09 marzo 2020, che vedo come un incipit a questo suo nuovo scritto. 

“Una cosa è morire di dolore e un’altra è morire di vergogna”. Mi è tornata in mente questa poesia di Mario Benedetti, compianto poeta dell’Uruguay, appresa mentre mi trovavo in Argentina. La cosiddetta distanza sociale, oggi riesumata, era stata da tempo introdotta e non casualmente e non certo per compassione si tengono aperti i supermercati e si chiudono le chiese e gli stadi e gli avvenimenti culturali e le scuole. Si troveranno buone giustificazioni di carattere medico e senza dubbio scientificamente motivate ma abbiamo perso, non da oggi, la dignità. Da tempo non sappiamo perché valga la pena vivere la vita e ci perdiamo, stolti consumatori consumati, dietro l’effimero che ci seduce per la sua nullità. Quanto ci appaiono vere le profezie di Pier Paolo Pasolini e il suo inascoltato grido del cambiamento antropologico in atto nel paese e in Occidente.

Una cosa è morire di dolore alle frontiere dell’Europa, nei deserti che vorrebbero raggiungere il mare, nei viaggi senza fine e nelle guerre comandate, finanziate e alimentate dai fabbricanti d’armi, europei, americani, cinesi e russi compresi. E l’altra è morire di vergogna come da troppo tempo si fa in Occidente dove la morte, prima parte della vita e celebrata con rintocchi di campane e la sommessa preghiera dei paesani, è stata censurata, di lei ci si è vergognati come fosse una sconfitta e persino le tombe sono giardini coltivati per illudere il tempo futuro.

Ecco perché lei, sorella morte, è tornata, con fattezze antiche e attuali, e passa attorno tra gente isolata, impaurita e scontenta della vita. Eravamo morti da tempo senza neppure accorgercene e facevano bene, i nostri antenati colpiti dalla peste, a rifugiarsi dove almeno le parole di conforto avevano un senso e magari si aspettava che qualche santo ci mettesse una pezza e ci si rendeva conto della fragilità umana e della morte che inciampa nella vita. Ha ragione Benedetti che morire di vergogna è la cosa peggiore che mai potrebbe capitare.

Nella poesia in questione che porta il titolo Uomo prigioniero che guarda suo figlio, il poeta scrive verso la fine del poema: “Uno non sempre fa quello che vuole/però ha il diritto di non fare/ ciò che non vuole”. Ci siamo persi gli anni più belli, quelle delle rivoluzioni e delle resistenze, quelli dei No operai e partigiani e, liquidando le grandi narrazioni della storia, ci siamo ridotti a fare la lista della spesa per il supermercato più vicino che possiede, tra l’altro, lo spazio giochi per i bambini e un ampio parcheggio per le auto, la domenica.

Magari le campane suoneranno, per ricordare che c’è un’ora e un tempo per tutto. Sentiremo il rimpianto, per un attimo, del mondo che avrebbe potuto essere differente, un mondo nuovo da inventare ogni giorno negli occhi di chi si innamora della vita. Perché, come ancora ricorda Benedetti alla conclusione della poesia citata: “è meglio piangere che tradirsi… piangi, ma non dimenticare “.

Poiché entrambi gli articoli portano il ricordo di un grande uomo, per chi non ha notizie su di lui, un breve cenno è d'obbligo.Mario Orlando Hamlet Hardy Brenno Benedetti-Farugia, noto come Mario Benedetti (Paso de los Toros, 14 settembre 1920 – Montevideo, 17 maggio 2009), è stato un poeta, saggista, scrittore e drammaturgo uruguaiano. (ma di origini italiane).

sabato, giugno 11

IN NIGER MENDICANTI SI PUO' DIVENTARE di P. MAURO ARMANINO


Giovane Mendicante" di Bartolomé Esteban Murillo (Siviglia 1617-1682)
pittore Barocco nato a Siviglia, in Spagna.

Capolavoro della collezione spagnola del Louvre, il giovane mendicante è il primo dipinto di Murillo che entrò nelle collezioni reali francesi (acquistato personalmente da Luigi XVI nel 1782). L’interesse di Murillo per le rappresentazioni profane e, particolarmente, per quelle dedicate all’infanzia hanno fatto pensare che a Siviglia fosse stato attivo un esteso giro di committenti nordici: i soggetti di strada e di vita popolare ebbero infatti molto successo all’estero, ed è probabile che i numerosi mercanti fiamminghi attivi nella città andalusa, sedotti da tali temi, li commissionassero direttamente ai pittori del luogo.

In Niger mendicanti si può diventare

I genitori che, in cambio di un po’ di soldi, affittavano, o vendevano, i loro figli, normalmente per un periodo di tre anni, a dei personaggi, i cosiddetti ‘padroni’, che si industriavano per portarli nelle grandi città e maggiormente in Francia ed Inghilterra dove li obbligavano ai mestieri più umili e duri: lustrascarpe, venditori per le strade di statuette di gesso e di santini o di altre immagini o di fiammiferi, sguatteri, facchini, mendicanti, suonatori di organetto, spazzacamini, in certe fabbriche, senza cure, senza pulizia, alloggiati in tuguri infami, nella promiscuità e abiezione più ripugnanti…
Si tratta di bambini italiani sui quali, qualche anno fa, l’insegnante Michele Santulli scrisse in un articolo pubblicato dal sito ‘altritaliani’. Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire nella scontata saggezza di un tempo passato e sempre attuale. La mendicanza è costitutiva della nostra avventura umana perché, se ci pensiamo, vivere non è che passare da uno stato di mendicità radicale, ad altri stadi più coscienti ma sempre ‘mendicativi’. Dal neonato, radicalmente bisognoso e dunque mendicante di tutto, all’adolescente, al giovane e in fine all’adulto, cambiano solo le modalità ma alla radice rimane la ‘mendicanza’ come dimensione ineludibile della vita. Cibo, affetto, amicizia, sguardo, sorriso, riconoscimento, accettazione, fiducia e rispetto. Questo e molto altro è ciò che mendichiamo quotidianamente nelle nostre umane interazioni. Mutano i nomi, le modalità o le caratteristiche ma rimane inalterato il ‘principio mendicanza’.
Altra cosa è l’induzione, l’educazione professionale e lo sfruttamento della mendicanza dei bambini. In alcuni Paesi ciò avviene in modo aperto e per così dire codificato dagli usi e costumi. Chi arriva per la prima volta nella capitale Niamey, è stupito dal numero impressionante di bambini che, utilizzando la strada come ambito di lavoro, una funicella e un pentolino come strumento di lavoro, mendicano cibo o monetine. Vengono comunemente chiamati ‘Talibé’, scolari di modeste scuole coraniche di quartieri poveri, affidati a maestri che cercano di sbarcare il lunario facendosi ‘aiutare’ da coloro ai quali insegnano i rudimenti del Corano in arabo. Malgrado le leggi, le raccomandazioni e le ingiunzioni questo fenomeno continua ormai da anni e rischia di protrarsi, finché farà comodo ad alcuni, che esso perduri. Un’armata di mendicanti potenziali potrebbe essere utile a molti. Per guadagnarsi il paradiso con le elemosine del venerdì, per avere voti eventuali quando verrà il momento delle elezioni, per i piccoli mendicanti quando saranno cresciuti e infine, per ogni eventuale manifestazione di piazza, quando ve ne fosse di bisogno.
Oltre le cipolle e la carne del numeroso bestiame transumante, da anni stiamo esportando bambini mendicanti. In Algeria, nel Senegal e, secondo le recenti notizie dei mezzi di comunicazione, nel Ghana. Si sono formati circuiti di sfruttamento dei bambini da parte di adulti, donne e uomini, che accompagnano e coordinano i processi di mendicanza e la spartizione dei guadagni operati grazie a loro. Tutto ciò appare giustamente scandaloso ma non solo perché il fatto implica una visione negativa e vergognosa del Paese di origine dei bambini. Lo scandalo consiste soprattutto nella riduzione a oggetto di pietà e dunque di sfruttamento dei bambini che, per tutta la loro vita, saranno marcati da questa forma di schiavitù contemporanea. Ciò che dovrebbe piuttosto interrogare autorità, cittadini, genitori, strutture educative e istituzioni religiose, è il motivo e cioè le condizioni sociali ed economiche che portano alla ‘professionalizzazione’ della mendicità. Essere costretti o perlomeno spinti alla scelta della mendicità per sopravvivere è una sconfitta e una vergogna per tutti, Dio compreso. 
Mendicanti si nasce e talvolta lo si diventa per necessità ma, per fortuna, mendicanti si rimane per sempre.

              Mauro Armanino, Niamey, giugno 2022

L'articolo mi ha profondamente colpito, non solo per la mendicanza dei piccoli, sempre molto sfruttata in tutti i tempi. Fino a non molto tempo fa, giovani mamme Rom comparivano davanti alle Chiese, o alla porta dei Supermercati, con i loro neonati in braccio, a chiedere la carità in questo modo, per toccare la sensibilità della gente che si commuoveva di fronte ai piccoli esposti al freddo o alla calura. Ora, almeno in Italia, è vietato chiedere l'elemosina servendosi dei piccoli. Mi ha fatto pensare invece questa considerazione: Mendicanti si nasce e talvolta lo si diventa per necessità ma, per fortuna, mendicanti si rimane per sempre.
Non è forse vero che tutti noi mendichiamo amore, considerazione, rispetto, e se non ci vengono dati, ci sentiamo poveri, profondamente privi della dignità umana? 
Ritroviamo i giovani mendicanti anche ne “I miserabili” di Victor Hugo.
I suoi personaggi appartengono agli strati più bassi della società francese dell'Ottocento, i cosiddetti "miserabili" - persone cadute in miseria, ex forzati, prostitute, monelli di strada, studenti in povertà - la cui condizione non era mutata né con la Rivoluzione né con Napoleone, né con Luigi XVIII.

Ho utilizzato il dipinto di Murillo perché mi è sempre colpito, tanto che ho cercato di copiarlo con le matite colorate, tanti anni fa. Eccolo qui.


Danila Oppio

giovedì, giugno 9

A ME MI HANNO "ROVINATA" I POOH? di DANI DANI BRUNI - Impressioni di lettura di DANILA OPPIO

 




A ME MI HANNO “ROVINATA” I POOH?
Di Daiana Artis Bruin (che preferisco citare con il suo nome d'arte!

Impressioni di lettura di Danila Oppio

Ho avuto qualche perplessità sul come I Pooh avrebbero potuto rovinare la protagonista del romanzo, e la faccenda mi ha molto incuriosito.

Ho cominciato a leggere e sono andata avanti senza respiro, pagina dopo pagina, tanto il contenuto è avvincente.

Scritto in forma semplice, quasi una conversazione tra amiche, come se Ascenza Spaccasassi fosse di fronte a me, a raccontarmi della sua vita fin da quando era piccola.

L’autrice non ha cercato parole raffinate, per raccontare la storia, ha utilizzato un linguaggio discorsivo. Il racconto si snoda lungo tutta l’esistenza della protagonista, da quando era piccina, fino ai tempi nostri o quasi. Ambientato a San Benedetto del Tronto, risente del sistema educativo della gente del luogo, dei timori di “fare brutta figura” se si racconta in giro quel che deve restare nel privato. Quel che pensa la gente influisce sulle scelte da prendere, e il padre, quale capofamiglia, ha potere decisionale su ogni membro di casa.
Non racconto la trama del libro, poiché lascio ai lettori il piacere di leggere la narrazione e trarne le proprie impressioni.
Le mie sono state positive, trainate dalle citazioni di testi tratti dai brani dei Pooh, cui l’autrice ha dedicato questo libro.
Ho ordinato il libro di Daiana qui: