POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

sabato, luglio 28

LA RUPE DEL BIANCOSPINO un libro di Rita Iacomino








La presentazione del libro di RITA IACOMINO a San Vito Chietino: nella foto Alessandro Quasimodo, Rita Iacomino, Valeria De Felice, in rappresentanza della Casa Editrice omonima e Carmelo Consoli, Presidente della Camerata dei Poeti di Firenze. 
Dal blog La Luna e il Drago, Caffè Letterario ideato e diretto da Anna Montella, la presentazione dell'evento avvenuto lo scorso 21 luglio. Chi meglio di lei, a parlarne? Così come il video qui sopra, che è stato realizzato dalla stessa Anna, impareggiabile come sempre.

LA RUPE DEL BIANCOSPINO il primo romanzo della poetessa Rita Iacomino il 21 luglio p.v. in Abruzzo in anteprima nazionale

Il romanzo di Rita Iacomino è stato presentato il 21 luglio p.v. in anteprima nazionale in Abruzzo a San Vito Chietino, dove il romanzo è ambientato e dove si svolgono le vicende di Camilla, la nonna dell'autrice.    
Sono intervenuti
Carmelo Consolipresidente La Camerata dei Poeti di Firenze
Valeria Di Felice, responsabile Edizioni Di Felice
Alessandro Quasimodoattore e regista prefatore del romanzo.  
Accompagnamento musicale a cura di Roberto De Grandisflautista. 
Cornice naturale dell'evento lo splendido teatro "Due Pini". Ore 21.00. 
Tutte le info sul sito dell'autricewww.ritaiacomino.com

clicca l'immagine e guarda per il book trailer 












"La cornice storica della prima guerra mondiale, dell’avvento del fascismo e del secondo conflitto proiettano una luce drammatica all’interno delle vicende familiari dei protagonisti: Camilla e Rocco. [...] I numerosi figli della coppia assistono a eventi che aggravano la difficile situazione economica senza scalfire i grandi valori trasmessi dalla famiglia. Solo Gilda sembra ribelle, un po’ come Lia e ‘Ntoni ne I Malavoglia e Hella in Eredità. [...] Rita Iacomino, con tocco leggero, sostenuto da una sorte di connaturata, piacevole ingenuità, che è il pregio e il fascino della sua scrittura, ci introduce dolcemente, quasi per mano nella sua “tranche de vie”. Traspare in essa anche il forte senso di appartenenza dell’autrice alla sua terra e il suo sconfinato, riconoscente amore per nonna Camilla, autentica protagonista del romanzo"  (dalla prefazione di Alessandro Quasimodo)
L'AUTRICE - Nata il 12 aprile 1950 a San Vito Chietino (Ch), Rita Iacomino nel 1966 si trasferisce a Limbiate (MB) dove vive e lavora come impiegata. Appassionata di scrittura e lettura, dalla partecipazione ai premi letterari - iniziata nell'anno 2011 - l'autrice ha ricevuto ad oggi numerosi riconoscimenti tra primi, secondi, terzi premi oltre a premi speciali, trofei, premi della critica, della giuria, menzioni, segnalazioni. Sue opere sono inserite in diverse antologie e raccolte. Il 3 dicembre 2016 riceve, altresì, il Premio alla Cultura negli ambiti del Premio Internazionale “Juan Montalvo” promosso dal consolato generale dell’Ecuador di Milano. 
Ad oggi ha pubblicato tre libri di poesie: “Formato A4” (2012); “…e mi fingo poeta” (2015); “Ostriche a mezzogiorno” (2016) con prefazione di Alessandro Quasimodo. A dicembre 2016, per la prima volta, la Iacomino si espone con un libro di narrativa, una raccolta di 18  racconti, toccando vari temi attraverso i diversi stati d’animo umano. Fantasia, tristezza e ironia sono i temi trattati nel libro dal titolo “Antichi sussurri”, con prefazione di Rodolfo Vettorello. I libri dell’autrice si trovano in diverse biblioteche italiane.
Rita Iacomino è ideatrice e presidente esecutivo delle varie edizioni del Premio Letterario Internazionale "Energia per la Vita", promosso dal Lions Club Rho, di cui è socia.

Seguono alcuni scatti effettuati durante la presentazione del libro, che mi intrippa così tanto, da averne oggi ordinate 2 copie. 












lunedì, luglio 23

DAL VIVO di Angela Fabbri


sabato 21 luglio 2018


DAL VIVO di Angela Fabbri




DAL  VIVO  






Stamattina alle 7 ho fatto un giro in cucina e poi nello studio per aprire le finestre all’aria ancora fresca del mattino.
E chi c’era sul davanzale interno? Chiusa dentro e ferma lì che non muoveva un muscolo?
Una specie di ENORME MOSCA. L’ho esaminata con gli occhi del sonno. Troppo grossa, ali troppo lunghe che superano l’addome di un bel terzo. Intanto sapevo che il letto mi chiamava indietro.

Ho spalancato la finestra. Ho preso un foglio di carta (ne ho sempre in giro) e gliel’ho passato sotto invitandola a uscire.

Incredibile! Si è rivoltolata tutta, suonando come se avesse ingoiato un’armonica.

E così forte che mi ha scosso.

Ci ho riprovato e non ne ha voluto sapere, ma mi ha sparato addosso tutta la sua musica interiore con una forza inaudita.

Di nuovo e si è ribaltata, sempre continuando a suonare quasi trillando da dentro.

HO CAPITO! Sono corsa a prendere un bicchierino di plastica che tengo per gli insetti sgraditi ma cui salvo la vita, gliel’ho coperchiato su, ho passato il foglio sotto e, via fuori dalla finestra con tutta la sua musica volante!

E cosa potrà mai essere? Ma certo (riesco a ragionare anche quando dormo): É una CICALA!

Non ne avevo mai visto una dal vivo.

Stanotte poi ho completato il riconoscimento su internet per la foto (e la prima era proprio lei!) e in seguito sul mio vecchio libro di scienze naturali: appartiene ai RINCOTI, come le cimici, solo che succhia la linfa degli alberi.

Tenuto conto che la dimensione delle CICALE spazia dai 2 ai 6 centimetri e questa era oltre i 5, mi chiedo, tenuto conto della dimensione sonora dei concerti che queste GROSSE creature tengono nel parco quassotto tutte le estati, come si trovino gli alberi con loro.

Tenuto conto che alcuni sono CENTENARI e che le cicale hanno un periodo larvale sotterraneo che può arrivare a 17 anni, direi che gli alberi ci si trovano bene. Rami, foglie e radici comprese.

Angela Fabbri

(Ferrara, notte fra 18 e 19 luglio 2018)

Angela, solo tu sai quanto io sia distratta! Ecco, ho iniziato a leggere questo DAL VIVO senza aver letto il nome dell'autore. Vado avanti un pochino, e mi dico: "ma questo racconto ha il classico stile di AF! Solo lei sa guardare oltre. Ed io, solo alla fine, ho letto il tuo nome: se anche non fosse stato riportato, avrei giurato che la penna che lo ha scritto, ti apparteneva! Piaciuto molto. Tanti anni fa, quando ero una giovane mamma, in campeggio coi due piccolini a Punta Ala, ho visto un insetto grosso, ancorato alla rete delle finestrelle della tenda. Era notte, e le cicale cantavano la loro canzone. Questa invece era ferma, immobile, e la credevo morta. Sono rimasta ore ad osservarla, e poco alla volta la sua corazza si spaccava. Oh Dio, sta morendo ferita, questo è stato il mio primo pensiero, ma non ho osato toccarla. Dopo ore, immobile quasi senza respirare, la corazza si è aperta del tutto, e qualcosa di umido si stava muovendo. Una nuova cicala? Certo, stava facendo la muta e non ero al corrente di questo suo rinnovarsi. Ci sono volute altre due ore, perché le sue nuove ali accartocciate si distendessero, si indurissero abbastanza per poterla sollevare in volo. Non era morta, ma io si, di sonno! Però questa esperienza non la scorderò per il resto della mia vita.
(Commento di Danila Oppio)

Così, per caso, mi hai riscoperto, Danila Oppio! Sai, anch'io faccio concerti in giro, come le Cicale. E di loro avevo parlato proprio non tante notti fa. Devono averlo saputo e una di loro è venuta a farsi conoscere di persona.
Per me è stato un GRANDE REGALO incontrarla.
Ho ancora dentro quel momento e, più che un'armonica, dato il sonoro ritmato e singhiozzante, sembrava avesse ingoiato un ORGANETTO.
(Commento di Angela Fabbri)

Quella cicala è stata fortunata, perché ha incontrato te, che non l'hai uccisa. Oggi ho letto una notizia di un fatto accaduto in Inghilterra, dove un pensionato al bar ha ucciso un gabbiano, sbattendolo contro il muro, perché il poverino si era permesso di rubargli una patatina dal suo piatto. E' scandalosa una reazione del genere, pura crudeltà. Tu gli avresti offerto tutte le patatine, purché restasse vicino a te, ne sono più che certa. 
(Commento di Danila Oppio)

Il tutto ripreso dal sito di Renata Rusca Zargar Senza Fine, di cui qui sotto il link diretto, e un video trovato su YouTube, che mostra, velocizzato, ovvero in Timelapse, l'esuvio della cicala. Una specie di parto che dura ore cui, come da commento, ho assistito.

https://youtu.be/pD6VGpwH5XA

Recensione di Marina Zilio per ARTICOLI PER TUTTE LE MISURE di Angela Fabbri



Recensione molto stringata, ma che illustra molto bene il contenuto dell'opera.
Ripresa da: 



S'I' FOSSE FOCO (reloaded 2016) di RINA BRUNDU


A VOLTE LI SENTO ANCORA di Rina Brundu


NEL PAESE... di Anna Montella


PHANTAASIA di Roberto Di Pietro - Analisi critica del Prof. Andrea Maia




La coccinella e  il quadrifoglio

di Andrea Maia

PHANTAASIA non IMAGINAATIO VERA di Roberto Di Pietro ha un incipit folgorante, di impostazione narrativa (a contrasto con gran parte dell’opera, di impostazione dialogica): una apertura vivida, segnata dal raggio di sole che si insinua a risvegliare la Bimba in consonanza con il sorgivo nascere di una da poco avvertita sensualità (è un moderno Cappuccetto Rosso, come si vedrà). La scena raggiunge la sua climax nel prorompere nella cameretta, accolti a braccia spalancate, del tepore e della luce primaverile, per poi distendersi nella ripresa narrativa della vestizione, che la protagonista compie con un abito preso in prestito dalla sorella Arianna; e qui il lettore saputo, o che tale si crede, percepisce come un brivido, che si replica poco dopo, quando viene a conoscere che la Bimba si chiama Fedra (e gli risuona nel cuore il verso raciniano la fille de Minos et de Pasiphaé). “Cappuccetto Rosso rinarrato o ripresa del mito cretese?” si chiede un po’ perplesso, e ricorda che tra le epigrafi una riguarda il Minotauro. Subito dunque si rende conto della complessa problematicità, della ricchezza e varietà di prospettive, della molteplicità delle interpretazioni possibili dell’opera che sta cominciando a leggere.

Conclusa la lettura, colpiti dalle sottili acrobazie (concettuali e poetiche, metriche e fattuali, liriche e drammatiche) e dalle novità formali e di contenuti, potremmo forse discutere alcuni esiti dell’opera, dichiararci incerti di fronte a pagine ardue, un po’ frastornati dalla fitta, deliberata presenza “postmoderna” di citazioni ed allusioni (a tutte le letterature occidentali ed anche oltre), ma certamente dovremo elogiare l’insolito coraggio, l’abilità e l’originalità di questo Poeta Umanista a tutto tondo. In un tempo di estenuati lirismi, di parti faticosi di composizioni esili e striminzite, di autocontemplazioni frazionate, stese in comodi aritmati “versi liberi”, merita indubbiamente il plauso del pubblico e della critica uno scrittore che affronta la composizione di un ampio, impegnativo poema, basato su un rispetto rigoroso della metrica (si alternano in esso, come nell’Aminta del Tasso, settenari ed endecasillabi di perfetta fattura), in cui mito ed attualità cozzano fra loro mescolandosi, in cui alcuni archetipi della fiaba e della letteratura classica vengono rivisti, riusati e rovesciati: un’opera di difficile collocazione in un genere tradizionale, in quanto caratterizzata da una complessa mescidanza di tonalità comiche e drammatiche, di realtà concrete e astratti teoremi, di ironia e serietà, di sarcasmo ed umorismo, di tragedia e farsa, e nella quale si prendono criticamente le distanze dai difetti, dalle colpe, dalle follie, dalle plateali stupidità del nostro tempo dominato dalla televisione e dai quiz, cioè dal vuoto culturale, con sullo sfondo una società allo sbando, ricca di presunzione quanto povera di valori e qualità. E, a questo punto, ci appare anche evidente come il concetto bachtiniano di “carnevalizzazione letteraria” (e il “rovesciamento dei valori” che esso comporta come strumento di verifica sul piano etico) sia stato magistralmente adottato ed elaborato dall’autore.
            Con scelta spregiudicata, Di Pietro ha deciso di non tener quasi conto della variabile “lettore”. Quest’ultimo si trova dunque lì per lì logicamente spiazzato, in difficoltà di immediato orientamento; e solo alla fine (come premio di una costanza agevolata dalla musica dei versi, dalla originalità delle invenzioni, dalla suggestione dei suoni accompagnata dalla totale pienezza del senso) vedrà chiaramente collocarsi al loro posto, in un quadro complessivo ben decifrabile, le tessere di un articolato mosaico poetico in cui nemmeno una battuta risulta affidata al caso: un testo organico, che l’autore stesso, in una nota, riconoscendone dunque la valenza enigmatica ed ermetica, definisce giustamente un “puzzle giallo”.
            Per una operazione del genere occorreva una sapienza notevole di impronta tipicamente “postmoderna”; ed io mi sento anzitutto di offrire all’autore l’omaggio della mia stupita e convinta ammirazione.
            Ma io sto scrivendo una postfazione e do per scontato che i “miei” lettori abbiano già letto con attenzione sia il testo sia le note (molto utili se non indispensabili, in questo caso, per la loro stretta complementarità rispetto ai versi). Mi pongo dunque, con questi lettori, una domanda, forse superflua, ma che la critica (per la sua ineliminabile funzione di chiarimento, sistemazione e razionalizzazione) non può evitare di porsi: a quale genere, a quale tipologia letteraria appartiene l’opera che ho letto? La difficoltà di dare una risposta univoca a questa domanda, se da un lato conferma la ricchezza e la complessità dell’opera stessa, dall’altro ne indica la sostanza enigmatica e suggerisce che una certa percentuale (più elevata del solito, in quanto un margine di mistero irrisolto è tipico di ogni autentica poesia) di testo rimanga sottratta alla immediata comprensione del lettore. (Ma, aggiungo, non sta forse qui il fascino di una suspense implicita nella trama di un racconto che, fin dall’inizio, presenta dei richiami inconfondibilmente ”gialli”?) Una volta deciso di definire il libro “poema”, resterà ancora da precisare il sottogenere: poema mitologico, pedagogico, metapoetico, filosofico, tragicomico? Ognuno degli appellativi che ho appena usato si adatta ad aspetti dell’opera, ma nessuno di essi ne definisce, esaurendola, la sostanza. D’altra parte, non possiamo nemmeno dimenticare che la commistione dei generi è, dopotutto, una delle caratteristiche fondamentali della letteratura postmoderna; e qui Di Pietro sembra volercene offrire un esempio lampante. Lo chiamerò, visto che è in gran parte costituito da dialoghi (con le parti narrative - molto belle nel loro sostanziale lirismo - che esercitano la funzione di didascalie) “poema teatrale”, senza ulteriori specificazioni, sottolineando ancora la molteplicità ricchissima di spunti diversi da cui deriva l’esigenza delle note, che l’autore ha redatto in terza persona, con garbato distacco e con spunti autoironici che dimostrano la sua intelligenza e maturità di “luuupo”  posseduto, come Asterio, dal demone della cultura e dell’arte.
            Ripercorreremo  per lampi e salti, rapidamente, il poema, dal fervido luminoso incipit primaverile fino all’urlo nero di Fedra per l’uccisione del lupo, mettendo in risalto almeno due aspetti essenziali  l’impostazione strutturale, la tipologia dei personaggi ed i ritratti linguistici.

Una struttura dialogica tripartita.

Il poema è suddiviso in tre parti di lunghezza assai diversa: a) ANABASI (240 versi), b) STRANO INTERLUDIO (oltre 2800 versi) e c) CATABASI (oltre 800 versi). Il totale dei versi (intorno ai 4.000) pur lontano dai tradizionali poemi italiani (14.233 la Commedia, 38.688 il Furioso, 15366 la Gerusalemme) risulta alto se si confronta alle composizioni ottocentesche o novecentesche (395 I Sepolcri, 317 La Ginestra, 433 versi La terra desolata di Eliot) ed indica l’effettiva volontà di costruire non una silloge di composizioni (come era ancora il lavoro precedente In soliloquio dialogando) ma un vero e proprio poema, con l’aggiuntiva particolarità della struttura dialogica di lontana illustre derivazione, se pensiamo che i dialoganti si chiamano Fedra, Clitennestra, Asterio-Ippolito, Arianna...
            La prima sezione (Anabasi) è caratterizzata, rispetto al resto del poema, risolto quasi esclusivamente in dialoghi e monologhi, dalla presenza di alcuni consistenti inserti narrativi (il risveglio, il cammino nel bosco, l’arrivo alla casa della nonna) intervallati dal dialogo diretto Madre-Fedra e dal ricordo “testuale” delle raccomandazioni della Madre. Particolarmente suggestivo il breve intenso inizio narrativo, che già abbiamo esaminato; la fanciulla indossa gli abiti della sorella più grande (Arianna, il cui nome è anticipazione della funzione importante che il personaggio avrà nel finale) e si scontra subito con la madre eternamente ansiosa / del respirare stesso della figlia. Fedra vuole andare a trovare la nonna Clitennestra, il cui nome appare presto nel discorso della madre. Sia nel dialogo sia nelle raccomandazioni, accanto alla centrale preoccupazione della madre (evidentemente invidiosa dell’appeal sessuale della figlia che va ormai superando il suo; si noti la sua preoccupazione per il vestito succinto e la sua sollecitudine nel chiudere il mantello e coprire i riccioli di lei) sul pericolo della perdita della virtù della bambina, si intravvede già l‘immagine del personaggio principale, il lupo Asterio, implicitamente indicato come pericoloso tentatore di bambini e poi, esplicitamente presentato (quell’Asterio! / Che là sotto le stelle / quando la notte è chiara/ quand’è di luna piena, / caaanta!), col suo fascino di notturno menestrello, bugiardo d’un lupaccio ammaliatore. Anche nella traversata del bosco, Fedra rallenta e si ferma per i sentieri, conscia di un’altra presenza, suggerita da labili segnali: il richiamo di un merlo, invito e promessa insieme, ed un occhio cilestrino che la spia con bizzarro affetto. La sezione iniziale fa dunque da ouverture del poema, delineandone le principali tematiche collegate ai personaggi che appariranno in seguito.

            La seconda sezione del poema (Strano interludio) è la parte decisamente più estesa, ed è nettamente divisa in due parti: la prima contiene il dialogo fra il lupo e la bimba, si distende per circa duemila versi e rappresenta il nucleo concettuale dell’opera, segnando la ancora inconsapevole evoluzione interiore di Fedra e delineando a tutto tondo la figura di Asterio, con il suo ardore filosofico e pedagogico che resta in gran parte, per il momento, ignorato e frainteso dalla interlocutrice. Il colloquio avviene nel letto della nonna, e la bambina gradualmente scopre il lupo, senza provare disagio o paura, anzi viene affascinata dal suo folto pelame bianco. E’ un dialogo che procede faticosamente, perché i due interlocutori usano linguaggi diversi: il gergo giovanile lei - con l’aggiuntivo inserimento di espressioni assurde ed errate imitanti il parlar materno -; la lingua alta ed eloquente della cultura lui, che cerca soprattutto di inculcare in lei la differenza tra il credere  ed il pensare, oltre che il pericolo del falso immaginare. Nella voce del lupo poi risuona l’eco della poesia del passato, con una ricca serie di allusioni dai classici antichi a Dante, da Shakespeare a Leopardi, da Byron agli Scapigliati ed a Montale. Nella parlata del lupo brillano inoltre alcuni spunti lirici, come i versi che mi hanno suggerito il titolo di questa riflessione: Asterio è convinto, come ha appena affermato Fedra, che esiste la fortuna... e la definisce, alludendo, con delicata immagine lirica, al loro incontro:
                                                            ... è il volo
                                                d’ignara coccinella
                                                che nel posarsi incontra un quadrifoglio.
Ma verso la fine del colloquio il dichiarato amore del lupo per la bimba (amore di educatore, filosofo e psicopompo) viene completamente frainteso da lei. Questa parte si chiude con la fuga di Fedra indispettita ed offesa dal rifiuto, da parte del lupo, della sua offerta erotica, e pur profondamente legata ormai a lui.
Nella seconda parte, più breve, dopo che il lupo si è abbandonato a lampi di citazioni poetiche d’amore (Dante, provenzali, Leopardi), per il suo desiderio - simile a quello dell’autore dell’autore - di voler individuare e dare senso alla Parola poetica, Asterio raggiunge Clitennestra, che, quasi per una specie di contrappasso (il lupo aveva parlato a lungo con Fedra) rivolge ad Asterio (un tempo suo discepolo)  un discorso che non lascia a lui nessuno spazio: il lupo dovrà limitarsi ad ascoltare, esprimendo il suo parere con semplici reazioni fisiognomiche, senza poter pronunciare una sola parola. Clitennestra è la voce della esperienza, della cultura, anche della conoscenza dell’ornitologia e del valore simbolico delle creature alate (e si vedano le note illuminanti, redatte dall’autore a questo riguardo); il suo discorrere ha analogie con la parlata del lupo (che è stato non a caso suo discepolo), in quanto è di tono alto ed eloquente, ma di una eloquenza più calcolata e meno istintiva. paradossalmente l’episodio si conclude con l’unione carnale/spirituale tra la vecchia signora ed il lupo, quasi una sostituzione del mancato amplesso con Fedra. Ma questo atto mancato - creduto reale dalla Madre - sarà la causa della fine tragica di Asterio.
La terza sezione (Catabasi), di 800 versi, segna il ritorno al punto di partenza, il richiudersi del cerchio e conclude l’opera sistemando al loro posto le tessere del mosaico complessivo, rivelando, fra l’altro, come Asterio sia venuto in contatto con tutti gli altri personaggi per contribuire - non certo nel caso della madre, essere statico e incapace di qualsiasi positiva evoluzione, ma per tutti gli altri, dotati di potenzialità - alla loro crescita e maturazione. Come nella evoluzione della tragedia classica, dopo il dialogo ed il monologo si passa, con l’introduzione del tritagonista, ad una vera e propria azione teatrale, con l’intrecciarsi delle voci tipicizzate di tre personaggi, due che conosciamo già (la Madre e Fedra), una nuova, la più nitida e sicura, la voce di Arianna, Signora del Labirinto, di colei che possiede il filo per guidarci alla conclusione e per intrecciare, al di là della comprensione materna, un discorso che consente alla sorella minore di capire quanto le è stato dato da Asterio, così da porsi poi, nell’episodio del sogno, di fronte al proprio personale Minotauro, affrontando per la prima volta la propria interiorità e specchiandosi nella propria coscienza, fino alla consapevolezza che per causa sua il lupo è andato incontro al proprio destino di morte, abbattuto dalla fucilata della Madre. Ma per quest’ultima sezione e dei ritratti linguistici di essa tratterò ancora nel paragrafo successivo.

Tipologia dei personaggi e ritratti linguistici

Nel poema l’autore definisce i personaggi attraverso la loro parlata, in cui svelano, per lo più inconsapevolmente, il carattere, la formazione, la mentalità, la sensibilità (o l’assoluta assenza di essa). Ciò, si replicherà, è normale e tipico di qualsiasi opera teatrale. Ne siamo proprio sicuri? In realtà ciò accade raramente, almeno con le differenziazioni nette che troviamo in queste pagine; e occorre perciò rilevare come, in questa non facile impresa, Di Pietro dia davvero prova di qualità letterarie di straordinario, encomiabile livello. Se noi sfogliamo il libro e leggiamo due o tre versi di una battuta, subito riconosciamo il personaggio: qui è Asterio che parla, qui è Clitennestra, qui è Arianna, qui è Fedra (o la madre, in quanto i “ritratti linguistici” delle due sono confinanti ed intrecciati, come è logico: una bambina imita istintivamente la madre, assimilandone tipiche espressioni).

Asterio Ippolito o l’educatore. Il vero protagonista, costantemente presente o con le sue parole o nel pensiero e nelle indicazioni degli altri personaggi, è il lupo Asterio-Ippolito. Nella visione volutamente rovesciata (“carnevalizzata”) ed anticonformista dell’autore (non dimentichiamo il titolo generale del ciclo A testa in giù, di cui Phantaasia non Imaginaatio Vera è solo una parte – e si noti, fra l’altro, come quel “non”, essendo studiatamente attribuibile al primo come al secondo termine, intenda richiamarsi ai famosi responsi “ambivalenti”, tipici delle sibille dell’antichità) l’istinto, rappresentato dall’animale, sta al disopra della ragione: l’animale balza in alto, l’uomo precipita in basso. Asterio il “bianco” rappresenta la superiorità intellettuale ed etica che, in un mondo “sbagliato” come quello in cui viviamo, è considerato, per la sua estraneità ai falsi valori che soltanto quel mondo riconosce, emarginato, condannato come “diverso”. E’ il destino che già Baudelaire assegnava al poeta nei Fiori del male, quando lo assimilava all’albatro, uccello maestoso e bellissimo quando domina la tempesta e sfida l’arciere, goffo ed irriso quando approda sulla tolda della nave, ove ses ailes de géant l’empèchent de marcher. Lettore di poeti, assimilati dall’educazione ricevuta da Clitennestra, Asterio usa un linguaggio istintivamente alto e retorico, ricco di citazioni ed allusioni culturali, con cui fa emergere un atteggiamento di filosofo con vocazione pedagogica, intrisa di benevolenza nei confronti della bambina che, addestrata dalla meschinità della madre, equivoca sulle sue intenzioni e, quando le scopre, si infuria in quanto si sente umiliata dalla mancata corrispondenza sul piano erotico all’attrazione indubbia che lei prova per il lupo, il quale ha invece scoperto in lei delle potenzialità sentimentali e razionali degne di essere coltivate.
Clitennestra è quasi una variante al femminile di Asterio (di cui non a caso l’autore ipotizza lei nella funzione antecedente e mai deposta di maestra ed educatrice); infatti tra i due c’è una sostanziale analogia di linguaggio: la scelta dello stile elevato ed eloquente (tragico lo definivano gli antichi) è analoga nei due, anche se in lui prevalentemente istintiva, in lei più voluta e consapevole. L’autore evita (forse perché qui non si sarebbe potuto realizzare il contrasto chiaroscurale, ovunque sempre presente nell’opera, fra voci diverse fra di loro?) un vero e proprio dialogo tra i due, facendo di Asterio un ascoltatore del discorso di Clitennestra, attento sempre, ora rilassato, ora irritato, ora infelice per ciò che ascolta, ma incapace di interloquire.
Ma i ritratti linguistici (e psicologici insieme, se pensiamo, come l’autore, al potere della Parola poetica di offrire qualche prezioso barlume di verità) che risaltano maggiormente dalla struttura dialogica, sono quelli della terza sezione, con il complesso scambio di “battute a tre” che scaturisce spontaneamente dalla confusa narrazione di Fedra in seguito al suo ritorno dal bosco, con le vesti “inspiegabilmente” lacere e il corpicino in realtà solo graffiato dai rovi.
Fedra (e la sua voce, i toni della sua parlata gergal-scolastico-infantile resta quella che ascoltavamo già nel dialogo col lupo) rappresenta l’ingenuità e la curiosità; piange e si lamenta, nel finale dialogo a tre, perché il lupo l’ha rifiutata, ma la Madre non la capisce ed equivoca (per la sua segreta gelosia e inconfessata voglia... di lupo) sulle sue parole, interpretandole in senso opposto al loro vero significato. Caratterizzano il linguaggio della bimba, oltre che il vezzo di allungare le vocali toniche con una lagna infantile, l’uso improprio e senza dubbio molto divertente del lessico, spesso ricco di maliziosi doppi sensi, specie nel caso di parole difficili fantasiosamente scorciate o allungate; e l’utilizzazione del gergo giovanile, di cui l’autore compila in appendice un elenco con le opportune spiegazioni.
La Madre, dal punto di vista psicologico caratteriale, per una evidente volontà dell’autore che in lei forse intende sintetizzare tutto ciò che più odia o che più lo infastidisce, risulta un personaggio del tutto negativo: è superficiale, incapace di porsi dal punto di vista altrui, ignorante e di una stupidità tale da ritenersi la più lungimirante e saggia delle madri; non le manca una buona dose di invidia ed una inconfessata brutale attrazione verso il lupo, che si muta in odio feroce quando crede che le sia stata preferita la figlia. L’autore rende evidenti al lettore questi difetti non soltanto attraverso le cose che la donna dice, ma attraverso il modo in cui le dice: le scelte lessicali e stilistiche legate al linguaggio televisivo, gli errori plateali, i toni che denunciano egocentrismo, grettezza, insensibilità, presunzione. Ne risulta un ritratto linguistico di eccezionale coerenza e vivacità, capace di dar vita possente ad uno dei personaggi più detestabili che come lettore io abbia mai incontrato.
Arianna o la cultura organizzatrice.  Il personaggio della sorella maggiore è forse quello risolutivo. Presente di scorcio (la “Nanni” citata nelle prime battute) fin dall’inizio del poema, trova il suo spazio e la sua funzione nel finale, ove sembra riprendere la funzione educativa, rimasta incompiuta, di Asterio nei confronti di Fedra. Risulta dal suo discorso (razionale e preciso, ma anche allusivo, per farsi capire sufficientemente dalla bambina impedendo nello stesso tempo la comprensione da parte della madre) una personalità adulta e sicura, una capacità di riflessione filosofica (è una studentessa di filosofia, ha conosciuto Asterio e lo ha convinto a partecipare come esperto ad un seminario). Il suo linguaggio sobrio e misurato si distacca nettamente da quello degli altri personaggi.

Un’opera complessa e forse tanto più affascinante in quanto insolitamente ardua, quella che abbiamo appena letto e sulla quale (o meglio, su alcuni spunti ed aspetti della quale) ho steso queste mie modeste semplici riflessioni; in effetti, l’apparente “difficoltà” del poema teatrale di Di Pietro non è di quelle che deludono o respingono: è di quelle che incuriosiscono, stimolano, spronano a rileggere e ad approfondire, per tentare di sciogliere gli enigmi residui presenti frale righe; ed inducono magari il lettore a ricercare nel profondo della coscienza il confronto con il simbolico Minotauro che, secondo Marguerite Yourcenar, si annida dentro ciascuno di noi.

Andrea Maia

domenica, luglio 15

SINTESI per CASA EDITRICE “L’HARMATTAN” PER ACCOMPAGNARE LA SILLOGE “IT’S STARLIGHT, THOUGH”


In questo stesso blog è stata pubblicata la sintesi in lingua italiana, tratta da quella più articolata, in lingua inglese, della silloge poetica IT'S STARLIGHT, THOUGH di Roberto Vittorio Di Pietro, solo che era visibile in fotografia, e non molto leggibile. Qui presento la versione originale in lingua inglese e la sintesi, in lingua italiana, realizzata in forma volantino dalla casa editrice L'ARMATTAN.
Vi rimando ai precedenti articoli:

As modern things grow old,
old things will come into fashion again.
(Leo Longanesi)



F O R E W O R D

While most of the poems included in this selection were previously conceived, written, and published in the Italian language, they in no way reflect a simple translation exercise. If anything, they may perhaps be described as “imitations” of themselves, in the sense that Robert Lowell attached to this word. In each single case, as I attempted to recapture the spiritual mood and creative stimuli which had prompted the original version, I increasingly realised -- or rather found corroboration to one of my firm beliefs -- that the very use of a different language opens up unpredictable vistas in terms of “re-experiencing” one’s thoughts and conveying related emotions. This, I think, proves especially true with multilingual speakers/writers who have also developed sufficient familiarity with the specific cultural heritage underlying the bare structural patterns (grammar, syntax, vocabulary, idioms...) in any of the various languages they may otherwise have mastered; and the additional awareness of such extra-linguistic discrepancies is of course all the more relevant when the alternative communication vehicle is poetry – which, to a considerable degree, does qualify as “rhythmic creation of beauty”, in the charming definition offered by Edgar A. Poe.
Metrical rhythm is indeed a factor which I had basically favoured in the Italian original; and this again (appropriately readjusted, not seldom as a function of new correlative ideas and imagery) will be found to constitute a pivot in the English poems collected in this book.  A deliberate choice, in either case; and, if I may say, a provocative one as well, current art trends being what they are, and generally alike on an international scale. Even though my personal approach to poetry is anything but idly aesthetic – i.e., the appreciation or pursuit of “fine tinkling rhyme...with now and then some sense”, to quote Ben Jonson’s debatable if possibly tongue-in-cheek remark, in the same way that it was not for poets and critics such as T. S. Eliot, for instance, who, to my mind, most rightly re-affirmed the value of pithy contents as opposed to pleasing but often weightless words -- I am still inclined to believe that our advanced postmodern artistic efforts should not too flippantly neglect some of the peculiarities of sound and rhythm that made poetry identifiable as such from time immemorial, and perceptibly distinguishable from otherwise well-turned “imaginative” prose. “Words without thoughts never to heaven go”: quite true, I must say on the one hand; but still, on the other hand, much as proverbs are aimed at propounding pieces of practical wisdom in a type of phrasing which can be the more easily memorised by virtue of its sheer ring, I feel that poetry – even in its higher aspirations and accomplishments – should have a fairly similar appeal if it is to prove comparably effective with readers at large. And, oddly enough, I am thinking of today’s poetry readers in the lower age bracket -- “the younger generation of slogan-and-jingle enthusiasts”, as present-day sociologists occasionally choose to describe them, hopefully with matter-of-fact professional insight and none of those undesirable judgmental implications which I entirely disclaim. Who could, in fact, deny that traditional nursery rhymes, or Edward Lear’s captivating “Book of nonsense”, or the catchy tunefulness characterising the so-called “Songs” from Shakespeare’s plays, normally would cast a quite similar spell over the more sensitive English-speaking children and musically inclined teenagers until perhaps only a few decades ago? Human nature no doubt carries inborn aesthetic needs, instinctive and unchangeable even though taste may continually vary in the way such needs are best fulfilled.
First-priority status for contents, then; but with an eye to other equally decisive values, in my opinion. For purposes of this argument, let me cite as a case in point the results achieved by William Butler Yeats, who unquestionably remains for twentieth-century English poetry the great alternative to the influence of Eliot. Yeats admittedly revealed a dual nature in his poetic personality. Whereas he championed and pursued visionary art, and of the greatest magnitude, at the same time he certainly did display a strong streak of realism and a sense for the mundane “here and now” as a likewise rich source of philosophic investigation. But, whether he grappled with rarefied esoteric symbolism or more down-to-earth speculation, or, intriguingly, a subtle juxtaposition of both, his most memorable lines invariably show him to be quite conscious of the fact that verse hardly proves worthy of such a name unless Poe’s “romantic” idea of poetry, as quoted above, to some extent is also brought into play.
And, with a backward leap in time and space, I daresay that the masterpieces of Dante or Shakespeare, notably and justly viewed by T. S. Eliot as unsurpassed -- or of the English so-called “metaphysical poets”, whom he likewise commended and held up as models, for that matter – are only pearls of the first water in an otherwise genuine and valuable international golden treasury through which we could still randomly verify in what measure the most profound “music of ideas” can be sought without the qualifying traits of poetic diction having to be necessarily sacrificed, let alone jettisoned as a superseded, cumbersome appendage, as far and wide they now unfortunately tend to be regarded. Moreover, with this specific purpose in mind, should one wish to consult even an anthology of Eliot’s own production, would his innovative “non-romantic” type of verse after all not reveal a perfect chemistry combining inner music with some of the otherwise distinctive surface rhythms of traditional poetry? As one example out of many, the very structure of “Preludes” (which displays carefully arranged sequences of iambic tetrameters, one would observe) surely provides pertinent evidence and interesting food for thought.   
This leads me to some considerations on the fortune of the iambic pentameter in particular. Correctly enough, as several literary authorities have tended to remark, this ever-favourite in English and Anglo-American literature may have somewhat overreached itself since becoming the cloying stock-in-trade of some of the less inspired Victorian versifiers in particular. However, despite such possible mishaps, it should still be remembered that this measure, alternatively with its cognate blank verse (or unrhymed heroic, first introduced in England in the early sixteenth century through the translation of Virgil’s Aeneid by Henry Howard, earl of Surrey), has long stood as the regular one in English lyrical, dramatic, and epic poetry -- just as its approximate Italian equivalent, more usually ending with an amphibrachic foot (endecasillabo rimato/sciolto), gloriously held its own for centuries. For this reason, too, in line with my taste for constructively unconventional undertakings, I have rather single-mindedly, though not exclusively, revived this “old-timer” in my more recent Italian – and now English – experiments with “antiquated” prosody, on the whole as intentionally outdated as my bold use of punctuation throughout.
The rejection of traditional discipline in poetry writing may or may not be entirely traceable to Arthur Rimbaud’s subversive appeal for a “raisonné dérèglement de tous les sens” (1871). In France at least, the poèmes en prose of both Louis Bertrand (Aloysius) and Charles Baudelaire are sometimes indicated as earlier transgressive steps, although comparatively mild ones, in the same direction. One less controversial fact remains and is worth reviewing. Rimbaud’s personal option can hardly be stigmatised as arbitrary, or his official move as inconsiderate in his days. Why so? Even in his rebellious attitude as a born maverick, the French poet quite lucidly set out to confront a specific aesthetic issue which then revolved around the following fundamental questions: “Can poetic diction not be vested with an ulterior sense lying beyond the plain traditional meaning of words? Can a poetic text not be conceived wherein the ‘logical’ priority of word meaning as the mainstay of significant verbal communication is bypassed or disrupted?” Whether or not these theoretical queries actually met with an adequate solution in his poetic achievements in the last analysis is of no concern for our purposes here; what needs to be emphasised, instead, is that they did represent a genuine problem to the author’s conscience. Also, much like the painter Pablo Picasso in his own field, Rimbaud had indeed previously supplied unmistakable proof of his skills as a consummate artist well-versed in classical versification (particularly after the fashion of Victor Hugo and the Parnassian School) --  which in itself vouches for his fundamental good faith in choosing to depart from contemporary standards. On the other hand, his well-reasoned manifesto (“raisonné” had been an appropriate adjective to define it), besides being the formalised public avowal of inner dictates which, as suggested, we have no cause to believe insincere, was after all no undesirable endeavour towards stirring up sluggish waters in the particular phase of European literary history when it was launched. That revolutionary manifold innovative project was soon to attract extensive supranational attention; but another noteworthy fact is that a tidal wave of enthusiasm for unrestrained ‘deregulation’ has been spreading infectiously, with a vengeance, ever since. To what extent is this ongoing phenomenon still as legitimate now as it once may have been?
As a rule, mass imitation in any sector entails a gradual corruption of the ideal prototype; and, what is worse, a progressive misunderstanding and final betrayal of the non-superficial reasons why, sometimes, the original model was no casual luck-of-the-draw business in its author’s mind, but simply had to be designed that way in the first place.  More than a century later, it is difficult  to avoid the conclusion that a deterioration of that nature has meanwhile set in. A few gnawing doubts are inevitable – as they will be, whenever normally cyclical fashions somehow take too long to wear off, and whenever art works no longer appear to reflect their authors’ compelling and cogent individual motivations, but rather look like the product of some newly formed orthodoxy – or a new type of “fashionable” conformity the other way round, if you will. As this seems to be largely the case now (with signal exceptions confirming the rule, of course), a set of logical chain questions may result. How far – one wonders – does the current desire for ever greater emancipation stand as the truly creative postmodern  artist’s rightful claim to freedom?  And can this ongoing ‘deregulation’, based on a wild “anything-goes theory” at this juncture, be considered evidence of out-and-out freedom if it in fact hinges paradoxically on a rather authoritarian one-way tenet substantially upholding anti-traditional forms of expression as the only ones entitled to serious consideration or recognition by current aesthetic criteria?  And what if, in itself, this peculiar unilateral tenet ultimately supporting a “trigger-happy, shell-shocked” type of style (to put it graphically) had by now possibly become a slick excuse, as it were, a fairly convenient blind for inherent technical/professional shortcomings otherwise too conspicuous? And can this disturbing assumption be dismissed as totally groundless? From my personal experience I can say perhaps not, even allowing for today’s incommensurate external pressures brought to bear on an artist’s behaviour -- e.g., a by now dutiful allegiance to hyper-naturalism in the arts, for one (chaos to be the most perfect picture of chaos?), along with other concomitant factors no doubt of equal relevance in twenty-first-century globalised culture, here being necessarily left in parentheses at the risk of shallowness. I insist perhaps not, should one stop to evaluate, if only in terms of common psychology, the possible significance of so many peevish, uncompromising, irrationally excessive and therefore typically suspicious reactions one too often comes up against when serenely inquiring of the “self-confident knowledgeable practitioners” (so to qualify them) a good enough reason why they must feel so obdurately opposed to even the bare fundamentals of traditional poetry – i.e., the minimum ingredients which, like it or not, have always made poetry an altogether different thing from fancy prose style in the end.  The most blatant paradox we seem to be faced with nowadays is that, by common standards of criticism world-wide, the once endearing rules of that serious and noble “game” called poetry can in fact be scornfully pooh-poohed as “not only a ludicrous white elephant, but -- well, can’t you see it, my dear fellow? – intrinsically unpoetical.” Into the bargain!  Adding insult to injury, as I feel it.


In any walk of life, updating the past does not amount to turning back the clock indiscriminately; it involves the delicate and difficult task of ascertaining which of the elements previously discarded may still be viable, and in what measure so, as against those which are instead fit to he shelved for good. When addressing postmodern poetry in particular, would this prove a hopeless enterprise? Or one still worth a try? Maybe not foredoomed to failure, if undertaken with an iota of good will and with all due humility, needless to say. I believe a boost to one’s undermined morale can constantly be derived from the following significant “statement of intents” by the famous Italian poet Umberto Saba (1883-1957), which I am here attempting to render into English verse as faithfully as possible (the italics are mine):

I cared for trite words no one dared to use;
I was enamoured with the rhyme true/blue --
the oldest in the world, the hardest yet.
Truth I did love, which lies at the deep bottom
much like some long-forgotten dream or other,
through sorrow re-discovered as a friend.

Presenting himself as a “shockingly anachronistic rhymester” in his days, Saba was in fact labelled as such and, to his dismay, unremittingly snubbed for many a long year in à la page literary circles. Nonetheless, whole-heartedly committed as he was to a quest for that elusive “truth” lying beneath the surface, he stood his ground – until he eventually came to be acknowledged as one of the  foremost Italian poets of the past century. His fundamental devotion to that timeless “long-forgotten dream” to be re-explored in the face of more or less “fashionable” style, may well be considered a major theoretical lesson for postmodern artists in general. In practice, however, it could also be a perilous invitation if blindly taken up by dabblers with “trite words” who should fail to realise how much more is required to make a respectable, full-blooded poet in any case; and a challenge no doubt awesome for those who, like myself, are not quixotically unaware of their precarious condition as both truth-seekers and “non-conventional” postmodern versifiers.

It is a pity that writers should feel compelled to justify their views.  It would be so much easier and less risky not to do so; but there it is.  I am sure I have lamentably oversimplified a very complex issue on the whole – and, paradoxes being in question, undue simplification in a verbose manner (an oxymoron, good grief!) looks like a booby-trap I have most unforgivably fallen into.  May at least the sincere emotional drive behind it all prove convincing enough to stimulate further in-depth investigation by literary theorists, as well as concrete counter-efforts at the hands of any present-day artists – tomorrow’s prospective white hopes? – whose natural poetic inclinations more or less disagree with aesthetic biases now so rife in this all-too-complacent age.

Roberto Di Pietro


SINTESI (SOTTO FORMA DI INSERTO/VOLANTINO)
USATA DALLA CASA EDITRICE “L’HARMATTAN”
PER ACCOMPAGNARE LA SILLOGE “IT’S STARLIGHT, THOUGH”

 Se come utile riferimento cronologico volessimo assumere la datazione (1871) della “lettera del veggente” in cui il poeta francese Arthur Rimbaud notoriamente inneggiava alla necessità di un sovversivo “dérèglement de tous les sens da parte dell’artista “moderno” -- e lo facessimo non solo per la vasta risonanza immediata di quello che doveva configurarsi come un manifesto letterario a tutti gli effetti, ma soprattutto in considerazione dei perduranti influssi a ben vedere  sostanzialmente rintracciabili nella prevalente concezione dell’ars poetica contemporanea -- dovremmo concludere che l’affrancamento da qualsiasi vincolo formale nel “fare poesia moderna”, pur nella molteplicità delle successive correnti letterarie e degli esiti specifici che le contraddistinsero, alla fin fine sussiste come percorso estetico pressoché obbligato da ormai più di un secolo a questa parte. In rapporto alle leggi naturali della ciclicità, un fenomeno di straordinaria durata; per giunta, allo stato attuale sempre più esasperato e straripante ben oltre gli argini del professionismo vero e proprio: una lezione, si direbbe, ormai ritenuta di scontato valore e comunemente sottoscritta anche dall’uomo della strada in qualche misura interessato alla poesia, o magari anche alla pratica della scrittura poetica in prima persona. Un fenomeno “di massa”, oggi  si tenderebbe a definirlo; anche come tale, quindi, forse non immeritevole di alcune verifiche critiche a più livelli.
    Nella nota introduttiva a questa raccolta di liriche in lingua inglese, -- pur non potendo dare spazio alle complesse problematiche di ordine sociologico-filosofico-culturale di cui, specie in questa nostra era di globalizzazione e di multimedialità, occorrerebbe tener conto a scanso di deplorevoli giudizi sommari --, l’autore non esita ad arrischiare, con studiata disinvoltura provocatoria, quanto meno alcuni maliziosi interrogativi di natura genericamente estetica/etica, riservando all’altrui migliore scrupolosità ogni eventuale approfondimento autonomo nelle sedi di indagine più appropriate. Per quel che possano valere fuori contesto, eccone un paio: quella svolta anticonformistica, a suo tempo legittimamente innovativa, non sarebbe forse ormai approdata ad una sorta di paradossale conformismo alla rovescia? E quanta parte di furbesco escamotage potrebbe di fatto nascondersi dietro una simile sregolatezza sistematica paradossalmente assunta come nuova norma inderogabile?
L’aspetto più concreto della provocazione consiste tuttavia nell’aver voluto rinverdire, nei vari testi poetici qui selezionati, se non altro alcune valenze metriche e fonosimboliche riconducibili alla tradizione letteraria classica, in questo caso specificatamente anglosassone. Del resto in modo analogo, con intenti altrettanto palesi in direzione “post-moderna”, l’autore aveva già scelto di agire in buona parte delle sue opere poetiche composte e pubblicate in italiano (cfr. in particolare la silloge “A testa in giù”, comprensiva del poema Phantaasia non Imaginaatio vera – Ed. Il Leone Verde, Torino, 2001-2), talora con palese ironia, tal’altra per assecondare una sua intima necessità estetica oggigiorno controcorrente.  In una “lettera aperta”, inserita ad uso del lettore in appendice alla succitata pubblicazione, si possono forse trovare esposte attraverso riferimenti più circostanziati le ragioni di questo suo atteggiamento: il cui obiettivo essenziale sta, in definitiva, nel voler suggerire, senza alcuna presunzione, l’eventualità di qualche spazio residuo per un discorso poetico davvero innovativo – così nei contenuti, così nelle potenzialità della forma in loro funzione, sostanzialmente di carattere “post-moderno” – di per sé contrario alle intemperanze di un’effimera originalità fine a se stessa, criticamente conscio delle secche in cui, paradossalmente, tale genere di finto trasformismo creativo sembra da ultimo destinato a fossilizzarsi. 

Roberto Di Pietro: laureatosi magna cum laude presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università Bocconi (Milano), ha brillantemente conseguito svariati altri titoli di studio anche all’estero. Saggista, già critico letterario presso la R.A.I, attualmente risiede a Torino dove svolge, fra l’altro, attività di ricerca e di insegnamento nel volontariato culturale. La sua silloge poetica di più recente pubblicazione (“A testa in giù”, comprendente l’ampio poema teatrale “Phantaasia non Imaginaatio Vera”, edito a parte) è anche frutto di appassionato studio nel campo dell’analisi metrico-strutturale del testo poetico in termini di ritmica e fonosimbolismo.  Le poesie in lingua inglese contenute in questo volumetto, congiuntamente alle liriche già edite in italiano cui in buona parte si ispirano, hanno appena ottenuto, fuori concorso, il riconoscimento speciale della giuria nell’ambito del  “Premio Letterario Internazionale, Marengo d’Oro, 2003” (Liguria).


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