POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

lunedì, maggio 31

RITA JACOMINO ALLA BIENNALE DI VENEZIA 2021

 Con immenso piacere condivido la gioia di Rita per la sua partecipazione alla Biennale di Venezia di quest'anno, cui ha partecipato con una sua composizione poetica. Qui di seguito una sequenza di foto, tra le tante che le sono state scattate nella splendida cornice veneziana e per questa grande manifestazione. Qui sotto il testo della poesia di Rita Jacomino, tratta dalla silloge omonima.














La sequenza delle foto è ridotta rispetto a quelle scattate, ma non per questo meno importante. Esulto con l'amica Rita, per questa sua meritata conquista!
Danila Oppio

domenica, maggio 30

SPLENDORI E MISERIE NEL SAHEL di P. MAURO ARMANINO



Splendori e miserie nel Sahel

Alphonse era partito con suo fratello maggiore alla volta dell’Algeria. Dopo la morte del padre per malattia, il suo lavoro di moto-taxi a N’Zerekoré in Guinea, non assicurava il futuro della famiglia. A 19 anni Alphose vede morire suo fratello che cade dal ‘pick-up’ che trasportava 42 migranti nel deserto. L’attacco dei banditi/terroristi ha completato il viaggio di andata in Algeria. L‘hanno risparmiato solo perché aveva perso il fratello nel viaggio. Ad Algeri è accolto dall’Associazione ‘Incontro e Sviluppo’ e, durante il soggiorno nella loro casa, è informato che la salute della madre si sta rapidamente deteriorando. Al suo appello telefonico risponde a malapena e capisce solo che la madre lo invita a tornare da lei perché ha già perso il suo primo figlio. Ancora prima di regolarizzare i documenti di viaggio è informato della morte repentina della madre. Alphonse, aiutato dall’Associazione, parte col poco che gli rimane del breve transito in Algeria. Prima di raggiungere la città di Tamanrasset alcuni poliziotti algerini lo derubano, lui, l’unico nero del convoglio: il cellulare,un paio di pantaloni, le scarpe e la camicia. Gli rimane uno zainetto e il poco di soldi che l’Associazione gli ha riservato per il seguito del viaggio. Ben nascosti, hanno sopravvissuto alla perquisizione. Alphonse torna alla sua città natale e spera che suo zio gli compri una moto per riprendere il mestiere di tassista che aveva abbandonato appena qualche mese fa. Alphonse non sarà mai più lo stesso.

Siamo buoni ultimi nel recente rapporto sullo sviluppo umano pubblicato dall’apposita agenzia delle Nazioni Unite. I soliti nomi per l’indice dello sviluppo molto elevato, a cominciare dalla Norvegia, l’Irlanda, la Svizzera e Hong Kong, città stato. Si passa poi ai Paesi ad elevato indice di sviluppo umano con l’Albania, Cuba socialista dopo la dinastia dei Castro, l’Iran coi guardiani della rivoluzione e il Messico degli zapatisti che tornano in barca da coloro che secoli fa li invasero. Con un indice medio di sviluppo il rapporto annovera il Marocco con l’enclave di Ceuta che ha fatto esperienza ‘dell’invasione migratoria’, inedita per ampiezza e soprattutto per le studiate modalità. Seguono l’Iraq e il Guatemala, Paesi che, ognuno a modo suo, ha potuto assaporare la realtà di democrazia esportabile degli Stati Uniti. Nella parte terminale del rapporto si trova la maggior parte dei Paesi africani e in particolare della zona subsahariana. Sono pudicamente definiti a sviluppo ‘debole’ e tra questi trovaiamo il Burundi, il Sud Sudan senza pace dalla sua creazione post coloniale, il Chad col figlio del maresciallo dittatore Idriss Deby, la Repubblica Centro Africana con la presenza russa in crescendo e ultimo per l’ennesima volta il Niger. Non saranno bastati i cavalcavia, i palazzi nascosti nei quartieri, gli hotel con le stelle sparse sulla riva del fiume Niger e la costruzione di un nuovo aeroporto internazionale per schiodare il Paese da questa posizione cui ci siamo, malgrado tutto, abituati. Ricordiamo che l’indice di sviluppo umano prende in considerazione tre fattori. Il primo in relazione con la vita, cioè la speranza di vita, e il servizio sanitario. Il secondo l’ambito delle conoscenze e dunque l’educazione e in ultimo le condizioni di vita e la loro decenza. Il tutto, tenendo conto delle disuguaglianze economiche, sociali e di genere. Il Niger si trova al numero 189, primo partendo dal basso.

Christophe e i suoi figli sapranno il seguito della loro avventura con l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni il prossimo 10 giugno. Dopo aver sfiorato il mondo dei rifugiati, lui e i suoi figli hanno confermato il desiderio del ritorno alla capitale della Relativa Democrazia del Congo, Kinshasa RDC. Christophe spera rifarsi una vita dopo gli anni di transito verso una terra che non ha mai raggiunto. Sua moglie, invece, questa terra l’ha raggiunta ed è stata sepolta a Ouagadougou, la capitale di Thomas Sankara del Burkina Faso. Hanno obbedito all’obbligo del tampone Covid e, solo per lui, della vaccinazione con AstraZeneca per lo stesso motivo. Sulla carta di vaccinazione alla voce professione hanno scritto ‘migrante’. Diceva che non gli hanno mai domandato qual era la sua professione e afferma che vorrebbe solo ricominciare a vivere come si conviene ad un papà che deve prendersi cura del futuro dei tre figli. 

Malgrado il coro dei politici e le ingiunzioni di chi possiede il potere di decidere, dappertutto nel Sahel c’è una giusta reticenza alla vaccinazione contro la Covid. Tutta una questione di priorità, di decenza e di rispetto. Solo nel Niger si sono registrati, nel 2020, oltre 5 mila morti di malaria, per la maggior parte bambini. Per evitare un'altra ecatombe simile, è stata annunciata una campagna di distribuzione personalizzata di milioni di zanzariere. Quando la prima epidemia da sconfiggere è quella della fame, parlare di vaccini anti-Covid è un’offesa. Se l’altra preoccupazione è l’insicurezza legata all’azione nefasta dei gruppi armati terroristi che hanno provocato migliaia di vittime, e creato centinaia di migliaia di sfollati o rifugiati, azzardarsi a parlare di Coronavirus è un crimine di lesa dignità. Chi dovrebbe essere vaccinato in priorità sarebbe allora l’Occidente, affermano i morti del Mediterraneo. Il vaccino più efficace, di difficile produzione, è quello della libertà nella mobilità delle persone. Come ricorda Michelle  Bachelet dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani in un recente rapporto che accusa la Libia e l’Europa…’Finché non ci saranno sufficienti canali di migrazioni sicure, accessibili e regolari, la gente continuerà a tentare di attraversare il Mediterraneo, nonostante i pericoli e le conseguenze’. 

Ciò significa che l’unico certificato che l’Africa dovrebbe pretendere da ogni cittadino, locale o straniero, sarebbe un ‘pass democratico’. Una carta che offrirebbe l’evidenza dell’impegno fattivo per il rispetto dei diritti umani e la dignità di ogni persona. Un ‘pass’ che darebbe garanzie di cittadinanza attiva per creare un mondo differente e cioè liberato da ogni tipo di esclusione. Quanti non fossero in grado di esibire detto certificato sarebbero messi in quarantena e invitati poi a mettersi a scuola di democrazia, in una scuola di sabbia che solo i bambini del Sahel sanno come costruire. 

    Mauro Armanino, Niamey, maggio 2021




venerdì, maggio 28

Cena completa a casa di ANGELA FABBRI, i suoi biglietti d'invito!




 



 Cuoca fantasiosa, Angela Fabbri, ci presenta i suoi manicaretti, ma gelosa delle proprie creazioni, non ci racconta né ingredienti né preparazione. Chissà se un giorno ci rivelerà le sue ricette? A vederle appaiono invitanti. Resteremo con l'acquolina in bocca! Bella l'idea di creare dei bigliettoni con le sue preparazioni culinarie!

mercoledì, maggio 26

LE DUE FRAGOLINE di RENATA RUSCA ZARGAR


illustrazione familiare di Zarina Zargar
 (notare la piccola fragolina sulla destra con il ciucciotto)
Le due fragoline

di Renata Rusca Zargar

Una volta, due fragole erano spuntate nel prato: nessuno sapeva quale fosse il motivo, forse erano venute da lontano o forse la rugiada del mattino aveva dato loro la forza di crescere.

I due frutti si volevano molto bene: la sera, reclinavano il capino rosso e si addormentavano insieme, al riparo di una grossa foglia verde.

Un giorno, poi, era spuntata anche un’altra piccola fragolina e così le due più grandi erano diventate mamma e papà.

Tutti gli animali del bosco erano venuti a vedere la piccola nata; il vento, carezzando le foglie, sussurrava: - Che bella! Che bella! 

Il papà e la mamma si specchiavano nella loro creatura ed erano felici nel sentire la tenera voce chiedere informazioni per imparare e diventare grande.

Nel prato, la vita continuava tranquilla, finché, un giorno, spuntò ancora un’altra piccola fragolina. Questa, però, era un po’ più debole della sorella e la mamma e il papà erano tanto preoccupati per lei. Gli animali del bosco venivano a trovarla ogni giorno, il vento sussurrava piano per non svegliarla.

Ormai, l’attenzione di tutto il prato era solo per la piccolina e, quando la figlia più grande parlava, adesso spesso si sentiva rispondere: - Stai zitta, non vedi che tua sorella dorme? - oppure -Spostati, non vedi che dai fastidio? Non togliere il sole a tua sorella che deve crescere. 

La povera fragolina desiderava solo appoggiare il suo capino rosso tra le tenere foglie di mamma e papà ma loro non avevano occhi che per l’ultima e adoperavano tutte le loro forze solo per lei. Qualche volta, interrogava la rugiada: - Perché papà ripara dal vento e dalla pioggia solo la mia sorellina? Perché la mamma mi trascura? 

Ma le gocce di rugiada, che avevano milioni di sorelle, non sapevano nulla dei problemi delle piccole famiglie.

E così, la fragolina reclinava il capino, un po’ triste, e si riscaldava al sole.

Quando, invece, la sorellina si sentiva bene, anche mamma e papà diventavano felici e cingevano, con i loro steli, ambedue le loro figlie.

Ma se, qualche volta, l’ultima nata non beveva le gocce di rugiada o non riusciva a succhiare i sali dal terreno, la mamma si mostrava nervosa e non vedeva che lei.

La maggiore non poteva ancora capire che, qualche volta, i più piccolini hanno bisogno di attenzione e pregava: - Oh, mamma, perché mi mandi via? 

E il vento che passava profumato non sapeva rispondere.

Nessuno ricordava più, infatti, le cure che il papà e la mamma avevano prodigato alla loro prima fragolina.

Nessuno ricordava il giorno in cui ella era spuntata vicino alle foglie di mamma e il papà l’aveva guardata con amore promettendo di proteggerla per tutta la vita.

Nessuno ricordava che, quando anche lei aveva bevuto troppa pioggia e si era ammalata, la mamma si era disperata tanto.

Solo il tempo avrebbe potuto cambiare quella situazione: infatti, poi, quando entrambe le sorelline sarebbero diventate grandi e forti, si sarebbero tenute compagnia e aiutate nel corso della loro vita.

Allora, mamma e papà avrebbero potuto dolcemente reclinare il capino rosso e dormire per sempre.

I FOLLETTI DISPETTOSI di DANILA OPPIO

 


I FOLLETTI DISPETTOSI
 (E IL FOLLETTO SERVIZIEVOLE)

In quella casa succede qualcosa di strano.  Oltre a mamma, papà e figli, vivono anche dei folletti dispettosi e uno servizievole che rimedia ai pasticci degli altri.
Ogni mattina la mamma si alza, e dopo aver preparato la colazione, comincia a occuparsi dei lavori di casa: rifare i letti, scopare e lavare i pavimenti e i sanitari, dispone gli asciugamani al loro posto e nel giusto modo, insomma, rassetta la casa per benino e poi, soddisfatta, guardandosi intorno, tira un sospiro di sollievo nel vedere intorno a lei tutte le cose in ordine, e linde. Poi si dedica alla preparazione del pranzo. 
Intanto i folletti dispettosi stanno facendo le loro corbellerie. Gli asciugamani nei bagni sono tutti raggomitolati invece di trovarsi ben sistemati come li aveva messi mamma, perché possano  restare asciutti, invece di rimanere sempre umidi, se disposti in malo modo. Alcuni cassetti sono semi aperti, le ante dei mobili del bagno e della cucina spalancate, gli specchi dei bagni schizzati di dentifricio o di schiuma da barba. Inoltre, si divertono a seminare briciole di vario genere sul tavolo e sui mobili di cucina e qualcuna è caduta, chissà come, anche per terra. Il lavello sporco di latte o di caffè. Quei monelli hanno aperto la porta al cane che esce felice in giardino e che, camminando sull’erba bagnata, rientra in casa lasciando impronte di fango sul pavimento, e bava sui muri, sulle porte, sui mobili e sul divano. Depositano, all’inizio della scala che porta in lavanderia un mucchietto d indumenti o di asciugamani bagnati, forse pensando che abbiano le gambe e scendano da soli per tuffarsi nella cesta del bucato da lavare. La stessa cosa succede con alcune scatole di cartone vuote, che contenevano la pappa del cane, pensando, i malandrini, che anche le scatole abbiano i piedi per scendere in garage dove c’è il contenitore della carta e cartone. 





Per fortuna di questi dispettucci se ne accorge subito la gnoma servizievole e veloce come il vento, ripulisce i pavimenti dalle zampate del cane, dalla sua bava colata ovunque. Raccoglie la biancheria sporca e la porta là, dove deve stare, dentro il cesto in lavanderia. Chiude cassetti e ante, raccoglie le briciole e tutto questo accade diverse volte durante il giorno, perché i folletti dispettosi non la smettono mai di sporcare o creare disordine in giro. Pare che si divertano molto a far tribolare quella piccola gnoma dai capelli bianchi, sempre disponibile. 
Arriva sera, e la gnoma servizievole non vede l’ora di coricarsi, sfinita dalla stanchezza.  Tutte quelle azioni ripetute durante il giorno, che i folletti dispettosi possono evitare, perché vale il detto che se non si sporca non si deve pulire, alla gnoma servizievole, non più giovane e piena di acciacchi costa fatica supplementare, che potrebbe evitare, se i folletti dispettosi la smettessero di contare sempre sul suo aiuto che, se qualche volta brontola, ha anche ragione, eppure si sente perfino insultare e definire rompiscatole.

Il folletto stanco

domenica, maggio 23

CLINIA POTETIO . Il destino nella sabbia - di Renata Rusca Zargar

Padre Mauro Armanino fa spesso riferimento alla sabbia, quella polvere che imperversa sul Sahel, non solo in senso concreto, spesso in forma metaforica. Questo lungo racconto di Renata Rusca Zargar ha un legame con la sabbia, leggendo capirete come. Danila 


Illustrazione di Zarina Zargar

CILNIA POTETIO
Il destino nella sabbia

di Renata Rusca Zargar


(racconto ucronico: l'ucronìa è un genere di narrativa fantastica basata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale. Per la sua natura, l'ucronia è spesso assimilata al più vasto genere della fantascienza e si incrocia con la fantapolitica, mescolandosi all'utopia o alla distopia quando va a descrivere società ideali o, al contrario, indesiderabili.    È anche detta storia alternativa, allostoria o fantastoria) è un genere di narrativa fantastica basata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale)  

§§§§§§
Mahākāla 1 se ne stava sdraiato, osservando un enorme mandala 2 di sabbia nel quale erano raffigurati tutti i tempi e tutti i paesi abitati dagli Esseri Umani. Il suo sguardo aveva vagato indifferente qua e là, fino a quando la sua attenzione era stata attratta da lei.
- Domani partiremo per andare qualche giorno nella nostra villa in campagna. È il tempo del raccolto dell’uva e dobbiamo sorvegliare che tutto vada per il meglio. – stava spiegando Ottavia Potetio alla figlia Cilnia Potetio, detta Maior 3.
La fanciulla, però, non amava lasciare la città. A Pompei poteva incontrare le sue amiche e magari andare in qualche thermopolia 4, dove le capaci dolia contenenti il vino (proibito per le donne!) attiravano la loro curiosità. Qualche volta, riuscivano persino a farsene mescere un bicchiere, sedendosi in una sala interna e allungando all’oste alcune monete d’argento. In campagna, invece, non avrebbe visto se non schiavi e liberti!
- Non potrebbe andare mio padre? – aveva obiettato.
- Sai che tuo padre, in questo momento, è molto impegnato per le elezioni dei duoviri 5, quindi, andremo noi. Greca ti aiuterà a preparare le tue cose. Poi, quando torneremo in città, ci occuperemo del tuo matrimonio.
- Chi sarà il mio sposo?
- Ancora non lo so, ma tuo padre sta preparando qualcosa di grosso! Sicuramente, un giovane di una famiglia di importanza pari alla nostra, con un discreto patrimonio. Sarai ricca e felice, entrerai in un’ottima gens 6, vedrai. –
Il Dio Mahākāla provava una forte attrazione per Maior. Non solo per la bellezza: in lei sentiva la sua parte mancante.
La terra, a Pompei, in quei giorni, tremava più del solito: scosse e rumori facevano presagire che ci sarebbe stato un forte terremoto.
Mahākāla sapeva, però, addirittura, che presto il Vesuvio avrebbe eruttato, seppellendo diverse città. Maior sarebbe rimasta sotto la lava per secoli.
Dunque, non poteva rimanere insensibile. Sarebbe sceso sulla Terra.
Il giorno dopo, Ottavia e la figlia, in compagnia di Greca, una delle schiave addette al loro servizio personale, erano partite per la villa rustica 7 a qualche miliarium 8 da Pompei. Si trattava, infatti, di una fattoria con molto terreno intorno dove era facile trascorrere piacevolmente il tempo libero, leggendo letteratura, arte, filosofia, e riposando.
Maior aveva avuto l’educazione delle ragazze di buona famiglia, cioè sapeva leggere e scrivere. Inoltre, un precettore le aveva insegnato i rudimenti della letteratura latina e greca e alcuni elementi di retorica e di diritto. Ma, alla sua età, sedici anni, non aveva certo voglia di rintanarsi in campagna per leggere! Amava frequentare l’anfiteatro, la palestra, le vie cittadine…
Ed era anche curiosa di sapere chi sarebbe stato il suo sposo: bello, alto, giovane, dalle spalle possenti, amante della vita mondana… Così sperava che fosse.
Infine, eccola, in fondo alla strada, l’imponente abitazione fatta costruire dal nonno Lucius. Nel cortile, ad attenderle, c’era già uno schiavo.
Ella non l’aveva mai visto, doveva essere uno nuovo. Comunque, la questione non le interessava granché. Si sarebbe chiusa nella sua stanza a pensare al futuro matrimonio, mentre la mamma si sarebbe occupata di tutto.
- Allora, come va, Sabatius 9? Mi hanno detto che sei appena arrivato tra di noi. – stava chiedendo la mamma allo schiavo, un giovane alto, bruno, dal torace poderoso.
- Molto bene, padrona. Sono contento di essere stato comprato dal vostro fattore! Mi occuperò di tutto quanto sia necessario per voi. – aveva risposto l’uomo.
- Ottimo. Farò sistemare la roba nelle mie stanze e poi verrò a vedere i campi e gli allevamenti degli animali.
- Padrona, vi attenderò e vi accompagnerò dove vorrete andare. Intanto, porterò il vostro cavallo nella stalla e aiuterò il servo di casa a scaricare i bagagli. –
Mentre le due donne entravano al fresco, Sabatius sistemava il carro, metteva i vari bagagli nelle stanze delle signore e tornava fuori. Greca, intanto, disfaceva i bagagli e la governante della villa, Rosa, offriva alle padrone acqua di fonte e pane insieme a latte e formaggio delle mucche della fattoria.
Rinfrescata e rifocillata, Ottavia aveva voluto subito andare nei campi, Maior si era invece ritirata nel suo cubiculum 10.
Da quel momento, le ore avevano iniziato a scorrere lunghe per Maior che non sapeva cosa fare.
Il giorno dopo, Ottavia era uscita la mattina presto ed era tornata a casa solo la sera.
- Ci sono filari e filari di viti carichi di grappoli succosi. Poi, avremo anche la raccolta delle olive e la vendita degli animali di allevamento. – aveva raccontato alla figlia, con entusiasmo, mentre, insieme, consumavano la cena sul letto triclinare 11. Erano state servite uova e verdure, pesce e frutta fresca di ottima qualità.
- Perché non vieni anche tu a vedere? Un giorno, tutto questo sarà tuo.
- Sai che non mi interessa. È già abbastanza quello che c’è qui intorno. E, poi, un domani, sarà il fattore a occuparsi di tutto, non certo io! 
Maior piluccava qua e là svogliatamente. Cercava solo di capire quanto a lungo sarebbero rimaste in un luogo tanto tedioso.
La maggior parte del tempo, dunque, Ottavia lo trascorreva tra gli schiavi a controllare i lavori, contare le ceste d’uva, avviarle al torcularium 12 e alle dolia 13. Bisognava spremere e far fermentare le uve, infine immagazzinare i cullei 14 e le anfore con i vini da invecchiamento e spedire quelle già ordinate dagli acquirenti.
Maior, invece, sedeva qualche ora in biblioteca, dove i rotoli dei volumina 15 erano ordinati negli scaffali sotto le loro copertine di pergamena colorata. Guardava un po’ annoiata le pareti decorate con pannelli e scorci architettonici di colore rosso (allora molto di moda), bianco e oro, nel cui centro spiccavano quadretti con raffigurate le stagioni e i vari momenti del lavoro agricolo, quindi, usciva in giardino tra le piccole sculture che fungevano da fontane. Oppure, si avventurava nell’orto a dare un’occhiata a innumerevoli tipi di verdure o, ancora, si allungava sotto il portico, all’ombra, a rimuginare i suoi pensieri.
Era già passata una settimana e la mamma non dava segno di essersi stancata del suo ruolo di capo della fattoria. Né aveva stabilito la data del ritorno in città.
Una mattina, più infastidita e tediata che mai, Maior era capitata nella stalla dei maiali. Che puzza! Che immonde creature popolavano la terra! Nel semibuio aveva, però, distinto la figura di Sabatius, lo schiavo. Per un attimo, solo per un attimo, i loro occhi si erano incrociati. Quelli di lui erano di un marrone dolce, profondo, con le pagliuzze dorate.
Sabatius aveva subito abbassato lo sguardo.
- Padrona, non è posto per te, questo.
- Hai ragione, ma mi annoio. Vorrei essere in città, non riesco a trovare qui qualcosa che mi attiri.
-So, padrona, che in biblioteca ci sono volumi di poesia di Catullo, Alcmane, oppure l’Eneide di Virgilio. Forse, potrebbero aiutarti a passare il tempo. Conosci la storia di Enea e Didone?
- Sì, me l’ha raccontata il mio precettore.
- Ebbene, rileggila. Dicono che dia sempre una grande emozione.
- Lo farò. 
Sabatius era uscito dalla stalla dirigendosi verso altre occupazioni e Maior era tornata sotto il grande portico. Non riusciva a cancellare dai suoi occhi l’immagine di quel corpo forte e muscoloso, dalla pelle ambrata e lucida che sembrava di bronzo.
Perché? Era solo un misero schiavo e lei presto sarebbe stata una materfamilias 16 della buona società.
Dopo un po’, però, si era recata in biblioteca e aveva cercato i libri che egli le aveva consigliato. Fino a tarda sera, allora, si era immedesimata nello struggimento di Didone. Il suo amore, eterno, irrinunciabile, le era entrato nello spirito, forse, per la prima volta.
La mattina dopo, era tornata alla stalla dei maiali: avrebbe voluto parlare con Sabatius di quanto aveva letto, ma egli non c’era. Si era messa allora a cercarlo dappertutto; era andata persino nel quartiere servile della casa, suscitando una certa curiosità tra schiavi e liberti, ma non l’aveva trovato da nessuna parte.
La sera, Sabatius era rientrato alla fattoria con la mamma: durante il giorno, infatti, erano andati a visitare i vigneti più lontani della proprietà. Scorgendolo, un moto di gioia l’aveva colpita. Era bello e gentile.
Così, quando tutti dormivano, era scesa silenziosamente nel giardino. Si guardava intorno, ma vedeva solo piante e alberi che si scuotevano piano, come in una danza, spinti da una brezza leggera. La luna si stava nascondendo dietro riccioli di nubi. Non c’era nessuno lì fuori, era sola.
- Padrona, non riesci a dormire? – chiedeva una voce, la sua voce.
- È così. Volevo parlare con qualcuno…
- Qualcuno chi?
- Con te. Vieni, allontaniamoci un po’, così nessuno potrà vederci.
- Padrona, è pericoloso, io sono uno schiavo.
- Vieni, non ho paura di te. 
Maior l’aveva preso per mano e, insieme, si erano avviati nel bosco.
La luna era tornata e, in fondo, non c’era molto da dire, se non guardarsi negli occhi e accarezzarsi le mani. Sarebbe stato bello camminare così, verso l’infinito. Ma quel tempo non era ancora venuto.
- Ho letto e riletto la storia di Enea e Didone. Lei lo amava davvero e lui l’ha abbandonata!
- L’amore è tutto quanto ci dà vita. Eppure, ci sono periodi, nella storia del mondo, in cui bisogna lasciarsi per ritrovarsi, poi, più forti di prima.
- Non ti capisco, ma non ha importanza. Vieni più vicino, ho freddo. – Sabatius l’aveva stretta tra le sue braccia.
- Padrona, torniamo, devi rientrare. –
Sentire la sua vicinanza era un’emozione meravigliosa. Chissà, si chiedeva Maior, se un domani con il suo sposo avrebbe provato lo stesso!
La notte, poi, l’aveva sognato: egli la chiamava, vedeva il suo volto abbronzato che fissava lo sguardo su di lei, sì, il suo Enea, finalmente, guardava solo lei, senza mai abbassare gli occhi. Né l’avrebbe mai abbandonata.
Il giorno dopo, però, Sabatius non s’era fatto vedere in giro, e quello successivo neppure.
Maior era sommersa di nuovo dalla noia di essere là, fuori dal suo mondo. E soprattutto dal disappunto di non vedere lui e che egli non facesse nulla per incontrarla. Dunque, egli non provava niente per lei. I suoi occhi, che sembravano penetrarla, erano falsi e bugiardi, proprio come quelli di Enea!
“Devo andare almeno un giorno a Pompei.” aveva pensato, allora, spazientita e indignata. “Così mi svagherò un po’. Pompei non è lontana, se parto di buon mattino arriverò prima di mezzogiorno, starò un po’ con le mie amiche, poi tornerò qui, nessuno si accorgerà di nulla.”
La mattina presto, quando Ottavia si era alzata, Maior le aveva detto di non sentirsi troppo bene e di voler rimanere a letto. La madre, ancora impegnata nel seguire i lavori agricoli, l’aveva salutata e raccomandata a Greca, che l’assistesse, perché ella non sarebbe tornata che a sera.
Ma non appena era andata via, Maior aveva licenziato Greca, dicendole che desiderava dormire tutto il giorno e che non voleva essere disturbata.
Indi, si era vestita accuratamente con una stola rossa stretta da un’elegante cintura in vita, aveva indossato i suoi anelli, bracciali, orecchini e pure gli anelli alle caviglie. Era stanca di stare in villa mentre tutti si divertivano in città! Se fosse andata di buon passo, avrebbe raggiunto Pompei in un paio d’ore. Avrebbe fatto una capatina da qualche sua amica e sarebbe tornata in tempo per il rientro della madre.
Di buona lena, aveva imboccato la direzione della strada dalla quale era giunta in campagna, tenendosi, però, nei prati, per non farsi scorgere dalla casa. Superato il pericolo, si era avviata sul sentiero. Per un po’, aveva camminato speditamente, poi le era venuta sete, ma non si vedeva nessuna fonte nei dintorni. Tutto le sembrava disabitato, polveroso, e il sole era già alto nel cielo. Che avesse sbagliato strada? Di Pompei non si scorgeva neppure la periferia. Forse, continuando ancora un po’, forse, dietro quella curva, si sarebbero intraviste le prime case.
Niente. Dopo una curva, ce n’era un’altra e quindi un’altra ancora. I piedi le doloravano, i suoi calcei 17 non erano certo adatti per camminare in campagna! Perché, poi, non si era portata un po’ d’acqua da bere? Come poteva essere stata così sprovveduta? Intanto, le era venuto in mente che qualcuno le avesse parlato di animali feroci che si trovavano fuori delle città: i lupi, forse, o gli orsi, i serpenti… Si era seduta all’ombra di un albero e si guardava attorno circospetta. Che fare? Ormai doveva tornare indietro, ma era già così stanca! E se l’avesse attaccata qualche animale? Le lacrime iniziavano a pizzicarle gli occhi e vedeva tutto annebbiato, quando aveva sentito un fruscio, un movimento tra le foglie… Ecco, l’animale era giunto, l’avrebbe forse divorata. Aveva nascosto il capo tra le braccia per non vedere la sua stessa fine, mentre ormai le lacrime uscivano copiose dai suoi occhi.
- Padrona, Maior Cilnia, ti sei allontanata troppo dalla villa. Ci sono tanti pericoli nella campagna. 
Maior aveva alzato gli occhi e tra le lacrime aveva scorto Sabatius. Meno male! Si era subito ripresa.
- Sì, volevo andare a Pompei, odio la vita della campagna, te l’ho già detto! Ho pensato che in giornata sarei andata e tornata. Non mi sembrava così lunga la strada!
- Sono parecchi miliarium ed è meglio farli a cavallo o in un carro.
- Ormai è tardi, tornerò indietro. E poi non so cavalcare. –
Sabatius si era seduto sull’erba, un po’ discosto da lei.
- Che fai di così interessante a Pompei da un breve periodo una vacanza in campagna?
- Beh, si va a spasso per la città, si incontrano persone simpatiche, si va all’anfiteatro, alla palestra…
- E non ti attira qui la bellezza della natura, i fiori, il canto degli uccelli, i campi fertili di prodotti?
- No, sinceramente non amo tutto ciò.
- Io sì, tanto.
- Ma tu sei obbligato, sei uno schiavo! 
Sabatius era scoppiato a ridere.
- Certo, hai ragione, sono obbligato. Hai sentito, negli ultimi tempi, che la terra trema più spesso del solito? Potrebbe succedere qualcosa, per questo sono qui.
- Che cosa mai potrebbe succedere? Noi siamo abituati a queste scosse. Certo, in questi giorni sono più frequenti. Ma non sono tremende come nel 62, a quel tempo erano crollati molti edifici: me l’ha detto la mamma perché io non ero ancora nata. Piuttosto, adesso, come farò a tornare indietro, con tutta quella orribile strada e i piedi che mi fanno così male? –
Sabatius aveva schioccato le dita e un cavallo era sbucato dal fogliame.
- Se mi permetti, ti accompagnerò con il cavallo.
- Ma io non so cavalcare, te l’ho detto.
- Basterà che tu ci sieda sopra e io ne terrò le redini in modo che vada al passo.-
Maior era salita sull’animale aiutata dal giovane e si teneva saldamente alla sella. Sabatius, con le redini in mano, l’accompagnava a piedi. Dopo un po’, però, Maior gli aveva chiesto perché egli andasse a piedi.
- Ricordi? Io sono uno schiavo e tu la padrona.
- Sali, su, così faremo più in fretta. Non vedo l’ora di mettere i piedi a bagno. Non ci faremo vedere da nessuno, quando arriveremo vicino alla villa, ci divideremo. 
Sabatius era saltato in sella dietro di lei senza farselo ripetere e le sue braccia, nel tenere le redini, l’avvolgevano tutta. Ella sentiva i suoi muscoli solidi guizzare sotto la veste e l’odore di maschio giovane, forte, sano…
Il cavallo andava lentamente e nessuno dei due parlava più. Neppure Maior, che sembrava aver avuto tanta fretta, si lamentava della flemma dell’andatura. Giunti in vista della casa, Sabatius l’aveva fatta scendere e salutata. I loro occhi si erano incontrati per un attimo, un lungo attimo. Poi, egli era ripartito al galoppo ed era sparito dalla sua vista.
Maior era rientrata nel cubiculum e, quando la madre era venuta a vederla, aveva finto di dormire. Là, raggomitolata nel suo letto in muratura appoggiato alla parete e abbellito da cuscini colorati, si sentiva tranquilla e protetta. Voleva pensare senza essere disturbata o distratta. Pensare a lui. Immaginare di essere stretta da quelle braccia scure, forti, poggiare il capo sul suo petto ancora e ancora…
 
Anche Sabatius non aveva in mente che lei. Detestava quella ragazza prepotente ed egoista ma anche l’amava.
Per lei era saltato nella ruota dei secoli ed era arrivato fin là.
C’era un potente Karma da cambiare: doveva impedire l’eruzione del Vesuvio che sarebbe stata di lì a poco, e, infine, cancellare quell’evento nel mandala dove era disegnato ogni avvenimento del Pianeta.
Per annullare una storia che sembrava già scritta, avrebbe usato un materiale speciale che avrebbe cristallizzato l’interno del monte: il Vesuvio si sarebbe spento per sempre.
Doveva farlo perché, se non avesse fermato l’eruzione, lei sarebbe morta.
Sarebbe rimasta sepolta là, sotto la lava, fino a quando gli archeologi, molto secoli dopo, l’avessero riportata alla luce. Essi l’avrebbero osservata non per amarla, come lui avrebbe fatto ancora e ancora per l’eternità, ma solo per studiare le abitudini dei tempi antichi.
Non poteva permetterlo.
Maior si era alzata canticchiando quella mattina. Non vedeva l’ora di andare a passeggiare nei campi per incontrarlo, per toccare le sue mani, per carpirgli lo spirito guardandolo negli occhi.
Ma Sabatius non c’era più, non si trovava da nessuna parte.
Piano piano, allora, le era tornato alla mente il sogno che l’aveva accompagnata per tutta la notte.
Era lui che l’abbracciava stretta a sé.
- Vengo da un altro tempo, dove anche tu tornerai alla fine di questa incarnazione. Il Vesuvio sta per eruttare e seppellire Pompei e i suoi dintorni. Se questo succedesse, morireste tutti, anche se la città seppellita completamente dalla lava sarebbe utile a chi verrà dopo di voi per conoscere la realtà. Ma io non posso sopportare che tu muoia, quindi, fermerò questa sciagura. Non ci sarà l’eruzione, tutto continuerà come al solito. Dopo aver cambiato la storia già scritta, però, devo tornare là, fuori dell’universo materiale da dove sono venuto. Prima, però, voglio stringerti ancora una volta: vieni da me, nel bosco.”
Dunque, Maior si era sdraiata là, sotto i rami del cedro. L’erba profumata le faceva da morbido cuscino. Aveva chiuso gli occhi e si era abbandonata all’Amore perché lei era la sposa di Mahākāla e a lui sarebbe sempre appartenuta.
- Anch’io ti amerò, – aveva sussurrato -oltre ogni dimensione di tempo e di spazio. 
 
Infine, Mahākāla era tornato lassù, al grande mandala di sabbia. Con un soffio divino aveva spostato altrove, lontano, l’eruzione del vulcano.
Qualche anno dopo, nel 99 d.C., il figlio maggiore di Maior era diventato imperatore romano con il nome di Potetio Kala e aveva governato con saggezza dalla sua domus di Pompei.
Una delle sue leggi più importanti era stata l’abolizione della schiavitù.
Perché gli Umani devono essere liberi nel loro cammino verso l’estinzione della sofferenza.
 
Renata Rusca Zargar

riferimenti alla numerazione:

1 Divinità buddista.
2 Disegno geometrico con tanti simboli che rappresenta l’universo
3 Le donne venivano designate con il solo nome gentilizio (nomen). Questo perché nella società romana ricoprivano un ruolo significativo come appartenenti a un gruppo familiare. Perciò era sconveniente citare il praenomen (benché pare che fosse loro assegnato). Per non confondere le donne di uno stesso gruppo, era consuetudine aggiungere al gentilizio il numerale Prima, Secunda, Tertia, magari al diminutivo (Tertilla, Quartilla, Quintilla) o l’appellativo Maior, Minor. Quando si sposava, la donna prendeva il nome della gens del marito oppure lo aggiungeva a quello della sua gens.
4 bar dove si serviva il vino caldo
5 magistrati
6 Discendenti di un unico antenato, portavano lo stesso nome.
7 La villa rustica era un’abitazione fuori delle mura cittadine destinata alla produzione agricola specialmente di olio e vino; la villa d’otium era invece costruita per riposarsi e trascorrere piacevolmente il tempo libero
8 miliarium: il miglio romano, detto anche mille passuum, è pari ad 8 stadi; lo stadium romano equivale a 625 piedi, a 125 passus ed è di circa m. 185
9 Allo schiavo veniva dato un nome che corrispondesse a una caratteristica fisica o al suo paese di provenienza: Sabatius poteva provenire dall’antica Vada Sabatia (Vado ligure, SV)
10 stanza da letto
11 letti sui quali i convitati si sdraiavano a tre per letto per mangiare
12 frantoio, torchio
13 dove il vino fermentava
14 grandi otri in pelle di bue
15 libri
16 Sposa del pater familias
17 calzature usate per uscire a forma di stivaletto.



L'ULTIMA REGINA DEL SAHEL di P. MAURO ARMANINO




                                                            L’ultima Regina del Sahel


E’ stata sepolta oggi, in una tomba di sabbia nel cimitero cristiano di Niamey. Ha terminato il suo transitare tra la repubblica del Benin e la repubblica del Niger. Si trova adesso, presumibilmente, incoronata nell’unica repubblica non segnalata dalle carte geografiche o tra i Paesi membri delle Nazioni Unite. Una repubblica senza territorio, costituzione, parlamento, governo e presidente. Una repubblica che si inventa ogni giorno che passa a seconda di chi arriva. Lei, l’ultima Regina del Sahel, ha raggiunto la sua nuova e definitiva terra da poche ore e solo possiamo immaginare la festa in suo onore che durerà almeno una settimana.
Lei, cuoca e commerciante di professione, si troverà senz’altro a suo agio e, con tutta probabilità, inviterà i suoi nuovi concittadini a gustare ciò che abitualmente vendeva a Niamey. Malgrado la sua salute malferma continuava a fare la navetta tra il Benin e Niamey, proponendo ai suoi fedeli clienti, quanto di meglio poteva offrire la cucina del suo Paese d’origine, la Nigeria. La Regina aveva lasciato il suo paese quindici anni prima sperando di far fortuna nel vicino Benin. Passavano i giorni e, col tempo, scemava il suo desiderio di viaggiare in un Paese lontano. Non aveva figli e la sua propria famiglia era rimasta in Nigeria.
E’ morta all’improvviso, come spesso in questi casi, con accanto l’amico, di origine camerunese, cuoco che si definisce lui stesso ‘specializzato delle braci’. Cucina con perizia carne e soprattutto pesce di mare arrostito. L’ultima Regina e lui si erano conosciuti per caso nel Benin e non avevano interrotto i contatti. Mettevano in comune l’ arte culinaria e un ristorante di fortuna che lui aveva saputo creare . Anche i clienti erano condivisi e ogni suo viaggio di ritorno a Niamey era una festa perché solo lui le dava il coraggio di continuare. In effetti la sua malattia la scoraggiava e più di una volta aveva pensato di smettere tutto.
Quel giorno non si sentiva bene e lui l’aveva accompagnata al servizio di accoglienza per i migranti, non attrezzato per la sua situazione ormai disperata. Le cure sono arrivate tardi e l’ultima Regina è morta all’Ospedale Nazionale di Niamey e poi custodita per alcuni giorni nell’obitorio. Prima di deporla nel feretro è stata rivestita di una tunica bianca, una sorta di sudario, che accarezzava l’esile corpo trasfigurato dalla malattia. Nella sala dov’è stata preparata per l’ultima volta, le inservienti hanno acceso un braciere di incenso. Il profumo e la leggera nube che si è prodotta sono stati il suo commiato. Queen è il suo nome di battesimo ed è così che l’ultima Regina del Sahel, con l’abito bianco di sposa, ha cominciato la festa.

    Mauro Armanino, Niamey, 21 maggio 2021

sabato, maggio 22

SOLO UNA DONNA di RENATA RUSCA ZARGAR

 



Solo una donna
di RENATA RUSCA ZARGAR

Ero in ritardo. Avevo bisogno di togliermi le scarpe dai tacchi a spillo e stendere le gambe. Come al solito, il mio capo mi aveva trattenuta fino a tardi.
- Sei la mia segretaria personale! - affermava, mentre mi guardava con intenzione
- È un ruolo importante! Quante ragazze vorrebbero essere al tuo posto! . Intanto, ridacchiava e mi dava uno scappellotto sul sedere.
Lo odiavo ma, in famiglia, avevamo bisogno di quello stipendio. Ero l’unica a lavorare e, a dir la verità, il capo, un uomo molto affascinante, mi pagava bene. Qualche volta, poi, quando aveva azzeccato un affare: - Mi piaci da morire! - mi diceva - Non potrei vivere senza di te. - Allora, mi allungava qualche banconota di grosso taglio e, poi, se ne tornava sereno nella sua villetta con la sua famiglia.
Aperta la porta di casa, avevo subito capito che qualcosa non andava. Mio padre era di nuovo ubriaco. Aveva giurato che non avrebbe più bevuto e che avrebbe cercato un lavoro. Ogni volta, faceva così, piangeva, si pentiva e poi… Arrivava barcollando e, per un qualsiasi motivo, si arrabbiava e spaccava piatti e bicchieri. La mamma si disperava, non era capace di fare altro. Magari capitava che si prendesse anche una sberla o un calcio.
- Andiamocene via, mamma. Lasciamolo al suo destino. - le ripetevo. Inutilmente.
Una volta, però, lei ci aveva provato. Era andata da un’amica. Io ero fuori per lavoro perché, ogni tanto, il capo mi portava con sé quando si recava ai convegni internazionali. Allora, la mamma era fuggita ed era andata a dormire da Anna, una sua ex compagna di scuola. Il giorno dopo, mio padre era là, a supplicarla che non sarebbe più successo, che aveva sbagliato, che si sarebbe curato. Anna aveva insistito tanto con mia madre perché non lo ascoltasse, che lui diceva sempre così e, poi, se ne dimenticava! - No, questa volta sarà diverso. - aveva garantito mio padre.
In effetti, per un po’ era andato tutto bene, lui frequentava gli Alcolisti anonimi e lavorava. Poi, aveva perso il lavoro perché aveva litigato con il capocantiere. Era rimasto in giro a bighellonare; infine, era tornato al solito bar.
Quella sera, era particolarmente incattivito. Aveva già rotto l’insalatiera e fatto volare striscioline d’insalata per tutta la cucina. Ora, stava prendendo a calci il tavolo e le sedie.
- Finiscila! - gli avevo urlato. Lui, barcollante sulle gambe, aveva brandito l’unico coltello che tenevamo in cucina. Io e la mamma ci eravamo chiuse in camera e, dopo un po’, lui era crollato sul divano e si era addormentato. Russava, con il coltello in mano.
Basta! Quella storia doveva finire. Così, avevo fatto vedere a mia madre l’avviso trovato su internet.
“Ricominciare una nuova vita è possibile! Vieni su K2-18 b. Non te ne pentirai.”
- Addirittura, cambiare Pianeta! - La mamma era scoraggiata.
- Dicono che ci siano tante opportunità. Cercano persone per qualsiasi tipo d’impiego, c’è spazio, hanno bisogno di gente, è un mondo in via di sviluppo! - le avevo spiegato.
- Come si fa ad andarci?
- C’è un’astronave. È comodissimo. In poco più di una settimana si arriva a destinazione.
- Se ti sembra una buona possibilità, vai. Tu sei giovane, hai una vita davanti.
- No, mamma, andremo insieme, ricominceremo una nuova vita. Porteremo con noi la libertà riconquistata: tu da papà, io da un lavoro senza dignità. Sarà bellissimo!
 
Infine, eravamo partite. L’astronave era come un hotel, con le sue stanzette per riposare e una grande sala per i pasti. Attraversava i cieli. Ecco, laggiù in fondo, la Terra che si allontanava velocemente, sempre più piccola, fino a scomparire. La mamma piangeva.
- Ti capisco, mamma. Anch’io sono triste perché lascio i luoghi dove sono vissuta fino ad ora, gli amici, la casa, persino i paesaggi del nostro paese. Non so come sarà il nuovo Pianeta. Ma che altro si può fare? Sulla Terra c’è poco lavoro, noi donne non abbiamo più diritti, in casa, non avevamo pace né sicurezza. Dobbiamo trovare un’esistenza migliore, spetta anche a noi un po’ di felicità.
 All’arrivo, eravamo state accolte da un funzionario cortese e professionale. Dopo i primi convenevoli, egli ci aveva accompagnate nell’appartamentino che sarebbe stato la nostra nuova casa. Non era male. C’erano due stanze, un salottino, la cucina. L’arredamento era moderno e di buon gusto.
- Riposatevi per qualche giorno, prendete confidenza con questo vostro nuovo paese. Poi, comincerete a lavorare. - ci aveva rincuorate nel congedarsi.
Ero molto felice: d’ora in poi, sarei stata rispettata come persona e la mamma avrebbe avuto un po’ di tranquillità, senza dover sempre temere botte e scenate.
Mi avevano accennato che avrei lavorato proprio nell’ufficio che accoglieva le nuove arrivate: avrei dovuto indirizzarle secondo le loro capacità. Per i primi tempi, il capoufficio mi avrebbe aiutato.
Finalmente, dunque, era giunta la prima mattina di lavoro. Non vedevo l’ora, anche se ero un po’ timorosa perché non sapevo molto di quello che avrei dovuto fare in pratica.
Era appena arrivata una nuova astronave. Le ragazze formavano una lunga fila in attesa, davanti a noi. Noi controllavamo i loro documenti e i loro curriculum.
Cameriere, cuoche, badanti, segretarie, lavascale, tanti mestieri diversi… Davamo loro il documento di soggiorno e gli assistenti le accompagnavano ai capannoni prefabbricati con numerose stanzette dove avrebbero abitato.
Qualcuna accettava di buon grado, chissà da quale tragica situazione proveniva, ma altre non erano d’accordo sull’attività che veniva loro assegnata.
- Sulla Terra ero impiegata in banca, non voglio fare la cameriera!  aveva protestato una signora assai elegante.
- Sei venuta su questo Pianeta volontariamente, - le veniva risposto con pazienza da uno dei funzionari - adesso devi fare quello che serve qui, non ti puoi rifiutare. Fai parte di un grande Progetto di sviluppo dell’umanità. Le donne, specialmente, devono essere indirizzate perché siano davvero utili.
- Io ero insegnante, perché devo fare la cuoca? - diceva un’altra - Non ho neppure le competenze.
- Ogni donna, qui, deve fare la sua parte, per il progresso del Pianeta. L’insegnamento spetta ai maschi, dobbiamo preparare al meglio le nuove generazioni. Invece, abbiamo bisogno di cuoche.Tu devi avere fiducia e credere in un grande Progetto per l’umanità di cui tu fai parte. 
Le signore si erano convinte. D’altronde, cosa avrebbero potuto fare? Tornare sulla Terra? E come?
Quindi, più o meno contente, le donne avevano accettato la loro destinazione. Ovviamente, se erano venute su K2-18 b, la maggior parte di loro aveva lasciato condizioni molto difficili sulla Terra.
Il capoufficio mi aveva aiutato in quella prima giornata con professionalità e educazione. Niente a che vedere, per fortuna, con il mio capo sulla Terra!
Quando ero tornata a casa, però, la mamma non c’era più. Mi aveva lasciato un messaggio audio per dirmi che l’avevano mandata a vivere con un uomo e che presto ci saremmo incontrate.
Un uomo? Che uomo? Mia madre non conosceva nessuno su quel Pianeta!
 La mattina dopo, avevo chiesto spiegazioni al nuovo capo.
- Dov’è mia madre? Non vivrà con me nel mio appartamento?
- Come avrai capito, in questo Pianeta, che noi abitiamo da poco, ci sono tanti bisogni. Ognuno di noi deve essere veramente utile perché tutto proceda per il meglio.
- Pensavo che mia madre avrebbe potuto lavorare…
- Certo. Considera quello che fa come un lavoro. Ci sono uomini soli che desiderano una compagnia ogni tanto e possono rivolgersi a qualsiasi ragazza piaccia loro. Le ragazze, allora, devono considerare un grande onore poter essere utili a un maschio! Ci sono uomini, però, che desiderano una compagnia stabile. Tua madre non è più giovanissima, è stata molto fortunata a trovare qualcuno che la volesse con sé. Potrà prendersi cura di lui per qualsiasi esigenza e così farà la sua parte e sarà contenta.
- Ma non conosceva quell’uomo e lui non conosce lei…
- Quando partite dalla Terra, noi esaminiamo la documentazione su di voi. Se qualcuna in particolare viene richiesta, la mettiamo subito a disposizione. Tua madre è ancora una bella signora ed è piaciuta al suo nuovo compagno.
- Ma le avete chiesto cosa ne pensa?
- Non ce n’è bisogno. Le donne vogliono sempre stare con un uomo. Ma non preoccuparti, presto la incontrerai e vedrai che sta benissimo. 
Per tutta la notte non ero riuscita a dormire. Dov’era mia madre? In che situazione l’avevo cacciata? Come avrebbe potuto vivere con un estraneo che non aveva mai visto prima? E cosa doveva fare per lui? Solo le pulizie o altro?
Quando eravamo arrivate, l’organizzazione ci aveva assegnato un appartamentino, quello dove io mi trovavo ancora. Avevo visto, però, che le altre donne, via via che si presentavano, venivano sistemate nei capannoni, tutte insieme, non negli appartamenti. Perché io ero stata privilegiata? E cosa voleva dire: “Ci sono uomini soli che desiderano una compagnia ogni tanto e possono rivolgersi a qualsiasi ragazza piaccia loro. Le ragazze, allora, devono considerare un grande onore poter essere utili a un maschio!” Anch’io potevo piacere a qualcuno e avrei dovuto dimostrami disponibile?
Non riuscivo a trovare una risposta e mi rigiravo nel letto.
Il giorno dopo, era giunta un’altra astronave e, quindi, ero stata molto occupata a decidere il futuro impegno di tante ragazze. Quasi tutte sembravano sollevate di aver lasciato la Terra e di ricominciare una nuova vita.
Ma era davvero una nuova vita? Iniziavo ad avere dei dubbi. Qualunque uomo, su quel Pianeta, poteva sceglierle per una “compagnia” temporanea. E se la prescelta si fosse opposta?
Per tutta la notte successiva, mi ero rifatta decine e decine di volte quelle stesse domande.
Dove eravamo arrivate? In quale girone infernale?
 
Il giorno dopo, mi era giunto un altro messaggio audio da mia madre. “Stai tranquilla, figlia mia, cerca di badare a te stessa. Io sto bene.”
Nient’altro. Evidentemente, mia madre non era libera di parlare e neppure di mandarmi un’immagine per vedere effettivamente come stava! E non sapevo neppure dove si trovasse esattamente!
Cosa avrei potuto fare? Oltre al capo, in ufficio, c’era un altro funzionario che mi sembrava disponibile.
- Non capisco molte cose, qui. - avevo accennato.
- È normale, sei ancora una principiante. Ci vuole sempre un periodo di assestamento, quando si cambia completamente vita.  mi aveva risposto con un sorriso. Così, avevo provato a continuare la conversazione.
- Sento molto la mancanza di mia madre, ho avuto solo due messaggi audio, non so dove abiti…
- Tua madre è stata molto fortunata, ha subito trovato l’occasione più adatta per lei. Potrà contribuire allo sviluppo del Pianeta. Vedrai che presto anche tu sarai assorbita dal tuo nuovo ruolo e non ci penserai più.
- Sarò più assorbita da questo impegno di selezione del personale?
- No, questo non è il tuo vero ruolo. Serve solo per aiutarti ad ambientarti. Tu sei stata prescelta per dare alla luce la nuova classe dirigente del Pianeta.
-Che significa?
- Noi di questo gruppo dirigente siamo una razza superiore. Abbiamo bisogno di una discendenza superiore. Tu avrai il nostro seme e darai vita ai nostri discendenti.
- Non capisco.
- È semplice. Sarai inseminata e porterai a termine delle gravidanze di esseri superiori.
- Io? Perché io? Perché non una qualsiasi delle tante ragazze che arrivano?
- Sei una delle prescelte sulla Terra. Il tuo capo di allora ci ha garantito che, oltre che molto bella, sei sana e di buon carattere. Ha avuto un premio per averti indicato a noi.
- Ma lui non mi ha mai chiesto di venire su questo Pianeta…
- Certo. Ma ti ha fatto trovare più volte la nostra pubblicità, così tu sei arrivata. Non sei l’unica, poi, ti faremo conoscere le altre prescelte. Vedrai, ti troverai molto bene perché ti tratteremo con ogni cura, avrai il meglio di ogni cosa. Sei una ragazza fortunata. 
Quell’essere spregevole del mio capo mi aveva venduto, addirittura!
- E se mi rifiutassi? - avevo buttato là.
- Nessuno rifiuterebbe tanto privilegio!  Come sai, il Pianeta deve svilupparsi, bisogna essere tutti collaborativi. In caso di rifiuto, la persona sarebbe soppressa perché noi non vogliamo avere carceri o altri luoghi di pena. Qui, tutti devono essere liberi e felici.
-  Come potrò dare vita ai vostri figli? Hai detto inseminata?
- Certo. Non ci sarà alcun rapporto con il donatore del seme, cioè uno di noi. I rapporti tra gli umani possono essere felici o infelici, possono coinvolgere i nuovi nati, influenzare il loro sviluppo. Noi non vogliamo questo. Tu sarai inseminata, nascerà un nostro erede di razza superiore. Finito l’allattamento, il bambino sarà educato da noi e tu non lo vedrai più. Così crescerà come noi vogliamo. Tu sarai pronta per un’altra inseminazione. Al massimo, però, partorirai due o tre bambini perché oltre questo numero non saresti più nelle condizioni ottimali. 
- E dopo? Cosa farò?
- Potrai lavorare, come ora, oppure accompagnarti a un maschio se ti dovesse scegliere. Come ti ho detto, sei molto fortunata. Avrai tutto il meglio qui, cibo, assistenza medica, comodità, perché ti aspetta un compito superiore. 
Ecco. Qui, devono essere tutti liberi e felici, aveva detto. E che ero molto fortunata. Fortunata per essere schiava di questa presunta razza superiore. Per di più, ero solo un utero che essi avrebbero usato a loro piacimento. Un utero in affitto! E mia madre conviveva con qualcuno che non aveva mai scelto!
Per il momento, però, non potevo fare nulla. Ero solo una donna e sarei stata soppressa.
Con il tempo, avrei trovato una qualche soluzione, una qualche possibilità di fuga. Per me e mia madre. Se fosse stato possibile. Avrei costruito un sogno che ci avrebbe portate lontano.
Ma non sapevo quando e non sapevo dove.