POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

lunedì, novembre 30

Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio sta alla febbre -Di Dacia Maraini

Desidero pubblicare questo articolo di Dacia Maraini, poiché condivido pienamente il suo pensiero e penso che molte altre persone siano dello stesso avviso.

27NOV/150
Articolo di Dacia Maraini (Corriere 27.11.15) “A un civile e savio relativismo e a una umana tollerante convivenza, c’è chi sente il bisogno di contrapporre, con gesta eclatanti, la fedeltà a un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo”
“”«Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio sta alla febbre. Chi ha delle visioni e scambia i sogni e le proprie fantasie per profezie, è un entusiasta. Chi scambia la propria follia per un impegno ad uccidere, è un fanatico». Lo scrive Voltaire nel 1764. Il fanatismo ha radici antiche, profonde. E ubbidisce a una drastica e volontaria semplificazione della realtà. Chi conosce la complessità del mondo, sa che il diverso va prima di tutto conosciuto, poi avvicinato, per confrontarsi, per discutere, per contrattare. Il mondo è ampio e diversificato. Chi semplifica, non vuole conoscere l’altro, vuole solo eliminarlo. Tagliare una testa è più semplice, più chiaro, più decisivo che dialogare. Ma per tagliare le teste bisogna disporre di armi, libertà di movimento e potere; per questo il fanatico cercherà di procurarsi armi e denaro, senza tanti scrupoli, con l’imbroglio, il furto, la rapina se necessario. Per il semplificatore, il fine giustifica sempre i mezzi. «Una volta che il fanatismo ha incancrenito il cervello, la malattia è quasi incurabile», continua Voltaire, «i fanatici sono persuasi che il Dio che li ispira sia al di sopra delle leggi e che il loro entusiasmo sia la sola legge che devono ascoltare… Cosa rispondete a chi dichiara che è sicuro di meritare il cielo scannandovi?».

Riconosciamo questa logica, che oggi praticano i ragazzi dell’Isis, altrimenti detto Daesh. È una logica perversa, ma seducente nella sua radicale brutalità. Ci vuole intelligenza, sensibilità, rispetto, pazienza, per stabilire dei rapporti reali col mondo. Il Dio semplificatore, come la regina folle del Paese delle Meraviglie, non conosce né rispetto, né pazienza, ma solo un bisogno sbrigativo e spietato di imporre la propria funebre volontà: via quella testa, via quell’altra! Presto, presto, tagliate, tagliate! «Sono di solito i furfanti a guidare i fanatici e a mettere il pugnale nelle loro mani», continua Voltaire nella sua lucida analisi che sembra scritta oggi : «Le leggi, la religione, non valgono contro questa peste degli animi. La religione, lungi dall’essere per loro un cibo salutare, si trasforma in veleno… essi attingono i loro furori dalla stessa religione che li condanna».
Si ricordano due avvenimenti che sono rimasti incisi a fuoco nella memoria storica, per la loro atrocità. Il caso dei protestanti fatti a pezzi dai cattolici al tempo della Regina Elisabetta: «I borghesi di Parigi corsero la notte di san Bartolomeo ad assassinare, scannare, fare a pezzi e gettare dalle finestre i loro concittadini che non andavano a messa». E quello della setta di eretici ismaeliti che, guidati da un famoso «Vecchio della montagna», diffusero, nel secolo XI, il terrore in tutto il Medio Oriente con i loro assassini a freddo, contro chiunque giudicassero non in linea con il loro Dio. Si chiamavano Hashishiyyin (uomini dediti all’hashish), da cui deriva la parola «assassino». Il Vecchio della montagna, Hasan i-Sabbah, prometteva loro un paradiso di freschi ruscelli e di vergini disponibili e innamorate, se si fossero lasciati uccidere; ma solo dopo avere pugnalato e sgozzato un buon numero di miscredenti. Il Vecchio aveva un carisma straordinario e i ragazzi andavano a morire pieni di entusiasmo, sicuri della meravigliosa ricompensa. Ora ci chiediamo: erano solo criminali o ragazzi bisognosi di assoluto in un mondo che aveva perso ogni rapporto con l’utopia? Ragazzi che scambiavano il coltello per la chiave che avrebbe aperto loro le porte del paradiso?
La cronaca non parla mai del genere femminile. Non era pertinenza delle donne tagliare le gole. Le donne vinte diventavano schiave, proprietà del vincitore assieme alle pecore, ai cavalli, alle mucche. Merce pregiata che si poteva comprare, vendere, utilizzare a proprio piacimento. Solo quando si ribellavano all’orribile destino, venivano sgozzate pure loro.
Il fanatismo non appartiene a una cultura piuttosto che a un’altra, non ha niente a che vedere con l’osservanza di una fede. Forse non è neppure una espressione dell’odio che anima gli esseri umani. Chi odia è anche capace di amore. Il fanatico respinge sia l’uno che l’altro. Piuttosto si direbbe un bisogno profondo e non ascoltato di trascendenza. Un bisogno che, non soddisfatto con umanità, si trasforma in un mostruoso innamoramento della morte e del nulla.
Il continuo battersi il petto gridando che siamo noi i responsabili, siamo noi i colpevoli, suona un poco ridicolo a dire la verità e anche presuntuoso: come se fossimo noi a determinare le svolte nelle coscienze degli esseri umani. Perché dovremmo togliere a questi ragazzi la libertà di scelta e di azione? Anche se loro non riconoscono il libero arbitrio, anche se sostengono che è tutta colpa di chi ha cominciato per primo ad aggredire, che sia il crociato o il colonialista, è presuntuoso ritenere che siamo responsabili di quello che fanno. Certamente l’Europa ha compiuto dei grandi errori, ma ciò non toglie che ogni generazione, ogni persona, risponde delle proprie scelte e delle proprie azioni. Le giustificazioni suonano paternalistiche e grottesche .
Le religioni si sono sempre divise, anche con ferocia, su questo problema di fede: Dio esiste in quanto essere pensante, con un corpo riconoscibile, o è una entità soprannaturale, una mente che comprende tutto e tutto capisce, ma non può intervenire perché è più simile al cosmo infinito che all’uomo finito? Le più feroci guerre esplose all’interno delle fedi monoteiste si basano su questo punto: se Dio è onnipotente, perché permette il male? Se invece Dio può solo il bene, poiché il male spetta al demonio, allora Dio non è onnipotente, ma solo una parte che combatte contro un’altra. E come distinguere il bene dal male? Ed esiste un male universale, riconosciuto da tutti? Quel bene e quel male stanno in un Libro Sacro o nella coscienza degli uomini?
I Sunniti e gli Sciiti si sono combattuti per secoli su questi interrogativi. Fagocitando e distruggendo altri gruppi religiosi come i Mutaziliti (nel IX secolo) e le varie tendenze mistiche dei Sufi. Chi crede che la volontà divina sia simbolica e ideale, è più disposto ad accogliere e adattarsi alle trasformazioni storiche. Chi invece concepisce Dio come un Padre assolutista, tirannico e geloso, è portato a ritenere che la realtà sia immobile, che la storia non conti, e la ragione non abbia alcun valore.
Di solito le grandi Chiese hanno scelto l’interpretazione simbolica e idealistica, (spesso paradossalmente unita a una precettistica rigorosa), perché ha permesso loro di adeguarsi ai cambiamenti, di mutare visione del mondo, di diventare più umane e di durare nel tempo.
Ogni tanto però, non si sa come, esplode un corto circuito. A un civile e savio relativismo e a una umana tollerante convivenza, qualcuno sente il bisogno di contrapporre, con gesta eclatanti, la fedeltà a un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo. Pretendendo di applicare i precetti del VII secolo dopo Cristo. Come se da noi a qualcuno venisse in mente di applicare le regole della Bibbia, quando la schiavitù era legale, la vendetta era l’unica forma di giustizia e gli adulteri e gli omosessuali venivano lapidati. Come fingere di non sapere che c’è stato Cristo, che ha contraddetto tutto quello che era considerato normale a quei tempi, ha introdotto la pratica dell’umiltà, del rispetto dell’altro, della povertà, dell’uguaglianza? Per questo è stato crocefisso, ma alla fine il cristianesimo ha trionfato sui cultori della Bibbia. E come fingere di non sapere quanto è costato raggiungere il concetto della divisione fra Stato e Chiesa? Quanto è stato doloroso stabilire i valori dei diritti civili?
L’accettazione della immanenza o meno di un Libro Sacro sta alla base della saggezza di una religione. E certamente papa Francesco questo l’ha capito bene e sta dando un esempio straordinario. Ma la logica, la tolleranza, il rispetto, suonano come parole blasfeme per chi ha messo al posto del cuore una spada appuntita, per cui ogni abbraccio diventa una ferita mortale.
Voglio finire queste brevi riflessioni, da una parte con le parole di Voltaire, che ci raccomanda, nei momenti di crisi, di affidarci alla filosofia, perché i filosofi non fanno la guerra ma ragionano e il ragionamento è «il solo bene che abbiamo da contrapporre alle furie degli invasati». E, dall’altra parte, con le parole del poeta Ibn Arabi, uno dei più grandi poeti del XIII secolo, deriso e attaccato per le sue posizioni conciliatorie: «Un tempo io mi offendevo col mio compagno se la sua religione non era uguale alla mia, ma ora il mio cuore ammette ogni forma. Il mio cuore oggi è un prato per le gazzelle, un chiostro per il monaco, una Kaaba per il pellegrino, per le tavole della legge e per il sacro libro del Corano. Seguo la tenerezza e dovunque mi portano i cammelli d’amore, là trovo la mia religione, la mia fede».




Omicidio di Michele Molfetta

Volevo dirti che stanotte al TG ho visto e sentito un fatto che mi ha chiesto di parlartene.
Dani, perché non scrivi sul blog qualcosa su questa Signora, la moglie di Molfetta, che sono 22 anni che aspetta venga istruito il processo sull'omicidio di suo marito? E' una donna coraggiosa, che ha tirato su da sola le due figlie. E una delle due, piccolissima, era presente col padre quando un proiettile sfuggito ai malviventi lo ha colpito alla nuca. 
Adesso la Signora si è appellata al Presidente della Repubblica.
Non potremmo darle anche noi un po' di sostegno e di visibilità?
Non ti sarà difficile documentarti meglio sull'argomento.Te ne prego.
Angela Fabbri
Accolgo volentieri da richiesta di Angela, per un semplice motivo. Spesso si dimenticano fatti avvenuti da tempo, soprattutto vengono scordati da chi dovrebbe occuparsene. Ho un pensiero che mi molesta da qualche tempo, ed è questo: "Spesso le peggio ingiustizie avvengono proprio dalla Giustizia". Si condannano innocenti, si stravolgono i processi, spesso lunghi e che non portano ad una concreta soluzione. Mi riferisco a molti casi di condanne ingiuste, o di assoluzioni dove sarebbe stata necessaria una punizione esemplare.
Quindi, anche se questo blog è dedicato soprattutto all'arte, qualche volta esulo dallo specifico campo, per dare visibilità a fatti che meritano attenzione.
Non avendo seguito il TG di cui mi accenna Angela, ho cercato un articolo che mi pare riporti i fatti con chiarezza.
Sono passati 22 anni dal tragico omicidio a Michele Molfetta, ma giustizia non è ancora stata fatta. Su "La Gazzetta del Mezzogiorno" dell'11/10/2015 l'appello della vedova Carmela Sette al boss Di Cosola, ora pentito...

Una vedova al boss Di Cosola
«Parli della fine di mio marito»

di TOMMASO FORTE
Appello al boss Antonio Di Cosola - che si è pentito e collabora con la giustizia - dalla vedova della vittima di un agguato mortale. «Voglio che Di Cosola dica la verità sull’uccisone di mio marito. Un atto di grande coraggio e umiltà. Ho apprezzato il suo profondo rispetto verso la sua famiglia e la sua compagna di vita, la moglie, appunto. Ed ecco, quindi, il mio appello: racconti la verità».
Carmela Sette - 62 anni, residente a Grumo Appula - è la moglie di Michele Molfetta, rimasto vittima a 38 anni di un agguato, il 18 febbraio 1993 a Bitritto. Michele Molfetta si era recato con un collega di lavoro presso la rivendita di giocattoli «Scalera», a Bitritto, per acquistare una mascherina di carnevale alla figlia Arianna di 4 anni. Fu ucciso a bruciapelo da un colpo di arma da fuoco, usata da malviventi mascherati, vestiti da pagliacci, che fecero irruzione nel negozio a scopo di rapina. Erano armati e senza pietà, spararono all’impazzata. Padre e figlia caddero, il primo morì sul colpo, la piccola riportò un trauma cranico e contusivo del setto nasale.
Un delitto efferato. Dunque, una vittima innocente, morta peraltro sotto gli occhi increduli della piccola figlia, stretta tra le sue braccia. Per quel delitto sono imputati appunto Antonio Di Cosola, Antonio Lombardi, Giuseppe Ladisa, Cosimo Di Cosola e Giuseppe Lopiano «perché agendo in concorso tra loro ed a vario titolo, hanno cagionato la morte di Molfetta Michele, esplodendo al suo indirizzo e colpendolo al capo, colpo d’arma da fuoco, illegalmente detenuta» recita il capo di imputazione.
VOGLIA DI GIUSTIZIA - Ma ecco la testimonianza di Carmela Sette. «Dopo oltre 22 anni l’omicidio atroce di mio marito, uomo buono ed affettuoso padre di famiglia, resta impunito; eppure sul delitto hanno indagato una decina di valenti magistrati inquirenti, si sono scritte decine di faldoni ricolmi di atti processuali ed hanno “parlato” diversi collaboratori di giustizia. Ma la Giustizia ancora non trova i responsabili, come si fossero, nel frattempo, eclissati nella redenta veste di onesti cittadini, tornati alle quotidiane e sane abitudini di buoni padri di famiglia; così non è e questo tutti lo sanno. Ora, dopo l’ennesimo tentativo di invocare la prescrizione, come se la vita di una persona fosse tutelabile dallo Stato solo parzialmente, persino si rischia di dimenticarsene totalmente».
RICERCA DELLA VERITÀ - «La stampa ha dimenticato la storia di mio marito, vittima innocente. Esulta al pentimento del criminale, pentito dell’ultim’ora, si dilunga nel ricordare i molteplici reati, omettono di ricordare al boss Antonio Di Cosola i capi di imputazione relativi all’omicidio di Michele, che pure sono a lui ascritti e contenuti nella richiesta di rinvio a giudizio dell’aprile 2014 a firma del magistrato Francesca Pirrelli ed attualmente oggetto d’esame davanti ad un magistrato nella fase preliminare. Mi chiedo fino a quando terrò repressa la legittima domanda di giustizia mia e delle mie figlie, se non scenderà prima il silenzio e con esso l’assurda passività di un mondo, che trascura l’accertamento della verità?».
LE INDAGINI - «Auspico con la massima serenità che i titolari delle indagini sappiano riferire al pentito le sue responsabilità e misurare il suo pentimento con il metro dell’apporto collaborativo che vorrà dare alla ricerca dei colpevoli dell’efferato crimine, che ha privato me e le mie figlie di un ottimo marito e di un padre esemplare» .
L’APPELLO AL BOSS - «Con il cuore rigonfio di un dolore mai sopito invito il boss Di Cosola, se veramente si è ravveduto ed ha preso seriamente a considerare il valore della vita umana e della giustizia nella verità, a farsi davvero “collaboratore”, a raccontare le circostanze, i fatti e le persone che hanno causato la morte di mio marito. Vorrei tanto che la tragedia familiare, che resta immanente nei ricordi e nell’agire della nostra vita quotidiana, abbia un risvolto finale di verità; che il Di Cosola dimostri di essere uomo, confessi le sue azioni e quelle di quanti hanno contribuito al delitto e contribuisca a lenire il nostro tormento con l’accertamento della verità.
Come potete vedere, ho scelto un'immagine che rappresenta la giustizia, proprio con la frase "La Legge è uguale per tutti". Malgrado tanti processi, che pare non debbano finire mai, e a volte non appaiono neppure equi, voglio ancora credere che la Giustizia venga adoperata nel "giusto modo". Chiedo venia per il gioco di parole, ma credo con questo mio appunto, di rispecchiare il pensiero di molti italiani. Desidero che sia fatta giustizia e che questa donna, che si è vista privare in modo violento, della presenza nella sua vita, del marito e padre delle sue figlie, possa ottenere ciò che le spetta, anche se sarà un niente, in confronto a quanto le è stato tolto.
Danila 

venerdì, novembre 27

Storia di una visita agli occhi, vista da un paziente

Questo articolo necessita di una premessa: Angela mi scriveva ieri, con difficoltà, in quanto era ancora sotto l'effetto dell'atropina, a seguito di una visita specialistica.



Ma credevo lo sapessi, Dani, che, al giorno d'oggi, quando si fa una visita oculistica essa prevede sempre il fondo oculare.
Le antiche visite per diagnosticare o controllare miopia o ipermetropia, supportate da un oftalmoscopio e senza uso di atropina sono cose della nostra giovinezza!
Io sono miope da quando avevo 12-13 anni e da allora era canonica almeno una visita all'anno.
L'oftalmoscopio (strumento per guardare dietro l'occhio ma che non permetteva di vederne la periferia e cioè tutto il contorno della retina) fu usato en masse fino all'inizio degli anni '80 del '900, quando dagli Stati Uniti arrivarono nuove tecniche, con la luce laser. Tecniche che richiedevano l'uso dell'atropina per allargare l'iride (o dilatare la pupilla, come preferisci). Ma che in tal modo permettevano un controllo dell'intero fondo oculare.
Ora diciamo che il bulbo dell'occhio assomiglia a un uovo. Bene, quest'uovo ha sul fondo una copertina nomata 'rètina', ma si potrebbe chiamare anche retìna tanto assomiglia nella sua struttura a una retìna che raccoglie i capelli.  
Quando entra in gioco la miopia, l'occhio tende ad allungarsi sul davanti, sporgendosi.
Quando entra in gioco l'ipermetropia, l'occhio tende a appiattirsi, allungandosi ai due lati.
Questo, l'occhio lo fa per aggiustare il fuoco che viene, in entrambi i casi, spostato: nei miopi si accorcia, nei presbiti si allunga.
In entrambi i casi non riusciamo più a mettere  a fuoco, perché il punto di fuoco è sulla retina e allora l'occhio si modella per riuscire a raggiungerla.
Ora, questo rimodellamento del bulbo stira la retìna che lo avvolge. E la rètina è fatta di un'incredibile quantità di minuscoli vasi sanguigni che quindi possono subire danni da stiramento.
Ecco perché, da almeno 30 anni, non solo si fa l'esame della vista, ma, soprattutto, si esamina il fondo dell'occhio.
E questo in soggetti che non hanno altri problemi. Ci sono ben altri sistemi per analizzare il fondo dell'occhio, fino a arrivare al nervo ottico.
Ma di questo parleremo un'altra volta. O meglio ne parlerà chi ne sa davvero, dunque non io me, ma un oculista!

(Ho scritto perché le pupille si avviano alla chiusura normale).
Angela Fabbri
E per i pellerossa come si controlla la vista?
Così!  
Dani





Mafiaboy di Silvio Coccaro

Mafiaboy
Mafiaboy fu il nickname scelto da Michael Calce, hacker di Bizard, una grande isola a nord ovest di Montreal [Canada]. Egli salì agli onori della cronaca per aver lanciato,  nel mese di febbraio del 2000, alla tenera età di 15 anni, una serie di attacchi di tipo Distributed Denial of Service [DDoS] contro grossi siti di commercio elettronico come Yahoo! [operazione da lui denominato: Project Rivolta (in italiano!)], Amazon.com, Fifa.com, Dell, E*Trade, eBay e CNN. Ciò creò scalpore perfino sulla stampa internazionale.
Un attacco informatico DDoS ha lo scopo di rendere indisponibile un servizio di rete ai suoi utenti legittimi. Per questo:
·      si ricorre all’inondazione di una rete con traffico tale da impedirne il funzionamento;
·      si creano perturbazioni alle connessioni tra due computer, per impedire l’accesso ad un servizio specifico;
·      si nega l’accesso ad un servizio ad un determinato individuo;
·      si inviano  miliardi di byte ad un sito Internet;
·      si blocca un file server o si rende impossibile l’accesso ad un sito web o si impedisce ad un’impresa di scambiare al suo interno messaggi di posta elettronica.


Mafiaboy


 Per portare a compimento i suoi attacchi, Mafiaboy ricorse a software fornitigli da altri hacker poiché egli non conosceva il linguaggio C in misura tale da consentirgli di creare per conto proprio i programmi  atti a compiere azioni di tipo Distributed Denial of Service. Per questo scopo adoperò il software trinoo, che egli aveva  realizzato assieme ad un altro elemento del gruppo di hacker di cui faceva parte. Era chiaro, per l’FBI [Federal Bureau of Investigation] e la GRC [Gendarmerie Royale du Canada alias le «Giubbe Rosse» alias la Polizia a cavallo]  che lo sorvegliavano, che egli non fosse un hacker di talento ma piuttosto uno script-kiddie [È, questo, un termine dispregiativo con cui si indica chi essendo sprovvisto di reali competenze di sicurezza informatica passa il suo tempo cercando di infiltrarsi nei sistemi altrui utilizzando software scritti da altri]. Invece, egli stesso dichiarava di non essere né l’uno né l’altro, ma «piuttosto una via di mezzo tra essi». Eppure, ancor oggi, i suoi attacchi sono quelli che hanno causato le perdite economiche più ingenti.
L’FBI e la GRC avevano cominciato ad interessarsi a Mafiaboy dopo che questi, in canali  IRC [Internet Relay Chat – un protocollo Internet di messaggistica istantanea], aveva affermato di essere proprio lui l’autore dei cyber-attacchi. Divenne poi il sospettato numero uno dopo che si ebbe vantato, di nuovo in IRC [sempre sorvegliata dall’FBI e dalla GRC], di aver bloccato il sito web di Dell, informazione che fino a quel momento non era stata resa pubblica. Per questo fu arrestato il 15 aprile del 2000.
In ottemperanza alla legge canadese, la sua vera identità fu mantenuta segreta dal momento del suo arresto e per tutta la durata del processo, perché lui era minorenne. In seguito, il poliziotto della GRC che l’aveva arrestato gli propose di lavorare per potenziare la sicurezza di Internet. Mafiaboy si rifiutò di incontrarlo a causa dei  modi rudi con cui questi aveva trattato la sua «opera criminale». Al momento del suo arresto, Mafiaboy aveva negato di aver sferrato quei cyber-attacchi, dichiarando di non aver fatto altro che eseguire esperimenti per creare un buon firewall. Successivamente, nel primo giorno del processo, modificò la sua versione dei fatti e si dichiarò colpevole di 56 capi d’accusa rispetto ai 66 che pendevano sulla sua testa. Fu condannato dalla Montreal Youth Court ad otto mesi di «open custody» [custodia in residenza aperta in cui vi è il minimo uso di dispositivi di sicurezza interna e di sicurezza perimetrale dove i giovani vivono obbligatoriamente e sotto supervisione], ad un anno di libertà vigilata, a limitazioni nell’uso di Internet e ad una piccola multa.
Conseguenze: questi attacchi, oltre ad aver inflitto un cospicuo danno economico a diverse multinazionali americane, stimato in 1,7 miliardi di dollari USA, stigmatizzarono brutalmente quanto i siti web siano vulnerabili agli attacchi di tipo Distributed Denial of Service.
Epilogo: a  partire dal mese di settembre del 2005, Michael Calce cominciò a scrivere su Le Journal de Montréal una serie di articoli sulla sicurezza informatica. E nel 2008 uscì allo scoperto con un’opera autobiografica dedicata soprattutto ai suoi cyber-attacchi.  Poi, il 26 ottobre 2008, nella trasmissione televisiva Tout le monde en parle [Tutti ne parlano] di Radio Canada confessò di non volere più essere indicato col nome di Mafiaboy ma solo col suo vero nome, Michael Calce, affermando contestualmente che Mafiaboy era morto. Affermò pure di non aver agito per arricchirsi ma solamente per divertirsi e per verificare le sue capacità. Al giorno d’oggi, Michael Calce è occupato a vendere ai comuni utenti di computer diversi programmi che contrastano le attività dei criminali informatici.
Bibliografia:

Michael Calce, Mafiaboy: How I Cracked the Internet and Why It's Still Broken, Viking Canada,‎ 30 settembre 2008

Silvio Coccaro