POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

sabato, febbraio 25

Recensione di Marcella Artusio Raspo dell'opera PHANTAASIA non IMAGINAATIO VERA di Roberto Di Pietro

Autore:  Roberto Di Pietro
Titolo dell’opera:  “PHANTAASIA  non  IMAGINAATIO VERA” (Poema di pagine 179, estratto dalla silloge poetica  intitolata “A testa in giù”)
Editore:  IL LEONE VERDE  (ERA  -  POESIA) -- TORINO
Prezzo di copertina:  Euro 18,59

Recensione

a cura di

Marcella Artusio Raspo


(pubblicata sulla rivista di cultura “alla bottega” -  Pavia,  N. gennaio-giugno 2003)





Ho letto con crescente interesse “Phantaasia non Imaginaatio Vera” di Roberto Di Pietro, un ampio poema di taglio teatrale che, pur essendo stato pubblicato separatamente, è parte integrante del terzo capitolo dell’ultima silloge dell’autore medesimo, intitolata “A testa in giù”.  Si tratta di un testo poetico (concepito in perfetti versi endecasillabi e settenari alterni) che, attraverso un coinvolgente moltiplicarsi di linguaggi e di varianti stilistiche ricollegabili ad una cultura notevolmente estesa, stratificata e profondamente assimilata, si aggrega attorno ad un nucleo unitario che è la fiaba di Cappuccetto Rosso rovesciata nel suo intimo significato e nella morale.
Un’opera di autentica, raffinata sperimentazione, questo poema di Di Pietro,  giocato com’è su elementi linguistici e culturali appartenenti alle epoche più diverse della letteratura, a cui si sovrappongono, e mai a caso, intonazioni e “tic” del linguaggio d’oggi, soprattutto giovanile, che va dal fumetto alla parlata in codice dei rockettari, alle deformazioni del lessico televisivo: il tutto in un parodistico e paradossale caleidoscopio di sfaccettature, talvolta di lettura necessariamente ardua, talvolta di studiata lapidaria elementarità. Questa innovazione creativa, che dissacra con virtuosismo le regole estetiche consolidate nel tempo nonostante le avanguardie storiche del Novecento, mi ricorda il “poeta plurale” Fernando Pessoa, che però ricorre a degli eteronimi a cui corrispondono opere diversissime tra loro, mentre Di Pietro condensa in un solo poema di vasto respiro le stratificazioni di scrittura che si sono intrecciate nella sua vasta formazione culturale e nella sua non comune sensibilità artistica.  Il viaggio “iniziatico” di Cappuccetto Rosso nel bosco, trasposizione in chiave moderna (simbolica quindi, già nella ouverture del poema, l’efficacissima descrizione dell’abbigliamento della bimba troneggiante su “zatteroni” rossi) dell’antica Fedra, con tutti i risvolti orfici e misterici che implica questo personaggio (qui ripreso nella mitica triade Fedra-Ippolito-Arianna “signora del labirinto”) è di una suggestione talmente sotterranea da riportarci alle origini di noi stessi: un buio totale, inquietante, attraversato da sussurri indecifrabili, illuminato a tratti da una luna emblematicamente ambigua – orfica anch’essa – che torna non a caso ad affacciarsi nella chiusa:

Rimase a disperarne

in quella notte assorta,
stellata ancora, invasa dalla luna.
Sentì già il trepestio…
già quel notorio passo…
l’orecchio teso, già su per la scala…

preannunciando quell' “urlo” primigenio di Fedra-Cappuccetto, che sbarra la fine del poema.

Al di là dei personaggi mitologici e di quelli quotidiani (almeno in apparenza), come quello della Madre della bambina -- figura che già all’inizio del testo veniva fatta sopraggiungere per “la scala a spirale” (e sappiamo quale significato abbia la spirale nel linguaggio iniziatico in genere,  come nella poetica di William B. Yeats) -- portatrice di una morale “comune” che ancora sopravvive bacchettona, falsamente cristiana, sostanzialmente oppressiva, il poema si dispiega in una costruzione verticale la cui acme è rappresentata dalla sfida solitaria del “diverso” sia in campo etico, sia in campo estetico, sia in senso più ampiamente umano e sociale.  Questo Lupo, costretto a mascherarsi, non è il lupo cattivo consegnatoci piuttosto arbitrariamente dalla tradizione fiabesca, in quanto temibile “diverso”, ma è un lupo buono e ingenuo: innocente così come lo ha creato la natura secondo regole che investono tutti gli esseri viventi.   Alla luce di questo concetto, Di Pietro in definitiva propone una corretta  identità secondo natura (l’Emile di Rousseau fa testo), che si può realizzare nonostante i bavagli, i condizionamenti e le ipocrisie culturali che giungono da più parti. Ne emerge un particolare messaggio ideologico: occorre essere amanti del prossimo fin che si può, eppure mai al costo di una rinuncia alla propria essenza spirituale; sapendosi, cioè, conservare veramente liberi e fedeli fino in fondo alla propria indole, al proprio modo di essere naturale e spontaneo. E ciò ad ogni prezzo sul piano materiale: anche se, per questa forma di intima coerenza intransigente, priva di compromessi -- come quella esemplare del Lupo Asterio, per l’appunto – si sia destinati non solo all’ostracismo, ma alla fucilazione.

Dal punto di vista poetico, l’opera di Di Pietro è senz’altro pienamente risolta:  la parte iniziale della Anabasi, intessuta di reminiscenze classiche e rinascimentali (Poliziano e Ariosto in particolare, ma non solo) viene a contrapporsi con sapienza alla parte conclusiva della Catabasi, per quella spiccata tensione drammatica degli opposti, tra razionalità e irrazionalità, tra intelletto e passione (lì si annida il dualismo orfico) che ne caratterizza lo scenario grandioso e tragico, come lo è la commedia umana.
M.A.R.

venerdì, febbraio 24

L'AMORE TUO CHE ASPIRA...di Roberto Vittorio Di Pietro


ATTO I
Il mondo ancora
e ancora 
non solo nel pensiero














 Grazie infinite per la nuova pubblicazione. Spero abbia apprezzato quel "monologo". E' stato estrapolato dal testo teatrale PHANTAASIA non IMAGINAATIO VERA" che, come credo di averle già detto, fa parte della mia silloge intitolata A TESTA IN GIU' e ripropone la favola di Cappuccetto Rosso in modo tale che la figura del lupo tradizionalmente malvagio risulti "disallegorizzata".  In altri termini, qui il Lupo (che si chiama Asterio) si presenta come un Amico intimo e "allievo" della Nonna, alla quale si allea per tentare -- purtroppo, inutilmente -- di redimere la Bambina: una ragazzina tipicamente moderna, desiderosa di concedersi un'avventura erotica, che lei esige, che le viene caparbiamente negata, e...e... -- beh, la trama, ricca di sorprendenti risvolti psicologici com'è, è troppo complessa perché io possa riassumergliela senza snaturarla. Nell'ambito del dramma (per molti aspetti tragicomico), questo significativo monologo filosofico viene pronunciato nel momento preciso in cui, il Lupo - "idealista impenitente" - moralmente sconfitto e indicibilmente depresso dopo l'incontro-scontro fallimentare con Cappuccetto, torna dalla Nonna per raccontarle l'accaduto, mentre lei cerca in qualche misura di rincuorarlo.

Roberto Vittorio Di Pietro

lunedì, febbraio 20

LA POESIA di Trilussa


Appena se ne va l’urtima stella
e diventa più pallida la luna
c’è un Merlo che me becca una per una
tutte le rose de la finestrella:
s’agguatta fra li rami de la pianta,
sgrulla la guazza, s’arinfresca e canta.

L’antra matina scesi giù dar letto
co’ l’idea de vedello da vicino,
e er Merlo furbo che capì el latino
spalancò l’ale e se n’annò sur tetto.
– Scemo! – je dissi – Nun t’acchiappo mica…-
E je buttai du’ pezzi de mollica.

– Nun è – rispose er Merlo – che nun ciabbia
fiducia in te, ché invece me ne fido:
lo so che nu m’infili in uno spido,
lo so che nun me chiudi in una gabbia:
ma sei poeta, e la paura mia
è che me schiaffi in una poesia.

È un pezzo che ce scocci co’ li trilli!
Per te, l’ucelli, fanno solo questo:
chiucchiù, ciccì, pipì… Te pare onesto
de facce fa la parte d’imbecilli
senza capì nemmanco una parola
de quello che ce sorte da la gola?

Nove vorte su dieci er cinguettio
che te consola e t’arillegra er core
nun è pe’ gnente er canto de l’amore
o l’inno ar sole, o la preghiera a Dio:
ma solamente la soddisfazzione
d’avè fatto una bona diggestione.


TRILUSSA

Sopravvissuto al lager festeggia i105 anni . da La Stampa . Torino






























L'INDICE DEL POETA di Roberto Di Pietro

Vasily Polenov


ATTO I
Il mondo ancora
e ancora 
non solo nel pensiero



Roberto Vittorio Di Pietro

E TORNA ANCORA A TRATTI GIOVINEZZA di Anna Montella



























Le poesie di Anna le amo tantissimo.  Sono musicali, e tanto vere. Grazie Anna, per saperle scrivere tanto bene!

venerdì, febbraio 17

NARCISO NON E' MORTO di Roberto Vittorio Di Pietro


            John William Waterhouse, Walker Art Gallery, Liverpool (Inghilterra)


Roberto Vittorio Di Pietro

LA CIVETTA di Giovanni Pascoli

Roberto Vittorio Di Pietro

POEMI DI PSYCHE

II
LA CIVETTA
"O tristi capi! O solo voci! O schiene
vaie così come la biscia d'acqua!
Via di costì!" gridava agro il custode
della prigione. Era selvaggio il luogo,
deserto, in mezzo della sacra Atene,
con sue deformi catapecchie al piede
di bigie roccie dalle strie giallastre,
piene di buchi, verdeggianti appena
qua e là di partenio e di serpillo.
Il sole era sui monti, e nell'azzurro
passava fosco a ora a ora un volo
d'aspri rondoni che girava attorno,
sopra la rocca, alla gran Dea di bronzo,
forte strillando. Ed anche in terra un gruppo
di su di giù correva, di fanciulli;
strillando anch'essi. Ed ecco s'aprì l'uscio
della casa degli Undici, e il custode
alzò dal tetro limitar la voce.


Egli diceva: "È per voi scianto ancora?
Ieri da Delo ritornò la nave
sacra, e le feste sono ormai finite.
Non è più tempo di legar col refe
gli scarabei! Non più, di fare a mosca
di bronzo!" Un poco più lontano il branco
trasse, in silenzio. Poi gridarono: "Ohe?
che parli tu di scarabei, di mosche?
È una civetta." In vero una civetta
tutta arruffata era nel pugno a Gryllo
figlio di Gryllo facitor di scudi,
ch'era il più grande. Ma l'avea pocanzi
in un crepaccio Hyllo predata, il figlio
d'Hyllo vasaio, ch'era il più piccino.
In un crepaccio della bigia rupe,
sotto un cespuglio di parïetaria,
vide due rilucenti Hyllo stateri
d'oro, nell'ombra, e s'appressò; ma l'oro
non c'era più: poi li rivide i due
fissi e tondi nell'ombra occhi d'uccello.
Una civetta della Dea di Atene
immobilmente riguardava il figlio
d'Hyllo vasaio; che con le due mani
all'improvviso l'abbrancò su l'ali,
e la portava. E Coccalo sorvenne
che gliela prese; a Coccalo la prese
Cottalo; e Gryllo a lui la vinse: allora
Cottalo pianse, Coccalo sorrise,
e il piccolino frignò dietro il grande.



Ma Gryllo avvinse con un laccio un piede
della civetta, e la facea sbalzare
e svolazzare al caldo sole estivo.
E dai tuguri altri fanciulli, figli
d'arcieri sciti, figli di metèci,
trassero. E in mezzo a tutti la civetta
chiudeva apriva trasognata gli occhi
rotondi, fatti per la sacra notte.
E il coro "Balla" cantò forte "o muori!"



E nel carcere in tanto era un camuso
Pan boschereccio, un placido Sileno
col viso arguto e grossi occhi di toro.
Dolce parlava. E gli sedeva ai piedi
un giovanetto dalla lunga chioma,
bellissimo. E molti altri erano intorno,
uomini, muti. Ed a ciascuno in cuore
era un fanciullo che temeva il buio;
e il buon Sileno gli facea l'incanto.
"Voi non vedete ciò ch'io sono. Io sono"
egli diceva "ciò che di me sfugge
agli occhi umani: l'invisibile. Ora
s'ei guarda, come fosse ebbro, vacilla;
ma non è lui, non è quest'io, che trema:
trema ciò ch'egli guarda, che si vede,
che mai non dura uguale a sé, che muore.
Io, di me, sono l'anima, che vive
più, quanto più vive con sé, lontana
dal mondo, nella sacra ombra dei sensi.
E s'ella parta libera per sempre,
nella notte immortale, ove si trovi
ella con tutto che non mai vacilla,
ella morrà? non vedrà più?" Qualcuno
"Vedrà" rispose; "Non morrà" rispose.



Poi fu silenzio. Il musico vegliardo
Pan era solo, accanto al suo pensiero,
invisibile. Il bello adolescente,
supino il capo, con la lunga chioma
spiovente, lungi dalla nuca, all'aria,
beveva l'eco delle sue parole.
Ed ecco entrò dall'abbaino un canto
d'acute voci: "Balla, dunque, o muori!"



E il custode dal tetro uscio i fanciulli
striduli fece lontanar nel sole,
fuor dell'ombra dei tetti e della roccia.
Ma là, nel sole, molleggiò più goffa
sul pugno a Gryllo, s'arruffò, chiudendo
aprendo gli occhi, la civetta, e i bimbi
ridean più forte. Onde il custode: "O Gryllo
figlio di Gryllo, tu che sei più savio,
dà retta. Sai: codesto uccello è sacro
alla Dea nostra, a cui tu canti l'inno
movendo nudo coi compagni nudi
per la città. La nostra Dea sa tutto,
ché gli occhi ha grigi, di civetta, e vede
con essi per l'oscurità del cielo."
"No, che non vede" disse Hyllo "né vuole
vedere, e chiude gli occhi tondi al sole."
"Passero, taci. Tu, Gryllo" il custode
riprese, "grande già mi sei. Conosco
tuo padre, il buono artefice di scudi.
Tu gli somigli come fico a fico.
Fa chetare le tortore ciarliere.
C'è dentro la mia casa uno che muore!"
"Chi? Questa sera?" "Al tramontar del sole!"
"Perché?" "La nave ritornò da Delo.
Ed egli vide un sogno: una vestita
di bianche vesti, che gli disse: O uomo,
il terzo giorno toccherai la terra!
E la cicuta, sì, berrà dentr'oggi.
Tra poco, o Gryllo. Che in silenzio ei muoia!"



Tacquero allora i giovanetti a lungo
pensando all'uomo che così, per mare,
tornava in patria. E Gryllo disse: "È l'uomo
che andava scalzo e passeggiava in aria,
e diceva che il sole era una pietra,
e sapeva che terra era la luna..."
Ed in silenzio trassero alla roccia
tutti, e stettero presso la prigione,
come aspettando. E la civetta, al lento
filo costretta, si posò sul ramo
d'un oleastro che sporgea dal masso
sopra i ricciuti capi dei fanciulli.
Si chinò, s'arruffò, molleggiò, cieca
per la gran luce rosea del tramonto.
E dai tegoli un passero la vide
e garrì contro la non mai veduta,
e vennero altri passeri al garrito;
e il frastuono eccitò le rondinelle,
e fuori ognuna si versò dal nido;
e da un tacito ombroso bosco sacro
venne la capinera e l'usignuolo.
E grande era lo strepito e il bisbiglio,
pur non udito dai fanciulli, attenti
ad una voce che venìa di dentro,
di chi tornava alla sua patria terra
invisibile, e placido parlava
a un'altra barca che incrociò sul mare.



E poi cessato il favellìo di dentro,
un dei fanciulli disse: "Hyllo, tu monta
su le mie spalle, e narra quel che vedi."
Hyllo montò sul dorso a quel fanciullo,
e sogguardò per l'abbaino: "Io vedo."
"Hyllo, che vedi?" "Un buon Sileno vecchio."
"Che dice?" "Dice che andrà via, che il morto
non sarà lui: seppelliranno un altro."
Il sole in tanto ritraeva i raggi
dai bianchi templi della sacra Atene.
Sola splendea la cuspide dell'asta
che aveva in mano la gran Dea di bronzo.
Brillò d'un tratto e poi si spense; e il sole
calò raggiando dietro il Citerone.
"Hyllo, che vedi?" "Beve." "La cicuta!"
"Piangono, gli altri; uno si copre il capo
con la veste, uno grida." "Esso, che dice?"
"Dice di far silenzio, come quando
si sparge l'orzo, presso l'ara, e il sale."



Ed era alto silenzio, che s'udiva
il passo scalzo su e giù dell'uomo,
e poi nemmeno si sentì quel passo..
"Hyllo, che vedi?" "È sul lettuccio; un altro
gli preme un piede. S'è coperto. Muore..."
"Dunque non esce?" "Ora si scopre. Dice:
Un gallo al Dio che ci guarisce i mali!"
"Che? La cicuta è un farmaco salubre?"
"Uno gli chiude ora la bocca e gli occhi."
"Dunque non parte? è sempre lì?" "Sì, morto."



E bisbigliando stavano i fanciulli
lungo la roccia, al buio. Ecco e la porta
s'aprì. N'usciva con singhiozzi e pianti
un vecchio, un giovinetto, altri poi molti
tristi gemendo. E dall'inconscie dita
il filo uscì con un lieve urto a Gryllo:
e il sacro uccello della notte in alto
si sollevò con muto volo d'ombra.
E i compagni del morto ed i fanciulli
scosse un subito fremito, uno strillo
di sopra il tetto, Kikkabau... dall'alto,
Kikkabau... di più alto, Kikkabau...
dal cielo azzurro dove ardean le stelle.
E disse alcuno, udendo il fausto grido
della civetta: "Con fortuna buona!"


Giovanni Pascoli