POETANDO

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sabato, agosto 29

Hannah Arendt: la filosofa controcorrente

Qualche sera fa ho visto un film uscito nel 2014 e diretto da Marghareth Von Trotta. A seguito di questa visione, ho voluto approfondire l'argomento e il pensiero di Hannah Arendt e ho fatto delle ricerche in merito.
Martin Heidegger e Hannah Arendt















Hannah Arendt e la banalità del male, perché solo due giorni nelle sale?  di Elisabetta Ambrosi
 “Eichmann ist kein Mefisto!”. Eichmann non è un demonio! La voce di Barbara Sukowa, l’intensa Hannah Arendt del bel film di Marghareth Von Trotta risuona davanti agli occhi stupiti dei suoi amici, immigrati ebrei tedeschi come lei o americani come l’amata scrittrice Mary McCarty. E davanti  alla comunità ebraica di tutto il mondo, che non riesce ad accettare la tesi – che per Arendt non è “un’interpretazione, ma un fatto” – contenuta nei cinque articoli sul processo al nazista Eichmann (conclusosi con la sua impiccagione, a Gerusalemme) prima apparsi nel The New Yorker e poi nel suo libro più noto, e più storico, La banalità del male. Più che da un’intenzione malvagia, da un male volutamente e perversamente attuato, causato da una volontà perversa, malata, demoniaca, l’Olocausto è nato dall’obbedienza inconsapevole a un sistema gerarchico al quale era difficilissimo resistere. Obbedienza a una legge, ma una legge che imponeva di uccidere invece di salvare. Eichmann, come il film documenta, non ha nulla di sconvolgente e di eroico. È un uomo “col raffreddore”, chiuso in una gabbia, che ripete instancabilmente la sua verità: se mi avessero chiesto di uccidere mio padre l’avrei fatto. Eichmann era un segmento di un sistema, organizzava i treni “ma per lui, una volta partiti, il suo compito era finito”, come spiega Arendt durante un’accesa discussione. “Si sente in pace con la sua coscienza?”, chiede a Eichmann il pubblico ministero. “La mia coscienza si fondava su una scissione consapevole. Dovuta a un duro addestramento e all’educazione di una visione del mondo”, risponde. E se ci fosse stato coraggio civile, avrebbe fatto la differenza?”, gli chiedono ancora. “Sì, se fosse stato un coraggio civile organizzato gerarchicamente”.
Per Hannah Arendt, accusata di antisemitismo e di assenza di sentimento di fronte all’immenso dramma della Shoah, la vicenda di Eichmann conferma ciò che lei aveva scritto, e continuerà a scrivere, fino all’anno della sua morte, nel 1975. Al contrario di quanto vuole una tradizione occidentale che assegna al male un luogo “interiore”, mistico, il male è esterno, sociale, strutturale, come in parte è anche il bene. A differenza del bene, però, è insensato, privo di senso, e per questo non può essere radicale, “solo il bene è davvero radicale”, dice la Sukowa. Non esistono buoni e cattivi, ma una zona grigia della coscienza che si traduce lentamente in una dimensione pubblica, acquista peso e spazio, potere. E diventando potere produce violenza, un fenomeno che Arendt opporrà sempre direttamente alla libertà e alla politica: per la filosofa la dimensione più elevata dell’uomo, oltre la sussistenza, oltre il lavoro, che è necessità ma spesso non libertà, come scrive in Vita Activa.

Sono ormai più di cinquant’anni che i biografi di Martin Heidegger e di Hannah Arendt si trovano a dover fare i conti con qualcosa di sommamente imbarazzante, sconveniente, scandaloso: la lunghissima, tormentata e tuttavia indistruttibile relazione amorosa che ha legato il filosofo in odore di nazismo, certamente antisemita, alla sua bella studentessa ebrea, decisa militante filosemita durante la seconda guerra mondiale e implacabile accusatrice del regime nazista.

Un amore che è durato fino alla morte (di lei) e che nessuna insinuazione, nessuna critica, nessuna censura è riuscita a scalfire; un amore, soprattutto - e questo è il punto maggiormente significativo - che ha trovato il modo di coesistere, nell’animo dei due amanti, non solo con un bagaglio ideologico di segno opposto, ma anche con due sensibilità morali che difficilmente possono essere considerate di pari livello.

Heidegger, filosofo geniale, in più e più occasioni mostrò un comportamento eticamente discutibile; molte cose si potrebbero dire al riguardo, ma quella che getta un’ombra inquietante sulla sua figura morale, è, senza dubbio, l’aver denunciato alle autorità naziste colleghi e studenti ebrei al tempo in cui era stato nominato rettore dell’Università di Friburgo, nel1933, succedendo al suo maestro (ebreo) Edmund Husserl.
Il compito dello storico non è quello di distribuire la pagella in “valori morali” ai personaggi del passato, se non altro perché è sin troppo facile emettere sentenze quando il contesto politico e culturale è radicalmente cambiato e non costa nulla fare sfoggio di alte virtù; mentre la cosa, evidentemente, risulterebbe alquanto più laboriosa se lo storico si trovasse a vivere in una situazione di reale minaccia o di soppressione delle libertà fondamentali dell’individuo, a cominciare da quella di mostrarsi compassionevole verso il prossimo.
D’altra parte, quel particolare genere di storico che è il biografo non può sottrarsi alla responsabilità di valutare le scelte morali dei personaggi che sono oggetto della sua ricerca, specialmente quando esse presentano una effettiva rilevanza nel loro percorso umano, intellettuale, professionale; e, sotto questo profilo, il biografo di un filosofo non si trova affatto in una posizione diversa rispetto al biografo dell’uomo politico, dello scienziato o dell’artista.
I biografi di Martin Heidegger, quindi, come ad esempio il Safranski, giunti a un certo punto si vedono costretti a scendere dalle altezze stratosferiche del suo pensiero, per trovarsi davanti a questa grossa pietra d’inciampo, diciamo pure a questo macigno, nella vita del filosofo tedesco: la sua adesione, e sia pure temporanea, al regime hitleriano; le sue pubbliche prese di posizione a favore di esso; la sua zelante applicazione dei decreti antisemiti all’interno dell’università; la denuncia di quei colleghi e di quegli studenti che ricadevano entro il dettato delle leggi razziali. 
A ciò si deve aggiungere la sconcertante insensibilità da lui mostrata nei confronti degli amici più cari, ad esempio il fatto di non aver mosso un dito in aiuto della moglie ebrea del suo collega ed amico Karl Jaspers; e il fatto di aver millantato meriti pressoché inesistenti quale difensore degli Ebrei all’interno dell’Università; mentendo clamorosamente, su questo punto, anche alla sua giovanissima amica ed amante Hannah Arendt.
Quanto a lei, la studentessa ebrea altrettanto geniale, ella non solo accettò di divenire l’amante, per anni, del suo professore (sposato con una feroce e dichiarata antisemita), di cui non poteva ignorare le idee o, almeno, i comportamenti concreti (anche se, su ciò, i suoi biografi si sono arrampicati sugli specchi per tentare di “scagionarla” da questo dato di fatto); ma riprese una relazione con lui, anche se solo sul piano spirituale, a guerra finita, dopo aver dovuto emigrare in Francia e poi negli Stati Uniti, proprio per sfuggire alle leggi razziali, e dopo aver condotto, dall’estero, una dura battaglia in difesa degli Ebrei perseguitati dal nazismo: relazione che, come si è detto, ebbe termine solamente con la sua morte, seguita, sei mesi dopo, da quella di lui.
E non basta.
Negli anni del dopoguerra, oltre ad aver giocato un ruolo decisivo nella riabilitazione del suo antico maestro, in particolare deponendo a suo favore e sospingendo anche il riluttante Jaspers a fare altrettanto, nel procedimento aperto a suo carico nel quadro della politica di denazificazione, Hannah Arendt, ormai a sua volta famosa e apprezzatissima a livello internazionale, accettò di rimanere piccola e devota davanti a lui, di fingersi intellettualmente insignificante per gratificare la sua immensa vanità; insomma di cancellare se stessa per non gettare la minima ombra sul geloso e suscettibile amante: tipico esempio di sottomissione della donna agli aspetti più beceri e meschini dello stereotipo maschilista.
Hannah Arendt, dunque, vivendo l’amore per Heidegger nel modo in cui lo visse, ha calpestato contemporaneamente due autentici tabù della Vulgata progressista, femminista e libertaria: come ebrea, aveva continuato ad amare e venerare un filosofo che aveva appoggiato Hitler; come donna, aveva accettato di annullarsi, per non dare la benché minima ombra al “monumento” del suo vanitoso uomo (essendo peraltro già sposata anche lei).
Ah, un ultimo particolare, non per amor di pettegolezzo, ma per delineare un quadro completo della vicenda: lui era fisicamente insignificante, piccolo di statura, moro, scuro di carnagione, insomma di aspetto non precisamente ariano; e non aveva nemmeno lo sguardo fulminante di D’Annunzio, anzi parlava tenendo gli occhi bassi, come se non osasse guardare in faccia l’interlocutore; mentre lei, oltre a essere giovane e intelligentissima, era anche bellissima e avrebbe potuto avere ai suoi piedi (e di fatto li aveva) qualunque ragazzo o qualunque uomo.
Insomma, questo amore “maledetto” è stato, da sempre, una vera e propria spina nel fianco di tutti quegli storici moralisti e di tutti quei biografi edificanti che non sono mai riusciti a capacitarsi né della bassezza, se così vogliamo chiamarla, di lui, né - meno ancora - della “inesplicabile” venerazione e sottomissione di lei.
Un riflesso di questo imbarazzo, anzi, diciamolo pure, di questo autentico fastidio, si trova in tutti i biografi che hanno dovuto fare i conti con quell’amore.
A titolo di esempio, scegliamo un libro a caso, «Storia delle altre» (titolo originale: «A History of Mistresses», 2003; traduzione italiana di Carmen Covito e Marco Cavalli, Milano, Mondadori, 2006, 2007, pp. 308-317):

«Sul finire dell’autunno del 1924, una precoce adolescente fece il suo ingresso in un’aula universitaria per ascoltare uno dei più importanti filosofi tedeschi. Di lì a poco questi due personaggi diedero avvio a un’appassionata e complessa relazione che cambiò per sempre le loro vite. La loro storia d’amore non fu però né esemplare né esaltante. Hannah Arendt, la studentessa diciottenne, era ebrea, e Martin Heidegger, il suo trentacinquenne professore, era un nazionalista tedesco che avrebbe aderito al partito nazista e causato la rovina dei suoi colleghi e degli intellettuali ebrei. […]
Nel febbraio 1950, dopo tormentose esitazioni e incertezze, Hannah prese la risoluzione di rivedere Heidegger. Il 7 febbraio raggiunse Friburgo e per prima cosa gli spedì un biglietto chiedendogli di andarla a trovare nel suo albergo. Heidegger vi capitò la sera stessa alle 18,30, senza farsi annunciare, e ancora una volta Hannah ne rimase affascinata. “Quando il cameriere ha pronunciato il vostro nome - gli disse più tardi – è stato come se il tempo si fosse fermato all’improvviso.”. Incredibilmente, Hannah gli confessò di non essersi più fatta viva con lui solo a causa del proprio orgoglio e della propria “pura, semplice e folle stupidità”, non per altre ragioni. Ossia, non a causa del suo passato nazista.
Heidegger, però, era stato un nazista e aveva approfittato dell’importante e prestigiosa carica di retore di una grande università per rovinare, e in qualche caso, annientare, la carriera degli ebrei e di chi si opponeva al nazismo, tra cui un fervente cattolico romano. Non aveva mosso un dito per aiutare la moglie ebrea di Jaspers quando costei aveva rischiato la morte sotto il regime nazista,. Nelle rare occasioni in cui aveva tentato di intervenire a favore di ebrei vittime de regime, lo aveva fatto in nome dell’amicizia, mai per lo sdegno di fronte alla politica nazista. Nei primi anni del Terzo Reich, Heidegger aveva letto e assimilato alla perfezione “Mein Kampf”, in particolare l’odio antisemita del suo autore. Egli credeva, come Hitler, in una cospirazione ebrea internazionale. Nel 1929 aveva scritto in una lettera di avvertimento ufficiale: “È giunto per noi il momento di scegliere: o insufflare autentiche energie tedesche e imporre modelli dello stesso ordine nella vita spirituale della Germania, o abbandonarla alla crescente giudaizzazione, nel senso più proprio e in quello più ampio de termine”.
Come poté durare la storia d’amore fra un tedesco nazista e un’ebrea costretta a fuggire dalla Germania per scampare allo sterminio? A differenza delle donne ebree violentate dai nazisti che le tenevano prigioniere, la giovane Hannah era rimasta affascinata dalla non comune intelligenza di Heidegger e dalla sua statura professionale, due argomenti di cui egli si era servito per sedurla e legarla a sé. Non arrivava neppure a credere che Heidegger potesse essere nazista, a tal punto le era indifferente, all’epoca, tutto ciò che lei chiamava “politica”. Dal canto suo, Heidegger era abbastanza scaltro da evitare le discussioni che avrebbero potuto far sospettare ad Hannah il suo acceso nazionalismo e il suo consenso con le idee e gli spaventosi obiettivi di Hitler. Date le circostanze, è difficile sostenere che la Arendt andasse a letto con il nemico in piena coscienza.»

In questo brano di prosa che è, al tempo stesso, un cattivo esempio di biografia e un pessimo esempio di letteratura, in cui la rozzezza dell’autrice si spinge a ridurre una storia d’amore a una faccenda di letto, viene a galla tutta l’ipocrisia di una storiografia e, più in generale, di una cultura “progressista” o, comunque, politicamente corretta, che si sforza invano di tenere nascosta una coda di paglia lunga un chilometro.
Insomma il docente satiro, mefistofelico sciupafemmine, avrebbe sfruttato il candore e l’ingenuità della sua troppo fiduciosa allieva, per sedurla e per tenerla legata a sé tutta la vita: mentendo a più non posso nei primi tempi; e, poi… non si sa bene come. Ma insomma è “certo” che Hannah, poverina, non sapeva quel che faceva, allorché «andava a letto col nemico».
Beato candore dei politicamente corretti, che non si accorge nemmeno di cadere nel ridicolo e nel grottesco.
La verità, se vogliamo essere seri, è un’altra; e non solo nel caso di Martin Heidegger e Hannah Arendt, ma in tutti i molti casi analoghi; e anche in quelli più sconcertanti, come quando la vittima si innamora del proprio sequestratore, del proprio aguzzino, del proprio carnefice: ma senza che, per spiegarli, sia necessario ricorrere alla psicopatologia, come vorrebbero gli psicanalisti di stretta osservanza e anche molti di osservanza più blanda e tollerante. E cioè che nell’anima umana vi sono dei misteri insondabili, molti di più di quanti ve ne possano essere nell’universo fisico; misteri talmente abissali, che, al loro cospetto, le normali categorie di “bene” e “male”, di “giusto” ed “ingiusto”, cadono miseramente, come altrettanti castelli di carta.
Uno di tali abissi è certamente l’amore, al tempo stesso intellettuale e passionale, che può legare un uomo e una donna, magari per tutta la vita, in condizioni sociali, politiche e culturali siffatte, da costituire un’ardua sfida non solo al comune sentire della gente, ma anche alla stessa coscienza dei due protagonisti.
Vi è qualcosa di abissale, in amori di tal fatta, davanti a cui non serve scandalizzarsi, né si ha il diritto di puntare l’indice contro l’uno o l’altro dei due amanti; e questo non è romanticismo a oltranza, ma puro e semplice buon senso, pura e semplice constatazione di una ricchissima casistica, da cui abbiamo trascelto, per discuterne, solo uno dei casi più celebri.
Ma quanti amori del genere esistono e sono sempre esistiti; e quanti, secondo ogni verosimiglianza, continueranno ad esistere? Infiniti, senza dubbio.
Che piaccia o che non piaccia all’opinione pubblica, alla critica e alla storiografia politicamente corrette, debitamente progressiste e femministe: quando si ama, non c’è più alcun “nemico”. 
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it 

Nulla da eccepire, sul testo sopra riportato, penso si tratti di un tracciato chiaro, sulla personalità id Hannah Arendt, poi leggo un altro testo biografico, che mi sembra piuttosto una novella edulcorata, romantica, e poco aderente alla verità. Eccolo, ma che, per amore di giustizia, ritengo doveroso pubblicare.


MARTIN HEIDEGGER E HANNAH ARENDT
UN AMORE IMPOSSIBILE, TRA GRANDI FILOSOFI

di Dalia Fortini


Aveva diciotto anni Hannah Arendt quando partì per frequentare l’università di Malburgo, passioni e grandi speranze per il proprio futuro; aveva circa il doppio dei suoi anni Martin Heidegger il giorno in cui si innamorò perdutamente di lei durante un seminario tenuto da lui sul Sofista di Platone.

Due grandi pensatori, due personalità indispensabili nel panorama della filosofia contemporanea, che si lasciarono governare tra alti e bassi da un amore fatto di avvicinamenti e allontanamenti, continui problemi e sfide: la moglie di Heidegger, la seconda guerra mondiale, la vita coniugale della Arendt.

Cosa stregò l’uomo nel filosofo? E cosa la giovane ragazza che aveva già sentito parlare del carismatico insegnante? Disse la Arendt ormai anziana in uno dei suoi scritti, sulla sua gioventù: «La voce che girava diceva semplicemente: il pensiero è tornato a diventare vivo […] C’è un maestro, col quale si può forse imparare a pensare».

E probabilmente proprio questo irretì la ragazza quando di trovò a guardare il suo professore fare lezione lì all’università di Malburgo, dove Heidegger ottenne la cattedra, e proprio lui ricorderà poi nel 1950 lo sguardo che gli lanciò la Arendt, uno sguardo che solo gli innamorati possono lanciarsi. Qualcuno dice che fu colpo di fulmine.

Heidegger nel maggio del 1917 si era unito in matrimonio a Elfride Petri, prima con un rito cattolico, poi protestante. Elfride lo tradì in seguito e da una sua relazione extraconiugale nel 1920 nacque il secondo figlio di lei; con Heidegger aveva avuto il primo.

Nel 1924 timidamente la Arendt cercò il contatto con il suo professore a un ricevimento per studenti. E alla fine del semestre dell’anno Heidegger le fece arrivare una missiva: «Cara signorina Arendt! Questa sera devo tornare a farmi vivo con lei e a parlare al suo cuore. […] Io non potrò averla per me, ma lei apparterrà d’ora in poi alla mia vita, ed essa ne trarrà nuova linfa».

La moglie di Heidegger soffriva terribilmente per le attenzioni che suo marito riservava alle giovani studentesse, in particolare Hannah, che stregava con il suo fascino e la sua intelligenza suo marito. Fino al 1925 il filosofo tentò di frenare la catastrofe, entrambi infatti erano consapevoli che una relazione tra loro non doveva assolutamente iniziare. Era infatti distrutto quando scrisse: «Cara Hannah, il diavolo mi ha preso. […] Non mi era mai successa una cosa del genere».

E così iniziarono i primi incontri clandestini e ben nascosti, a colleghi e amici. La passione esplose, ma a lungo andare la Arendt rimase delusa dal suo professore, che non accennava a voler cambiare la situazione.

Era insopportabile per lei l’amore clandestino e le pesava non poterlo vivere senza paura. Così lo mise alle strette chiedendogli di rendere pubblica la loro relazione, ma lui non lo fece, e lei ebbe il coraggio di rompere la relazione.

Non gli lasciò il suo indirizzo e si trasferì a Heidelberg, dove si laureò sul tema dell’amore in Agostino, insieme a Jaspers, altro insigne pensatore. La cercò però nel 1927 e da Jaspers seppe che lei si era fidanzata. E così Heidegger rinunciò a lei. Nello stesso anno venne pubblicata l’opera più famosa di del filosofo, Essere e Tempo, che lo rese famosissimo in ambiente filosofico, con tanto di perplessità del maestro Husserl per il distacco definitivo dal suo pensiero.

Quello che successe poi divise i due definitivamente: Hannah Arendt si sposò con un suo amico, Gunther Stern. La madre la voleva sapere felice e sistemata con un uomo di buona famiglia. Scrisse Hannah nel 1928 al suo amore di sempre: «Ti amo come il primo giorno, tu lo sai e io l’ho sempre saputo, anche prima di questo nostro incontro».

Ma una più grande sciagura si abbatté su di loro: il nazismo. Hannah era ebrea, Martin tedesco. Il mistero che circonda Heidegger riguardo la sua adesione al nazionalsocialismo è ancora difficile da sbrogliare. C’è chi dice che lui abbia aderito, chi invece no. Di fatto sappiamo che inizialmente Heidegger aveva aderito al pensiero nazionalsocialista e che sperava di diventarne uno dei maggiori esponenti, ma poi qualcosa avvenne che minò le sue convinzioni e lui lasciò definitivamente quella strada pericolosa, o così pare. Nel frattempo la Arendt aveva chiesto il divorzio da suo marito: non l’aveva mai amato.

Scappò via insieme a sua madre, cercando la salvezza, e la trovò negli Stati Uniti d’America. «Siamo salvi» informava l’ex marito da Los Angeles nel 1941.

Ma lei tornò in Germania nel 1949. E ci fu un nuovo incontro con Heidegger. Scrisse in proposito Hannah a una sua amica: «Non si è affatto reso conto che è una storia di venticinque anni fa e che sono diciassette anni che non mi vede». L’incontro avvenne nel 1950; lei gli fece pervenire un biglietto in un albergo di Friburgo con scritto «Sono qui». Temeva il momento in cui si sarebbero rivisti, aveva paura. Heidegger si scapicollò per rivederla, l’aveva sempre voluta: «Quando l’inserviente mi ha annunciato il tuo nome […] era come se il tempo si fosse improvvisamente fermato».

La Arendt intervenne persino in sua difesa durante un processo in cui veniva accusato di aver favorito il regime nazista.

Ma Heidegger non lasciò mai sua moglie, né lei il suo secondo marito. Elfride comunque ebbe di nuovo paura della donna che un tempo aveva rubato il cuore dell’uomo che amava e non riuscì a consolarsi: Martin viveva un periodo difficile dopo la guerra, relegato, umiliato, solo. E ancora innamorato.

Riempì la sua Hannah di poesie e lettere. Prese un componimento a lui molto vicino e lo dedicò a lei: «La lontananza che ti tiene lontana da te stessa, com’è? È montagna di gioia, mare di dolore, il desolato deserto del desiderio, luce aurorale di un avvento».

E Hannah come reagiva? Era furiosa con l’uomo che le aveva insegnato ad amare. Scrisse infatti al suo secondo marito, Heinrich Blucher: «Stamattina c’è stato poi anche uno scontro con sua moglie: è da venticinque anni […] che gli rende la vita impossibile. E lui […] non ha evidentemente mai […] negato che questa nostra era stata la passione della sua vita».

Il nuovo marito era un confidente per la Arendt, non avrebbe saputo cosa fare senza di lui, anche se Blucher era anche esso coinvolto in una relazione amorosa con un’altra donna, ma sua moglie non ne sapeva niente, per lei lui era un punto di riferimento.

Rimane scolpita nella storia la mancanza di dedica dell’opera della Arendt, pubblicata nel 1960 in Germania con il titolo Vita Activa o Della vita attiva. In realtà specificò in una lettera a Heidegger che se le cose fossero state diverse l’avrebbe dedicata a lui e su quel libro ci sarebbe scritto il suo nome. «Ho rinunciato alla dedica di questo libro. Come potevo dedicarlo a te, mio intimo, a cui sono e non sono rimasta fedele, ma comunque, in entrambi i casi, amandoti».

Heidegger intanto aveva una relazione amorosa con una contessa, ed Elfride gli stava alle calcagna chiedendogli i motivi di quell’ennesimo tradimento. Lui la rassicurò dicendole che avrebbe soltanto dato benefici al loro rapporto. Forse in verità Elfride per lui era solo la donna che doveva crescere i suoi figli, mentre le altre tante amanti un modo per risvegliare il suo eros. Aveva sessantacinque anni, ma era sempre più stanco.

Tra Hannah e Martin però lo scambio di opinioni non venne mai meno. Da lui tornava una volta all’anno a volte due e insieme discutevano, si confrontavano, si scambiavano doni. Nel 1975 lei scrisse a una sua amica: «Ho visto Heidegger […] è stata una cosa alquanto triste. […] era stanco, ma non è questa la parola giusta; era lontano, irraggiungibile come non mai, come spento. […] Noi due, Elfride e io, abbiamo conversato un po’ e mi è sembrata davvero preoccupata e per niente ostile».
La Arendt morì all’improvviso poco dopo e Heidegger soltanto cinque mesi dopo di lei.
Così si concluse la loro storia.

Riferimenti bibliografici:

Antonia Grunemberg, Hannah Arendt e Martin Heidegger storia di un amore, Longanesi, Milano 2006.
Franco Volpi, Guida a Heidegger, Laterza, Roma 2012.

Concludo con un mio pensiero: pare davvero assurdo che una donna ebrea, che ha dovuto sfuggire alla persecuzione nazista, debba difendere Eichmann. Ma dobbiamo tener conto che lei in realtà studiò solo il comportamento di un uomo che è stato plagiato da un sistema, che gli ha annullato la volontà, che gli ha cancellato la coscienza. Quell'uomo non aveva più idee proprie, avendo abbracciato l'ideologia di un criminale.
Danila Oppio

venerdì, agosto 28

Lentamente muore

Lentamente muore (A Morte Devagar) è una poesia della scrittrice brasiliana Martha Medeiros, pubblicata per la prima volta nel 2000 sul quotidiano Zero Hora di Porto Alegre, in Brasile, ed è spesso erroneamente attribuita al poeta cileno Pablo Neruda


Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e chi non cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.


Lentamente muore
chi fa della televisione il suo guru.
Lentamente muore chi evita una passione,
chi preferisce il nero sul bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.


Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza
per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita,
di sfuggire dai consigli sensati.


Lentamente muore
chi non viaggia,
chi non fugge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in sé stesso.


Lentamente muore
chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare
Lentamente muore

chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.


Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare...


Ringrazio Anna Montella per avermi fatto conoscere questa splendida poesia