Le poesie esposte sono le seguenti:
Amalia Guglielminetti si racconta
È
stato il mio un destino un po’ beffardo,
rispecchiato
- forse - ne “Le vergini folli”
Fui infine già in vita
dimenticata e ne soffrivo
dagli storici della
letteratura che mi van citando
non per i miei meriti letterari,
ma a motivo
della mia intensa,
infelice relazione sentimentale
col di me più famoso
post-decadente Gozzano,
principe dei poeti crepuscolari,
mio re personale.
Disgraziatamente, ero
proprio il tipo di donna
che a Guido non piaceva:
nei famosi versi
de «La signorina
Felicita» forse da me ispirato
si fece beffe delle
“intellettuali gemebonde”,
che leggono Nietzsche e
trattano con baldanza,
dando la preferenza alle
donne semplici, convinto,
(anche quelle al limite
della più crassa ignoranza)
ma piene di buon senso e
di pratico istinto.
Dopo un romantico inizio,
imboccò il nostro rapporto
il piano inclinato del
rapido logoramento;
Guido cominciò a
negarsi, a latitare, m’impegnai
a inseguirlo, tentai per
lungo tempo d’afferrarlo
per la falda della
giacca, fatale errore, più l’uomo talloni
e più t’ignora; se ti
defili, il suo amore si rinsalda.
Ma io testarda, non volli
mai mollar la presa.
Glielo scrissi, poiché non
mi sarei facilmente arresa.
Tutto questo conduce ad
altri epistolari, dominati
da una tale sfasatura, e
da gran differenza di livelli
sui quali noi due
amanti-amici ci vedevamo collocati
come Abelardo ed Eloisa;
pur se nella loro relazione,
complici le drammatiche circostanze
esterne, se vale,
i fremiti passionali
finirono per placarsi, in superficie,
nella contemplazione di
un superiore distacco spirituale.
A me non riuscì tanto
facilmente: troppa affezione.
Le mie aspettative furono solo assurde astrazioni.
Fanno male i filosofi tutte
queste cose avversare,
nel ritenerle troppo
umili per le loro alte speculazioni;
e ancor peggio i palpiti
del cuore disprezzare.
Essi rivelano una nobile
tensione verso l’assoluto:
L’ho sperimentato sulla
mia scarna pelle,
e nei recessi più profondi
dell’alma mia imbelle
ché, purtroppo, molto
soffrì per il di lui gran rifiuto.
oooOooo
Parto
Parto
verso destino ignoto
il peso sulle spalle
duro da sopportare
Cara mia terra addio.
Parto
come vagabonda
svuotata d’ogni bene
Unico capitale
la sorda sofferenza.
Parto
procedendo senza meta
lungo un percorso impervio
sullo sfondo nessun porto
che mi dia vero conforto.
Parto
Un viaggio senza ritorno
alle mie spalle l’Africa
la fame sete e arsura
ed ogni familiare affetto
Parto
Non porto con me rancore
pur se dentro l’anima
v’è una piaga di dolore
lacerante e purulenta
Parto
Non so dire dove sbarco
in quest’oceano in
tempesta
la mia barca affonderà
Con una breccia al fianco
E nella fitta nebbia
nomade
che cela l’orizzonte, con
l’anima
infranta, navigo come
veliero
fantasma privo di rotta.
oooOooo
Poetesse arrabbiate
(Dedicata a tutte le donne offese nel corpo e
nell’anima)
Fulgide
essenze le donne
A lievi e
decisi passi sortite
Da
un’assemblea di fate
In
combattenti trasformate
Mascherate
da miti sorrisi
Quelle
sofferenze appese
Su nodosi
rami contorti
Da gravi
impietose offese
Cantano di
donne violate
Uccise da
amori falsati
Bruciate da
quei fidanzati
Calpestate,
poi annientate.
Cantano,
come usignoli
Rinchiusi
in dorata gabbia
Invocando
libertà e giustizia
Con grida
furiose di rabbia.
Cancellato
ormai il tempo
Sdolcinato,
tra rose e viole
Gli amari
versi gridati
Squarciano
le loro gole.
Vergognati,
lurido verme
Deciso a
strappare alla vita
Distrutta,
lasciata inerme
Lei, che hai
detto d’amare.
Armate di
penna e di versi
Agguerrite
da energico piglio
A lottare
per difender la vita
Donne non
più allo sbaraglio.
Basta con
violenze e soprusi
Siate
uomini e non animali
Non più
assoggettate ad abusi
Onoratele
come fossero altari.
oooOooo
L’incubo di una notte
(donne che
fuggono dalla guerra)
Passò lungo la strada che si snodava
Simile a sciarpa intrisa di sangue liquefatto
la giovane donna dal vestito scarlatto.
I piedi nudi calpestavano pietre
conformi all’umana raccolta
di catastrofi,
imprevedibili e tetre.
Un puledro le trotterellava accanto,
come uscito dall’Apocalisse di Dürer.
Teneva il passo, stremato, al suo fianco.
Camminava nella notte, avviluppata
dalla stanchezza avvolta in sudario,
sconvolta, ferita, insanguinata.
Intravedevo del fango il fluire grottesco
nella luce violenta, bagliori di fuoco
fendevano il buio Caravaggesco.
D’improvviso s’aprì un giorno limpido
D’una chiarità tagliente, il vento le sferzò
il volto tumefatto, lo guardo liquido.
Sopra di lei, nell’angelico cielo trasparente,
vagavano, alla deriva, nuvole effimere,
e correva veloce, come Furia splendente.
Mi desto. La luce sporca del mattino
batte sul mio viso unto d’insonnia
Un pensiero cupo mi sfiora molesto.
La vita è un azzardo avvolto nel mistero.
Dovrei scrivere forse un trattato
sulla disperazione delle cose. Ma è vero?
Rappresenta il sogno uno degli enigmi
più irrisolti della umana abominazione,
capace di sopravvivere alla dannazione?
oooOooo
Delicate suggestioni
(col cuore in Syria)
Danza scalza
Avvolta da impalpabili
veli.
i piccoli piedi posati su intrecci
di tappeti afshar delicati.
Amuleti preziosi
tintinnano
ai suoi polsi diafani
e cavigliere d’oro
come il pizzicar di
cembali.
Profumi d’oriente
ambra, nardo e sandalo
aleggiano nell’aria dolce
della sera aleppina.
Danza scalza
Come sospesa in un cielo
di cobalto, ora come
allora
in un assoluto incanto.
Sultani dai volti estatici
con cenni d’assenso
l’incitano a volteggiare
mentre bruciano incenso.
Danza scalza
Rapita dal loro sguardo
di diopside stellato
li asseconda smarrita.
Il sogno d’improvviso si dissolve
coi piedi insanguinati s’incammina
lungo le vie di Haleb devastata
dalla feroce guerra intestina.
oooOooo
Effluvi dal passato
In
campagna la fragranza dell’erba
da poco
falciata stesa a riposare
su
covoni di fieno al sole essiccato,
a
piluccare acini verdi d’uva acerba
così
aspra e acidula da far salivare.
La
lingua lambendo - gattino ferito -
il
gusto ferroso del sangue sortito
da
piccoli graffi, ustioni da fuoco,
unito
al sale dei lacrimoni amari
a
cagione d’un imprudente gioco.
Cola
sull’abitino il mieloso succo
di more
colte dai rami di gelso
a
ombreggiare l’assolata strada
coperta
di polvere simile a gesso.
Andar a
piedi, sotto raggi roventi
sull’umida
pelle il sudore a stille.
Odorare
il fresco profumo dell’aria
all’apparire
delle prime timide stelle.
Efffluvi
e sapori emersi dai meandri
della
mia storia, negli anni risucchiati
nel
gorgo del Tempo, quali naufraghi
d’un’onda
anomala, di colpo riversati
sulla
bianca spiaggia della Memoria.
Danila Oppio