POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

martedì, dicembre 28

STORIE GIROVAGHE - NUOVA VERSIONE di DANILA OPPIO

 





Dopo molte trattative con Amazon Self Publishing, finalmente sono riuscita a far inserire la numerazione delle pagine del libro, e correggere qualche piccolo refuso. 
Questo libro contiene 78 racconti e qualche ironico libello. 

Introduzione dell’autore
STORIE GIROVAGHE è una parziale raccolta di racconti o di testi in prosa, cui ho voluto dare questo titolo, perché i miei scritti hanno partecipato a vari concorsi in gran parte dell’Italia ottenendo, alcuni, buoni risultati. Altri vagano in rete, in qualche blog, e in molte antologie di AA.VV. Ho scelto solo una piccola parte, quella che mi piaceva raccogliere in un libro, così da averla riunita. Un certo numero l’ho dovuto trascurare, perché ne sarebbe uscito un volume enorme. Il testo inizia con un mio tautogramma in versi, che forma il titolo Storie Vagabonde; il motivo per cui invece ho scelto per il libro il titolo “Storie Girovaghe” è che esiste già un sito con la dicitura “Storie Vagabonde”. Pur trattandosi di prosa, mi sono voluta riallacciare, come “incipit”, a un sonetto del Petrarca: “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”, cui potremmo dare una rilettura in “Voi c’ascoltate in prose sparse il suono”. La mia poesia vuol essere la “madrina” dei miei racconti. Buona lettura!
Il libro è acquistabile  a questo link:


lunedì, dicembre 27

IL PASSAPORTO SCADUTO E LE SALDATURE DI JEAN - di P. MAURO ARMANINO



Il passaporto scaduto e le saldature di Jean

Non sembra ma dieci anni passano in fretta. Avevo ottenuto il passaporto un paio di mesi prima di partire alla volta del Niger. Chi avrebbe mai immaginato di vivere una decade nel Paese, dove ero sbarcato il mese di aprile del 2011. La data di scadenza del documento è stata ampiamente superata. Il solo documento valido attualmente in mio possesso è il permesso di soggiorno, rinnovabile ogni anno a determinate condizioni. La mia libera mobilità si trova di colpo mortalmente colpita: senza un passaporto valido è impossibile viaggiare regolarmente ad di fuori del Paese. Ma anche all’interno del Paese, da tempo ormai, è complicato spostarsi liberamente per chi ha una nazionalità ‘occidentale’ o si trova ad avere un altro colore. La storia è strana davvero, ci sono corsi e ricorsi e avvenimenti non programmati che fanno sorridere persino la sabbia, notoriamente abituata al detto che tutto cambi perché niente, in fondo, cambi.

Nascere in un Paese o in un altro non è affatto innocente. Il luogo, oltre le retoriche del mondo villaggio e della sedicente globalizzazione che tutto avrebbe normalizzato’, conserva un’importanza cruciale per la vita reale di una persona. La speranza di vita, la cultura, l’affiliazione religiosa, l’educazione, le opportunità di lavoro, le prospettive matrimoniali, i viaggi e in genere la qualità della vita sono legate al fattore geografico fin dalla nascita. Casualità, causalità, imponderabile lotteria senza numeri preferenziali, provvidenza divina o semplice e indiscutibile destino segnato. Tutto questo e molto altro ancora, per riconoscere e accettare che la porzione di terra nella quale si è nati deciderà molto del nostro futuro. Anche la mobilità, dunque, sarà in funzione del luogo nel quale il documento di viaggio del cittadino è stato confezionato. La nazionalità allora aprirà o fermerà le frontiere di transito o di destinazione del cittadino. 

Per le nazionalità, che i più ricchi possono comprare, è stato stilata la classifica dei Paesi a seconda della qualità delle nazionalità che permettono, ai loro detentori, di muoversi con maggiore o minore facilità nel mondo. Il rapporto in questione, pubblicato l’anno scorso, suddivide i Paesi in cinque liste a seconda dei parametri interni, legati alle possibilità economiche, allo sviluppo umano, alla pace e la stabilità. Ci sono poi i parametri esterni, quali la facilità a ottenere i visti necessari e le condizioni per stabilirsi nel Paese. Il documento organizza i Paesi del mondo in categorie che variano dalla più alta alla meno alta qualità. Il grafico, opportunamente colorato, rappresenta il passaggio dai più ai meno qualificati in termini di nazionalità. Nel Nord del Mondo, senza sorpresa, appare la più marcata e pregiata nazionalità. L’Africa è classificata nella zona di ‘bassa qualità’ con l’area orientale e centrale al suo interno, di bassissima qualità.

Anche per questo Jean ha abbandonato sei mesi or sono il nativo Camerun perché non poteva pagarsi la macchina saldatrice. Ed è per comprarne una nuova che voleva raggiungere la Spagna passando dal Marocco. Attraversata la Nigeria approda a Cotonou nel Benin e per pagarsi la tappa seguente lavora come ‘manicure’, poi a Malanville carica barre di ferro sui camion e a Dosso nel Niger, per lo stesso motivo, fabbrica pane e dolci. A Niamey la capitale è imbrogliato e derubato del passaporto, dei soldi, dello zaino, del cellulare e del progetto di continuare il viaggio. Da una settimana deve giustificare la sua nazionalità e ricorda solo il numero ‘whatsapp’ della sorella minore rimasta nel Paese.  Suo padre è morto nell’infanzia e sua madre invece è deceduta da due mesi. Jean ha 24 anni e possiede tutto il tempo per saldare i conti con la sua vita. Il mio passaporto, invece, è scaduto dal passato mese di febbraio ed è solo la sabbia del Niger che, nella complicità, mi ha offerto un permesso di soggiorno, rinnovabile.


      Mauro Armanino, Niamey, 26 dicembre 2021


giovedì, dicembre 23

IL NATALE DEL PIANETA di RENATA RUSCA ZARGAR


IL NATALE DEL PIANETA


Il Pianeta Terra non aveva tempo di fermarsi un momento.

Un po’  doveva girare su se stesso, un po’ intorno al Sole, poi, c’erano la rotazione del suo asse che gli sembrava di essere una trottola e, recentemente, aveva persino saputo dagli scienziati che l’Universo si stava espandendo trainando il sistema solare con sé come l’uvetta in un panettone che lievita!

Tutte questioni complicate.

Meno male che almeno lei, la Luna, non creava confusione: sorrideva sempre, mentre transitava intorno con quel suo faccione rotondo, come al solito.

Ultimamente, però, le cose non andavano bene.

Gli esseri umani si erano moltiplicati strepitosamente: negli ultimi trent’anni erano addirittura raddoppiati.

E non bastava! Avevano sporcato  l’ambiente, riempito l’atmosfera di fumo nero, lordato l’acqua con scarichi e immondizia, sterminato animali e piante…

- Dai, non te la prendere. -  consolava la Luna, mentre illuminava quel Pianeta a cui era affezionata da tempo immemorabile - Vedrai che gli umani faranno pulizia e sistemeranno tutto.

- Figurati! Sono degli sconsiderati. Se guardi bene, persino nei Mari e negli Oceani ci sono intere isole di plastica gettata via avventatamente che né il sale né le onde possenti riescono a eliminare! A causa del loro lerciume, poi, i virus imperano ovunque e  neppure io riesco più a combatterli.  Come non posso arginare gli sconvolgenti alluvioni, uragani,  tempeste… -

Il Pianeta era davvero stanco, non ce la faceva più a sopportare tanta gente maleducata e senza rispetto che aveva ridotto i suoi ammalianti paesaggi a una vera e propria discarica.

Un giorno o l’altro, si sarebbe lasciato cadere in un buco nero o si sarebbe avvicinato al Sole facendo friggere tutto quanto!

La Luna non sapeva più cosa rispondere e gli inviava ogni notte solo  un tenero abbraccio di luce.

Una mattina, però, la Terra aveva notato un considerevole gruppo di persone che si erano riunite per discutere del futuro dell’ambiente. Molti, specialmente i giovani, erano allarmati per i cambiamenti climatici. I ghiacciai perenni, difatti, si scioglievano, i mari si alzavano sommergendo terre popolose, venti furiosi trascinavano via case e abitanti generando onde gigantesche che invadevano paesi e città. Il surriscaldamento del Pianeta causato dall’inquinamento, dall’uso dei combustibili fossili, dallo spreco delle risorse, stava mettendo a rischio la stessa razza umana.  Tutto questo era scritto su tanti cartelli e striscioni ripresi dalle televisioni mentre bocche consapevoli di ragazzi e ragazze urlavano al mondo intero.

- Finalmente, hanno capito! - meditava la cara Terra - Forse, i miei inquilini cambieranno, prima che sia definitivamente troppo tardi!

- Vedi che avevo ragione! - confermava il raggio arancio della Luna.

Non si sa, però, se i grandi magnati, quelli che governavano il mondo senza preoccuparsi della povera gente, avevano davvero deciso di correggere la rotta e di rimediare ai disastri.

Certo è che poco tempo dopo quelle giornate di studio e di protesta, era sopraggiunto il periodo del Natale: una festa sacra per un terzo degli abitanti del Pianeta. Un’importante occasione, dunque, per celebrare la nascita di Gesù che era venuto, molti secoli prima, a salvare l’umanità.

Per ricordare quell’evento miracoloso, allora, si tenevano ovunque luci accese di giorno e di notte: colorate, intermittenti, sui balconi, alle finestre, nelle strade; mentre gli alberi, tagliati via dalle foreste e trascinati in città,  si slanciavano addobbati e luminosi verso il cielo. Numerose auto, poi, giravano senza posa per condurre ogni persona a comprare regali spesso inutili, incartati e infiocchettati a festa. Il povero Pianeta, in pochi giorni, sarebbe stato ancora più puzzolente e ingombro di spazzatura.

Era solo spreco, tanto spreco.

- Non meritano nulla questi popoli! -aveva concluso, infine, la Terra, mentre le sue lacrime di dolore scivolavano via nello spazio.

Quell’anno avrebbe potuto essere una prima occasione di evitare inutile dissipazione di energia per cominciare, almeno dal poco, a cambiare vita e custodire se stessi e quanto avuto in dono.   

Un tempo lontano, infatti, Gesù era venuto in una stalla; non possedeva nulla se non un grande sogno: portare il Bene sulla Terra. La rievocazione più giusta sarebbe stata la gioia chiusa nel proprio cuore, la felicità di aiutare chi aveva meno, scaldare chi aveva freddo, accogliere chi soffriva. Invece no.  Come al solito, chi aveva già tutto poteva bere e mangiare persino fino a stare male.  Chi non aveva nulla, invece, continuava a essere rifiutato da tutti, rimaneva nella neve e nel ghiaccio a patire.

- È tutto vano, dunque. Gli umani sono incorreggibili. -   

Neppure la Luna aveva più la forza di obiettare perché, questa volta, la Terra aveva proprio ragione.

Gesù, però, dall’alto di una stella ascoltava quei pensieri. I corpi celesti erano arrabbiati e delusi! E non a torto. Uomini e donne sembravano talmente ciechi ed egoisti da non accorgersi del precipizio che avevano imboccato. Certo, non tutti. Molti si impegnavano, denunciavano i problemi, lottavano per il Bene. Ma non contavano nulla.

Dunque, il momento era giunto.

Sarebbe sceso di nuovo sulla Terra.

Forse, in un barcone, forse, in un villaggio senza acqua né elettricità, forse, al confine spinato nel freddo tra quelli che nessuno voleva, forse, in una prigione insieme alle vittime di uno dei tanti crudeli dittatori o, addirittura, sotto i cartoni dove dormivano gli esclusi agli angoli delle vie.

- Chissà se lo riconosceranno. - rifletteva ancora il nostro Pianeta – Chissà se accoglieranno un bimbo abbandonato invece di chiudere gli occhi del cuore e limitarsi ad addobbare uno splendente albero di Natale. Chissà se riusciranno a trovare la forza di mutare davvero. -

Intanto, rivolgendo anch’esso un’accorata preghiera, continuava, per il momento, a girare.

Renata Rusca Zargar

martedì, dicembre 21

LA PICCINA DEI FIAMMIFERI di RENATA RUSCA ZARGAR




LA PICCINA DEI FIAMMIFERI


Mohmad cammina lentamente lungo i vicoli del centro storico della città, caricando sulle spalle le lenzuola da vendere e due borse zeppe di accendini, fazzoletti di carta, stracci, portachiavi e mollette. Si guarda intorno, alla ricerca di qualche possibile cliente. Da qualche giorno, le vie sono tutte illuminate a festa, le vetrine dei negozi sono più ricche del solito e la gente, forse, sembra più allegra. Mohmad è in Italia da otto mesi e abita in una stanzetta insieme ad altri sette uomini provenienti, come lui, dall’India. Là, nel suo paese, non si festeggia il Natale ma, per la gente musulmana come lui, si onora il ricordo del sacrificio richiesto ad Abramo e la fine del sacro mese di digiuno del Ramadan. Allora molte famiglie uccidono gli agnelli e offrono poi la loro carne a tutti gli abitanti poveri del quartiere. Gli amici si scambiano regali e dopo si ritrovano, tutti insieme, spalla contro spalla, a pregare alla moschea. - Allah-u-akbar, Allah-u-akbar! Dio è grande, Dio è grande! - pronunciano molte volte, portando la fronte a terra. Solo le donne rimangono in casa a cucinare per tutti piatti prelibati e, nell’aria, si sparge, con l’odore delle spezie e della carne arrostita, il profumo della gioia e della speranza che Dio possa concedere, forse, al suo popolo, qualcosa in più. A Mohmad piacciono tanto anche le feste indu che si celebrano anch’esse al suo paese, come quella di Diwali (1), o festa delle luci. In quel periodo, ogni luce, ogni lumino, ogni lampada, viene accesa in onore della venuta della dea Lakshmi sulla terra, come per rischiararle il cammino in modo che ogni casa, ogni villaggio, ogni capanna sparsa nella foresta, possa essere visitata dalla dea portatrice di abbondanza e prosperità. Tutte le porte sono lasciate aperte alla dea della fortuna e prosperità. E poi c’è l’Holi (2), la festa dei colori, che segna il passaggio dall’inverno alla primavera. La gente si spruzza reciprocamente con acqua mista a polvere di colori ed è incredibile vedere come le persone si trasformino in maschere imbrattate, in pupazzi dalle mille tinte dell’arcobaleno! Anche quelli sono momenti pieni di gioia, che aprono il cuore alla fede, ricordando e glorificando Dio.
Mohmad sorride al ricordo. Che bello il suo paesino, che gioia poter vivere là, in quel minuscolo villaggio non lontano dalle dune sabbiose di Khuri, a 50 km da Jaisalmer, nel Rajastan. Eppure non c’è l’acqua potabile e neppure arriva l’elettricità: la gente raccoglie l’acqua piovana nei pozzi dove poi va ad attingere per tutta la stagione secca, sperando che possa bastare.
Qualcuno riesce a trovare lavoro a Jaisalmer come muratore od operaio e molti, purtroppo, sono costretti a emigrare. Fino a un anno fa, invece, Mohmad era occupato in una manifattura di vasi in marmo di Agra intarsiati in oro e pietre dure, così come aveva fatto suo padre prima di lui. Ma, improvvisamente, era stato licenziato per esubero di personale, o almeno era questo ciò che gli avevano detto. Poco tempo dopo, aveva conosciuto un uomo che, in cambio di parecchio denaro, l’aveva aiutato ad arrivare in Italia e qui un altro uomo gli consegnava la merce al mattino e ritirava gli incassi la sera, trattenendone, però, una consistente parte per sé.
Al villaggio, era la luce del tramonto nel deserto che gli feriva il cuore, erano rimaste la moglie e quattro figlie che da allora non aveva più visto, né sentito. Ma lui non sapeva scrivere, né loro sapevano leggere, e là non era arrivato neppure il telefono.
- Tu sei ricco, ormai - gli avrebbero detto i suoi parenti e i vicini quando, un giorno, fosse tornato a casa - sei stato in Europa dove il denaro non manca! Non avrai più, come noi, tanti problemi da risolvere.
Il freddo della sera pungeva i suoi pensieri; laggiù, al paese, nessuno sapeva che lui non aveva denaro, né una casa, né del cibo soddisfacente, così come succedeva a molti altri, in Europa! Laggiù credevano ancora che il mondo fosse come quello che, qualche volta, qualcuno captava in città dalle scintillanti immagini della tivù!
Mohmad tossiva spesso e aveva notato che, ogni tanto, durante gli accessi, un grumo di sangue gli veniva alla bocca. - Devo andare da un medico -pensava - e appena avrò un po’ di tempo, lo farò.
Frattanto, assorto nelle sue considerazioni, era entrato in uno dei luminosi negozi della via. Il titolare, un uomo dall’apparenza gentile e affabile, era assai indaffarato a confezionare pacchi per alcuni compratori. All’apparire di Mohmad, un lampo di fastidio gli aveva attraversato lo sguardo, ma subito lo aveva nascosto sotto la solita maschera inalterabile per non turbare, soprattutto davanti ai suoi clienti, l’atmosfera gaia della città. Frettolosamente, aveva comprato un pacco di fazzoletti di carta e l’aveva mandato via, per non perdere tempo.
Mohmad si era infilato in un portone e aveva suonato il campanello di una porta. Una donna ancora giovane, dai capelli biondi e corti, l’aveva fatto entrare e accomodare nel soggiorno dove un uomo magro, consumato da una terribile malattia, si riposava, sdraiato su di un divano. Il venditore aveva mostrato le sue lenzuola e la coppia ne aveva acquistato un paio. L’appartamento, dalla temperatura tiepida, era molto accogliente; in un angolo era stato allestito anche un albero di Natale meravigliosamente verde, carico di palline scintillanti, strisce, luci che si accendevano e spegnevano ritmicamente... Eppure tutto era desolatamente triste.  Nonostante ciò, i due gli avevano offerto un dolce e una bevanda calda.
Tornato in strada, un attacco di tosse l’aveva colto all’improvviso, così che si era appoggiato, ansimante, al muro. Ormai era buio e, filtrata dai vetri, una voce narrava: “Forse un fiammifero acceso le avrebbe dato un po’ di sollievo... la piccina ne trasse uno da una scatola e lo accese: come scoppiettò! Come bruciò! Mandò una fiamma chiara e calda come una piccola candela, fiamma che la bambina cercò di parare con la sua mano. Che luce strana! Alla piccina sembrò di trovarsi seduta davanti a una grande stufa di ferro, che spandeva attorno un dolcissimo tepore. La bambina stese le gambe verso quella stufa, pregustando la gioia che le avrebbe dato quella fiamma col suo calore...”
 - Ancora, ancora, mamma,- interveniva un’altra piccola voce - ti prego, raccontami ancora la favola!- “Quando cade una stella, un’anima sale a Dio. Subito, la piccola strofinò un altro fiammifero, che si accese al pari degli altri e mandò subito un chiarore tenue all’intorno: e in quel chiarore la povera piccina vide la sua Nonna, la sua vecchia Nonna, che le sorrideva tutta raggiante, mite e buona... (3)”
Mohmad era rimasto incantato ad ascoltare, anche se non comprendeva completamente il significato di tutte le parole. Poi, passo passo, si era avviato verso la stanzetta gelida dove dormiva.

Oggi è la vigilia di Natale.
Tutti sono affaccendati nei preparativi. Le donne vanno a fare la spesa: carne, verdura, formaggio, sacchetti e sacchetti di merci varie vengono introdotti nelle case, nei portoni, negli ascensori, su dalle scale... I ritardatari si affannano alla ricerca degli ultimi regali e, in ogni negozio, ci sono acquirenti in attesa. Ma tutti hanno fretta. Oggi non è più facile del solito vendere sulla strada anche se qualcuno, ogni tanto, allunga a Mohmad qualche banconota di carta. Tutti sono più buoni a Natale.
Il freddo gli entra nelle ossa e gli dà i brividi. Al suo villaggio non aveva mai conosciuto la neve, né una temperatura così bassa. Allora, quando partiva al mattino da casa per recarsi al lavoro, i figli lo salutavano schiamazzando e sua moglie chiudeva il velo colorato per accomiatarsi da lui sulla porta. Quando rientrava, la sera, sentiva già nell’aria il sentore del riso cotto nella pentola sul fuoco, vedeva i panni stesi ad asciugare sull’aia e un balenio dolce negli occhi che sua moglie abbassava in fretta.
Mohmad sapeva che alcuni suoi compagni, uomini soli e lontani dalla famiglia per mesi, a volte per anni, desideravano la compagnia di una donna. Ma lui no. Non avrebbe mai diviso il suo letto e il suo cuore con nessun’altra, neppure per un breve momento. Fatima, la prima e unica donna della sua vita, teneva stretto in pugno il suo amore, anche se il suo corpo non era più quello di un tempo e la vita, a poco a poco, le aveva appannato quella bellezza che l’aveva conquistato, da quando era entrata nella sua casa. Dal giorno del fidanzamento, infatti, aveva dovuto attendere parecchi mesi prima di celebrare il matrimonio e conoscere la sposa che suo padre aveva scelto per lui. Rammentando l’istante in cui, finalmente, aveva potuto togliere i veli a Fatima e osservare il rossore sulle guance dalla pelle di pesca, il cuore gli saltava ancora alla gola. Poi, anno dopo anno, erano venuti la condivisione del cammino della vita, i figli, le difficoltà, le soddisfazioni, che l’avevano legato a lei indissolubilmente.
Dalla mattina, Mohmad ha mangiato solo un panino perché questa sera dovrà pagare l’affitto della miserabile stanzetta e ancora non ha guadagnato tutto il denaro necessario. La notte della buona novella sta scendendo sulla città. Una a una, le serrande dei negozi vengono abbassate, i passanti si scambiano gli ultimi saluti e auguri.
- Che farai domani?-
-Mangeremo tutti insieme, con i genitori, i miei fratelli e le mie sorelle. - risponde un altro.
Mohmad si risovviene dei fratelli e delle sorelle al villaggio (la madre e il padre non ci sono più) e dei suoi bambini. Forse, tra qualche tempo, per la festa di Eid, al termine del mese di digiuno e di preghiera di Ramadan, potrà tornare a vederli per qualche giorno. Quasi senza pensare, si siede nell’antro buio di un portone. “Accese subito un altro fiammifero.” La favola ascoltata pochi giorni prima balza di nuovo alla sua mente. “Anche questo bruciò, fece luce e il muro divenne come trasparente, nel punto rischiarato dalla fiammella del fiammifero. La bambina vide subito una stanza, dove era una tavola apparecchiata con una tovaglia di un bianco abbagliante e con finissime porcellane; nel mezzo della tavola, su un piatto ornato di fiori, fumava una magnifica oca arrostita, tutta ripiena di mele cotte e prugne.” Nella sua borsa non ci sono fiammiferi ma solo accendini e, prendendone uno, ne fa scattare la fiamma. Chissà come sarà, domani, la tavola di quel negoziante che gli ha comprato i fazzoletti di carta... La tovaglia candida di bucato, l’albero di Natale con le luci intermittenti in un angolo della stanza, i piatti fumanti provenienti dalla cucina: gli pare quasi di vedere tutto e persino di sentire le urla entusiaste dei bambini che scartano i pacchetti uno a uno.
I suoi bambini, invece, non hanno mai avuto pacchi con la carta lucida colorata e i fiocchi rossi.
Ma, nell’alone caldo dell’accendino, ogni sogno può diventare realtà e si può credere anche che, al limitare del deserto, dove non c’è acqua corrente ed elettricità, possa, un giorno, arrivare la slitta di Babbo Natale!
Mohmad abbandona la testa sulla spalla mentre il gelo avanza rapido dentro il suo corpo. Ecco, ora tutto questo è passato. Lassù, tra le nuvole, gli sembra di riconoscere quell’uomo che aveva visto sdraiato sul divano. Sì, forse, è proprio lui, ma non c’è più tristezza sul suo volto quando gli tende la mano. Stanno volando insieme verso la felicità.
 Ormai è Natale, il compleanno di Gesù, e se lassù, nel firmamento, ci sarà un banchetto, saranno loro gli invitati speciali.
Molto più in basso, sulla terra, invece, c’è ancora, come sempre, da secoli e secoli, chi ride e chi piange.

Renata Rusca Zargar


(1)È la festa più importante, detta anche Capodanno indiano, che cade negli ultimi due giorni della luna nera del mese di kartik (ottobre-novembre), e dura tre giorni. Si onora Lakshmi, la dea dell'abbondanza, della luce, della saggezza e del destino, della fortuna, della bellezza e della fertilità. Il saggio Durvasa donò a Indra, re dei Deva, una ghirlanda di fiori che non sarebbero mai appassiti; Indra diede la ghirlanda al suo elefante sacro, Airavata. Quando Durvasa vide l'elefante calpestare la ghirlanda maledisse Indra, e desiderò che tutti gli dei perdessero il potere che li aveva resi altezzosi e irrispettosi. Naturalmente, grazie alla maledizione, gli Asura, da sempre in lotta con i Deva, riuscirono a scacciarli dal cielo; gli Dei sconfitti si rifugiarono dal Creatore Brahma, che chiese a Deva e Asura di zangolare l'oceano di latte per ottenerne il nettare dell'immortalità. Gli Dei allora chiesero l'aiuto di Vizzu, che prese le sembianze della tartaruga Kurma e fornì la base per sostenere il monte Mandara, che fu usato come bastone, mentre il re dei Naga, Vasuki, fece da corda. Tra i tesori divini apparsi dalla zangolatura dell'oceano di latte, ci fu anche Lakshmi, che scelse subito Vizzu come compagno in quanto l'unico in grado di controllare la māyā (illusione).
In conseguenza di queste origini, Lakshmi è detta anche figlia del mare e sorella della luna, anch'essa apparsa dalla zangolatura.  
Durante il Divali, nel sud India, alle quattro del mattino, gli hindu si lavano, si cospargono il corpo di olio profumato al gelsomino e indossano vestiti nuovi; è diffusa l'usanza di scambiarsi abiti, sari e doti; anche i datori di lavoro, in questi giorni, regalano vestiti ai propri dipendenti. 
Nel nord, invece, i commercianti ne approfittano per iniziare i nuovi libri contabili e pregano la Dea per il successo e la prosperità della loro attività. Ma, dappertutto, tanta luce, file e file di lumi si accendono davanti alle case, scorrono nei fiumi, illuminano i templi. Le migliori illuminazioni si possono ammirare nel famoso tempio d'oro di Amritsar, dove migliaia di lucine vengono accese sui gradini della grande vasca del tempio, ma ogni tempio dell'India, come Tanjore, Tiruvannamalai, Madurai, è scintillante di lampade di tutti i tipi.

(2) L'origine dell'Holi festival si perde in diverse leggende della mitologia indiana. Le prime testimonianze di cui si ha notizia si trovano incise su una pietra ritrovata a Ramgarh nella provincia  di Vindhya e risalgono al 300 avanti Cristo. I significati simbolici di questa sorta di carnevale della Primavera sono molteplici, legati alla stagione della rinascita del rinnovamento, alla fertilità che nelle tradizioni contadine chiedeva buoni raccolti e salute per gli animali, alla vittoria del bene sul male. Nella tradizione della medicina ayurvedica infine, l’uso del colore è una vera terapia e la gioiosità mista a goliardia che deriva dai giochi con i colori  costituisce per la psiche e l’umore una innegabile fonte di buon umore e ben essere.  

(3) Brani tratti da: Andersen, Grimm, Perrault “La piccina dei fiammiferi” Armando Curcio Editore 

domenica, dicembre 19

VOLTIAMO PAGINA di PADRE MAURO ARMANINO



Dipinto di Maristella Angeli
Voltiamo pagina

Cambiare non è poi così difficile come potrebbe sembrare a prima vista. Basta girare la pagina del quaderno sul quale sembra scritta già la nostra storia. Interrompere il flusso, apparentemente determinato, di fatti, eventi e situazioni è possibile. Voltare pagina significa imprimere un futuro differente alla narrazione dominante del presente. L’irruzione dell’inedito destabilizza piani, progetti, usi e costumi ritenuti fino a allora inespugnabili. Il nostro tempo che appare ‘normalizzato’ e per così dire ‘predestinato’, è invece marcato da reazioni, sussulti e ribellioni che, a modo loro, vorrebbero girare la pagina della normalità. Le democrazie autoritarie o totalitarie che spuntano ovunque, sono l’espressione del maldestro tentativo di perpetuare un presente che ha tradito il passato e smarrito il futuro. Voltare pagina significa credere fattibile un mondo altro. ‘Un mondo di proteste’ è il titolo di un libro, uscito da poco, che elenca e classifica chi ha cercato di voltare pagina. I primi vent’anni del nostro millennio hanno visto crescere le proteste.
Dall’Africa all’Europa, dall’America all’Asia, c’è gente che, dalla strada, ha chiesto democrazia effettiva, lavoro, servizi sociali di migliore qualità, diritti civili, giustizia sociale e la fine di abusi, corruzione e austerità, tra molte altre rivendicazioni. Ciò che hanno in comune le citate proteste è il fallimento della democrazia e dello sviluppo enomico e sociale, unite nella sfiducia dei processi politici attuali. Il libro citato presenta il risultato dell’analisi delle proteste effettuate tra il 2013 e il 2020, e sottolinea come prevalente la dimensione politica delle manifestazioni. Esse hanno avuto luogo in almeno 101 Paesi e hanno attraversato frontiere. La domanda di protesta prevalente nel periodo 2006-2020 è stata quella di chiedere l’esercizio di una democrazia ‘reale’. Anche a Niamey, così come in altre capitali del Sahel, ci sono stati tentativi di girare la pagina. Non sono mancate le manifestazioni di protesta legate, in modo diretto o meno, a quanto il rapporto sottolineava e cioè la pratica di una democrazia sinceramente popolare. 
Cambiare non è poi così facile come potrebbe sembrare a prima vista. Le democrazie attuali, tropicalizzate, autoritarie o totalitarie, possiedono un arsenale di misure volte a dissuadere chi vorrebbe, impunemente, girare la pagina. Controlli e azioni preventive sui militanti considerati pericolosi, uso sproporzionato di forze armate, gas lacrimogeni, arresti arbitrari a domicilio o sulla strada e, soprattutto, l’uso della repressione come sistema di controllo sociale. La colonizzazione delle menti va di pari passo con l’addomesticamento (passivo o attivo) della giustizia, unico baluardo contro gli abusi senza limite della hybris (arroganza) del potere. Eppure, con tutto questo, voltare pagina è necessario e doveroso per chi crede che la vita non è un problema da risolvere, un mistero da scoprire e un’avventura da rischiare. Ogni bimbo che nasce in questo mondo arriva con in mano un foglio non scritto chiamato speranza.

          Mauro Armanino, Niamey, Natale 2021

Ho scelto di illustrare la lettera di Padre Armanino con un dipinto della brava pittrice Maristella Angeli di Macerata. E terminare con il mio personale augurio per questo Natale, di disegni e poesia da me realizzati anni fa, a Padre Mauro, alla SMA tutta e a tutti coloro che seguono quanto accade a Niamey.


sabato, dicembre 18

LA SEDUTA SPIRITICA di RENATA RUSCA ZARGAR

 



LA SEDUTA SPIRITICA


Maria, accompagnata dalla sorella Pina, era entrata nell’elegante negozio di cappelli che si  trovava sotto i portici, proprio vicino a San Domenico.
La zia Camilla, completamente vestita a lutto, la stava aspettando seduta dietro il banco. Tutto intorno, sul banco stesso e sulle mensole,  facevano bella mostra di sé ogni tipo di cappelli, molti dei quali di velluto, data la stagione.  Ogni donna, infatti, amava portare il cappello quando usciva di casa e, quindi, fare la modista con una propria bottega era un’attività assai fiorente. Diverse ragazze giovani venivano ogni giorno a imparare il mestiere così come altre andavano  a ricamare, a cucire, o a “zunze e scarpe”. 
La zia Nettin, andando, appunto, a cucire e rifinire le scarpe, aveva poi sposato il calzolaio e si era trovata bene.    
Nel retrobottega, dove quel giorno non era presente però alcuna lavorante, intorno a un piccolo tavolino di noce rotondo decorato con la stella a sei punte   racchiusa dai cerchi dorati, la sorella di Camilla, Caterina, anch’essa modista, e altre tre eleganti signore le stavano aspettando. Maria si era decisa a malapena ad affrontare quella seduta, più che altro per le insistenze di Camilla che aveva perso da pochi mesi il suo primo figlio. C’era, inoltre, una  certa curiosità: - Chissà se quello che si dice in giro è vero! - si era confidata con la sorella.

Dunque, le mani delle sette donne erano state appoggiate sul tavolo a tre piedi senza dirsi nulla: ognuna sapeva lo scopo per cui era stata invitata e non c’era altro da aggiungere.
Caterina aveva chiuso gli occhi: - Camilla, ti prego, parla, spiega perché hai voluto convocare questa riunione e chi tu desideri sentire...
- Oh, spiriti, se veramente potete ascoltarmi, vi prego, mettetemi in contatto con il mio bambino...Voglio sapere dove si trova ora, se sta bene... -  Le lacrime sgorgavano copiose dagli occhi di Camilla mentre i minuti trascorrevano lenti in un’aria  satura di emozioni.
- Spiriti della nostra famiglia, se ci siete, rispondete! - aveva aggiunto Caterina - cerchiamo il nostro piccolo… Diteci se è giunto da voi, se siete insieme nel nuovo mondo...
Nell’angusto  locale,  non rischiarato che da una leggera luce proveniente dalla finestra chiusa con gli scuri, i  respiri si facevano leggeri, quasi inesistenti,  mentre più forti erano i singhiozzi di Camilla. 
Il tavolino aveva emesso un breve scricchiolio. 
-Spiriti, dunque, chi siete? È il nostro bambino vicino a noi?- urlava Caterina. 
Il tavolino si era leggermente inclinato su di un lato, verso una delle signore presenti e il piccolo cassettino nascosto sotto il suo piano, si era aperto spontaneamente lasciando cadere alcuni documenti.  
“Non c’è, sopra Dio, nessuno che decida.” era scritto a mano su un foglio ingiallito dal tempo  “Ma Dio manda i segni e qualcuno può leggerli.”
- Rispondete, dunque! Sei tu...?
Ora  il respiro di Caterina si faceva sempre più affannoso e Camilla, pallida e disfatta, aveva smesso di piangere.
- Sì, sono io,  mamma. Non ti ricordi di quando vagavo tra i boschi alla ricerca di prede da cacciare? Non c’era  niente altro che alberi. Mentre tu rimanevi intorno alla nostra caverna a raccogliere erbe e frutti con in collo il nostro ultimo fratello, io seguivo mio padre, il capo tribù, nelle esplorazioni del territorio.
Un muto stupore si era diffuso tra i presenti incapaci di comprendere quella voce che continuava a raccontare: - Quella mattina, avevo imboccato da solo il sentiero vicino al mare. Mi pare quasi di vederlo, non molto lontano da qui... Le onde lambivano quietamente la terra e, lentamente, attraverso la vegetazione fitta fitta, ero risalito verso l’alto della collina. La mia lama di selce mi aiutava ad aprirmi un varco nelle piante dalle foglie che non cadono mai fino a che non avevo raggiunto una radura. Là il cielo mi appariva così azzurro e vicino da poterlo sfiorare quasi con un dito e il silenzio era rotto dai mille rumori degli animali, degli uccelli, del vento cantilenante tra le fronde. No, c’era anche,  poco lontano, rumore di una lotta, uomini in corsa, forse la caccia all’elefante,  forse un’altra tribù era giunta fin là, nel nostro territorio...  L’orso era sbucato fuori dalla giungla all’improvviso, braccato dai fuochi degli uomini, spaventato… Ero un figlio del capo tribù e non avevo paura. Decine di volte mio padre mi aveva condotto con sé alle battute di caccia al mammut o alle renne,  mi aveva insegnato i trucchi per salvarsi dai rinoceronti e dagli  ippopotami  e per portare alla grotta le prede per nutrire le donne e i bambini. L’orso si era avventato su di me alzandosi sulle zampe posteriori: velocemente avevo infilato la mia lama con tutta la mia forza nel suo ventre… La sua zampa era piombata come un masso sul mio collo. Da quel momento non ricordo più nulla ma so che gli uomini ci avevano  raggiunti e avevano ucciso l’orso. Poi, ci avevano trasportati entrambi fino alla grotta di mio padre. Egli aveva chiamato subito la donna che curava le malattie: la mia ferita alla mascella era assai profonda per cui  mi era stato applicato un impiastro di erbe. La febbre mi rendeva incosciente e in pochi giorni il mio spirito aveva lasciato quel corpo… Quattordici estati erano trascorse dalla mia nascita. Mio padre mi aveva composto nella tomba… Ero il suo primo figlio maschio, avrei dovuto essere capo tribù dopo di lui, lo seguivo in ogni uscita di caccia o di perlustrazione… So che il suo dolore era stato grande e che aveva voluto nascondere la mia ferita con l’ocra gialla perché non mi presentassi in cattivo stato nella mia vita futura. Ma mia madre non c’era. Era restata alla caverna perché stava per partorire ancora… Sei tu mia madre?
- Sì - aveva aggiunto un’altra voce più forte e autorevole - figlio, avevo pregato per te che tu potessi guarire. Quando le regine della notte brillavano in cielo, mentre tu giacevi nella caverna e il tuo respiro si faceva sempre più debole, avevo implorato loro di non portarti via a me. Tu eri il mio orgoglio e il mio futuro. A te avrei lasciato il mio potere, i miei uomini, la mia grotta, le mie pelli, tutto. Una stella, allora, si era mossa nel blu uniforme della notte ed era caduta lontano. Faceva così caldo! Avevo sperato che avesse acconsentito alla mia richiesta. Ma tu sei morto e le lacrime che non sono sgorgate dai miei occhi mi hanno trafitto il cuore. Per te ho cercato, allora, un luogo tranquillo dove tu potessi  riposare, una caverna in cui preparare la tua tomba e ti ho disteso su di un letto di ocra rossa ponendoti  sul capo la cuffietta di conchiglie che amavi tanto. Vicino ho lasciato la tua lama di selce e tutti gli ornamenti d’osso e di conchiglia che ti sarebbero serviti nell’altra vita. Da allora, non avevo avuto più pace e nessuno degli altri figli di tua madre e di un’altra donna dopo di lei aveva potuto colmare il tuo vuoto...1
- No, non siete voi che cerchiamo,- aveva ripreso Caterina ansante - vi prego, andate via, lasciate il posto ai nostri famigliari. Qui l’orso non c’è più: voi parlate di fatti avvenuti tanto tempo fa...
- Camilla, Caterina… - una flebile voce si era insinuata nella stanza - sono vostra madre Iolanda. Ho dovuto abbandonarvi da piccole e la mia disperazione non aveva fine... 
- Mamma! Davvero sei tu?  
- Certo. Non ricordate quando vi tenevo tra le braccia o quando mangiavamo insieme nella nostra cucina e vi raccontavo delle storie? Smettevate di correre e di giocare e mi ascoltavate con gli occhi spalancati. Poi, quando avevo finito, le vostre domande si sgranavano ancora a lungo mentre i piatti della minestra si vuotavano senza fatica.
- Oh, mamma, quanto mi sei mancata mamma! - singhiozzava Camilla - La nonna ci parlava di te senza piangere ma il suo sguardo si perdeva lontano. Non nominava mai nostro padre, invece, e noi lo vedevamo poco. Ormai si era risposato e aveva avuto altri figli... La sua vita non ci apparteneva più e mai lo avevamo sentito vicino a noi. Ma tu, mamma! D’estate scendevo sulla spiaggia e cercavo laggiù, all’orizzonte del mare d’intravvedere il tuo volto… Un vago sapore di carezze e di baci frammisto a lacrime quando tu mi abbracciavi e il tuo pianto nascosto che inumidiva la mia spalla… Non mi è rimasto altro di te, mamma!
- Lo so, figlie mie.  La mia famiglia era proprietaria di molti cavalli e nelle nostre stalle in via Don Bosco c’era sempre traffico: i carri arrivavano e ripartivano in continuazione. Vostro padre lavorava là, così l’avevo conosciuto: forte a guidare i cavalli, instancabile nella fatica.  Il mio cuore trepidava ogni volta che  mi lanciava uno sguardo… e lui lo sapeva. Poi ci eravamo sposati ed ero al colmo della felicità! Sarei stata sua moglie, gli avrei dato dei figli, l’esistenza sarebbe stata meravigliosa! Ma la mia vita da sposa non era continuata come io pensavo: dopo la tua nascita, Camilla, lui aveva preso a tornare a casa spesso ubriaco e se ne andava a letto senza degnarci d’uno sguardo. Qualche volta era furibondo e mi picchiava. Non voleva darmi neppure il denaro per fare la spesa… Il mio cuore impazziva, non potevo credere che il mio bel cavaliere non mi volesse più! Dunque, mi aveva sposata per la mia dote... Le nostre stalle  gli facevano gola, povero carrettiere che lavorava per noi! Mi ero ammalata, mangiavo sempre meno e sputavo sangue quando tossivo. Il medico aveva detto che era tubercolosi ma che sarei guarita. Non ne avevo la forza... Tra i cocci dei sogni infranti non avevo saputo trovare uno scopo più grande: voi sareste state meglio con i miei genitori che con me, avreste avuto sempre cibo e serenità e io… non desideravo più niente. Quando lo vedevo tornare a casa pieno di vino e di odio per noi, mi chiedevo che cosa avesse spezzato l’incanto e che cosa mai avrei potuto fare... Il dolore delle botte era minore di quello dell’anima e il sangue usciva a fiotti dal mio cuore. Mentre le campane della chiesa suonavano ancora per me l’agonia, una donna di Repusseno, Cecilia,  aveva detto che, morendo, lasciavo il posto a un’altra. E non sapeva ancora che l’altra sarebbe stata proprio lei! Purtroppo per lei, gli anni accanto a vostro padre non sarebbero stati diversi dai miei, fino a quando lui non fosse caduto ubriaco dalle scale e non fosse morto. Dio abbia pietà di loro. 
- Lo sappiamo, mamma. Anche con la seconda moglie ha fatto lo stesso, ce l’hanno raccontato. Non le dava i soldi per fare la spesa e i suoi cinque figli  non avevano nulla da mangiare. Quando tornava a casa la sera, portava il cibo soltanto per sé e lo trangugiava  davanti a tutta la famiglia! Poi, andava a letto con il portafoglio sotto il cuscino. Solo qualche volta Cecilia riusciva a sottrarglielo mentre dormiva e prendeva qualche soldo per comprare un po’ di cibo per i bambini.   
-Chi picchiava la moglie? - un’altra voce roboante e volgare era entrata nella stanza - Faceva bene!  Un giorno mi hanno accusato di aver ammazzato mia moglie riempendole la bocca di cenere e buttandola giù dalle scale. Certamente! Non la sopportavo più, era noiosa, fastidiosa come tutte le donne! Così, mi hanno impiccato laggiù, vicino al mare. Potevo scorgere al di sopra della folla che era corsa a vedere lo spettacolo, le mura del Priamar.  Le donnette pettegole dicevano che fin da Repusseno,  avevano sentito le  urla, ma io non ho avuto paura!
- Andate via, spiriti malvagi! Tu, Giabbe2, sei l’ultimo condannato a morte di Savona. Noi non eravamo ancora nate e non ci interessa la tua storia. Ormai è affare solo tra te e Dio!- lo aveva interrotto Caterina  
- Il mio bambino, cerco solo il mio bambino. Andate via, spiriti. Voglio parlare con il mio bambino. - supplicava  Camilla. - Eravamo felici.  Alfonso era un bambino bello e bravo, da poco aveva perso il primo dentino e stavamo aspettando di vedergli crescere quello nuovo. Suo padre lo prendeva per mano e lo portava a spasso la domenica, dal centro verso gli orti dove i frutti colorati attiravano la sua attenzione. Nel silenzio dei sentieri che si profilavano tra le strette mura, si poteva udire il loro chiacchiericcio. Quando gli era venuta la febbre alta, il dottore aveva parlato di difterite e l’aveva mandato all’ospedale. Percorrendo il corridoio, dopo lo stanzone dei tisici, ci avevano ricoverati in una cameretta e suo padre, che non poteva entrare, ci guardava smarrito dalla  finestrella.  Il corpo di Alfonso bruciava tra le mie braccia mentre la gola gli diventava sempre più gonfia.  Era agosto, il 12 di agosto, faceva tanto caldo! La sera mi ero affacciata un attimo al balcone mentre Alfonso dormiva e il suo respiro si faceva sempre più sibilante. Le stelle  della notte brillavano in cielo e le avevo implorate  di non portarlo via a me. Egli era il mio orgoglio e il mio futuro. Una stella, allora, si era mossa nel blu uniforme della notte ed era caduta lontano. Faceva così caldo! Allora avevo sperato che avesse acconsentito alla mia richiesta. E quando lo stridio dei gabbiani si allungava nell’aria fresca dell’alba, il mio piccolo si era svegliato. Ma i  suoi occhi si allargavano dall’orrore: gli mancava il respiro e le ultime forze disperate lo avevano spinto fino a spezzare le sue piccole unghie contro il muro, nell’angosciosa lotta per afferrare una goccia d’aria… Poi, con un rantolo strozzato era ricaduto sul cuscino come una bambola di pezza rotta. -
I singulti laceravano l’aria dello stanzino... Il tavolino si era alzato da terra di due palmi e rimaneva immobile anch’esso a mezz’aria, quasi ad ascoltare quelle vicende. 
Allora, la madre di Camilla aveva ripreso: - So tutto, figlia. Anch’io ho pregato Dio che ti risparmiasse quella tragedia. Avrei voluto per te una vita facile e serena, lontana da ogni dolore! Ma la volontà di Dio ci è spesso incomprensibile e la prova ci appare così dura! La nostra vita terrena è costellata di sofferenze che solo un giorno ci saranno chiare. Ma non avere paura.  Dietro di te vi sono tutti gli spiriti buoni della tua famiglia. Essi ti seguono e ti aiutano a realizzare i tuoi desideri e ad affrontare la disperazione dell’esistere. Abbi fiducia in loro, figlia mia...- 
Finalmente, il suono tanto caro a Camilla era giunto:
- Oh, mamma, sono qui!  Ho raggiunto la pace, non piangere più.  I tormenti dell’orribile vita non mi possono più far male. Ora ho tutti i dentini, anche se tu conservi il primo in una scatoletta e ogni sera lo guardi e lo baci stringendotelo al cuore. Un giorno, se Dio vorrà, ci ritroveremo. Presto, però, la mia culla non sarà più vuota!  Le tue braccia non saranno inutili, ma stringeranno una neonata e poi, tra qualche anno, mio fratello. La casa risuonerà di canti e di grida festose. Altri dentini si aggiungeranno al mio e il cavallo a dondolo troverà compagnia. Loro saranno  il tuo futuro. Bacia mio padre per me e rincuoralo perché un giorno mi raggiungerà. Sii felice, mamma.  Addio. -
Il tavolino si era riabbassato a terra senza far rumore.
Le sette donne avevano riaperto gli occhi colmi di lacrime. I loro pensieri le avevano trasportate lontano,  là dove la realtà si può confondere  con il sogno. 
                                                               
NOTIZIE STORICHE

Il racconto si ispira a fatti realmente avvenuti, compresa la seduta spiritica.
Camilla  e Caterina hanno vissuto negli ultimi anni del 1800 e i primi del 1900.
Alfonso è morto a sei anni a causa della difterite.

Principe delle Arene Candide: nella grotta delle Arene Candide a Finale Ligure (SV), nello strato più profondo, datato tra i 20000 e 12500 anni fa (Paleolitico Superiore - Epigravettiano Antico), è stato rinvenuto lo scheletro di un individuo giovane (ora conservato al Museo di Genova Pegli,  Palazzo Durazzo Pallavicini)  giacente in  posizione distesa sopra un letto di ocra rossa, con il capo coperto da una cuffia di conchiglie nassa. Altri ornamenti d’osso e di conchiglia erano ai piedi e  alle ginocchia. La mano destra impugnava una lama di selce,  sul petto e sui fianchi erano quattro corna d’alce forate alla base e decorate. Lo scheletro,  fissato al suolo con pietre sulle mani e sui piedi,  presentava una grossa ferita mascellare tamponata con ocra gialla. L’individuo, un adolescente di circa 14 anni, appartenente alla razza detta di Combe-Capelle, era di statura superiore a 1,70 m. e di struttura robusta. Per l’abbondanza e la ricchezza del corredo funerario e per la giovane età del defunto, la sepoltura viene detta del “Principe”. Già a quel tempo l’uomo seppelliva i propri defunti, ritenendo, dunque, possibile un’altra vita per affrontare la quale lasciava oggetti di uso consueto  nelle tombe. Allora, come oggi, l’uomo indaga sui misteri della nostra origine e della nostra fine.

 Giabbe: il 2 febbraio 1865 Giovanni Battista Cerro, detto il “Giabbe” uccide la moglie Bonifacina, di 15 anni più giovane di lui. La donna è stata strangolata e la sua bocca è stata riempita di terra per impedirle di urlare e chiamare aiuto. A rendere la teoria maggiormente plausibile, nonostante il Cerro dicesse che la moglie era morta per un malore, ci sono le testimonianze dei vicini che parlano delle continue liti tra i coniugi e delle violenze che il Cerro riservava alla moglie. Il Giabbe viene condannato a morte proprio una settimana dopo che la Camera dei deputati ebbe approvato, con 150 voti contro 91, la proposta per l’abolizione della pena capitale. La forca fu allestita velocemente e in silenzio durante la notte del 13 luglio 1865. Secondo la testimonianza di Beppin da Ca, autore del libro “Vecchia Savona”, mentre il condannato percorreva la strada verso il patibolo, un gruppo di spettatori correva con foga per raggiungere il luogo del supplizio. A quella vista il Cerro avrebbe esclamato: “Cose camminn-a a fà? Tanto se non ghe son mi a festa a no se fa.” (Cosa camminate a fare? Tanto se non ci sono io, la festa non si fa.)  Alle cinque in punto l’uxoricida esalava il suo ultimo respiro, dopo una lunga e travagliata esecuzione; essendo infatti di corporatura robusta, il boia dovette esercitare pressione sulle sue spalle e tirarlo per i piedi al fine di terminare le sofferenze dello sventurato.  I Savonesi erano noti per la loro avversione alla pena di morte tanto che, per costruire la forca, sarebbero stati incaricati due facchini di Genova perché nessun savonese aveva voluto collaborare a quell’operazione. Inoltre, in seguito all’esecuzione gli spettatori avrebbero minacciato violentemente il boia, tanto da richiedere l’intervento della polizia per difendere l’uomo. 

Renata Rusca Zargar

venerdì, dicembre 17

UMBERTO DRUSCHOVIC premiazione a SASSARI della sua ultima silloge poetica LE PAROLE DEL VENTO






 

SINESTESIA D'AVVENTO di UMBERTO DRUSCHOVIC


SINESTESIA D’AVVENTO

Ho raccolto qui le mie povere cose
quello che resta di giorni mal spesi,
ho svuotato le tasche da inutili orpelli,
da cianfrusaglie di pensieri trovate qua e là 
nelle ore perdute, quelle vuote, 
malamente andate, tra parole non dette, 
parole sbagliate.
Ora che della cicala svanito è il canto
e secchi, ormai, sono i viticci 
che della vigna han sostenuto i tralci,
dell’estate, solo, rimane l’impronta
fugace ai rami degli ontani
genuflessi al fiume nel dono dell’ombra.
Litania d’amore è il ritorno delle foglie
esauste alla terra madre
spossate nella mestizia dell’abbandono
pur grate per la stagione breve
arresa alla malinconia d’autunno.
Ahh, possedessi io quella sapienza,
quella saggezza che è l’accettare,
non chiedere ad ogni aurora 
se ancora si alzerà il vento
ma esser lieto come l’acqua al fosso
che della fonte il mistero non conosce
e quieta si raggela intorno al sasso,
nulla al verno chiede, ma si dispone
e del dubbio non si rode.
                       Umberto Druschovic, Avvento 2021


sabato, dicembre 11

I PADRI ASSENTI E GLI OCCHIALI DI SCARTO di P. MAURO ARMANINO

 


            I padri assenti 

e gli occhiali di scarto

Lei è nata il giorno di Natale del secolo scorso in Costa d’Avorio. Per qualche imbroglio del destino o per evitare di cadere nella banalità, l’hanno chiamata Pascaline. Nata nella stessa regione dell’allora presidente Laurent Gbagbo è stata costretta a fuggire dal Paese perché perseguitata per causa di appartenenza etnica. L’avevano minacciata di morte e poi incendiato la casa. Scappata con un bimbo e una bimba non suoi e di padri differenti, ha raggiunto il confinante Ghana. Di confine in confine è arrivata in Togo, Paese francofono, l’anno seguente. Qui ha ottenuto la protezione umanitaria in un grande campo di rifugiati, con altre migliaia di suoi compatrioti, per una durata di undici anni. In Costa d’Avorio, prima della guerra, aveva conosciuto il padre del figlio che ha portato in esilio e che lei non ha generato. Lui già abitava e lavorava in Italia e le aveva giurato di condurla nel Bel Paese al suo ritorno. Un giorno è partito in viaggio e le ha lasciato suo figlio come garanzia di un ritorno finora mai avvenuto. Quanto alla bimba che ha condotto in Togo, è la figlia di una nipote rimasta orfana allo scoppio della guerra civile in Costa d’Avorio.
Pascaline era ammalata e aveva l’impressione che, nel campo dei rifugiati ivoriani nel quale era ospite, la sua malattia non venisse presa sul serio e curata. Affida allora le due creature, ormai cresciute, a una lontana parente e parte, con la tessera di rifugiata e un paio di borse a Niamey, la capitale del Niger, con lo scopo di curarsi. L’Alto Commissariato per i Rifugiati non ritiene di poter intervenire e Pascaline, dopo qualche mese di ospitalità presso l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, ha chiesto e ottenuto il rimpatrio al suo Paese. La figlia di sua nipote, diciassettenne di nome Mireille, durante il soggiorno nel campo, ha dato la vita ad una bimba della quale il padre, anche in questo caso, si è dileguato lasciandola sola con lei. La ragazza, lei stessa senza padre, si è trovata con una figlia di padre assente e l’ha chiamata Giada, nome di una pietra preziosa dell’Oriente. Pascaline è partita martedì di mattina con un volo diretto ad Abidjan, la capitale economica della Costa d’Avorio. Torna undici anni dopo averla lasciata per fondate minacce alla sua vita e né lei né il Paese sono più gli stessi. I tre rimasti rifugiati in Togo arriveranno presto.
Il giorno prima del viaggio passa con un sorriso per ringraziare e salutare. Dice che da qualche tempo non vede bene ma che, durante il soggiorno presso l’OIM, hanno preso cura di lei. Solo ha difficoltà a leggere la sua vita e quello che le aspetta di ritorno nel Paese nel quale è nata, il giorno di Natale dello scorso millennio. Sceglie con pazienza un paio di occhiali smessi e più che alle lenti, fa attenzione all’eleganza della montatura. Chiede e ottiene l’indirizzo di una posta elettronica che mai userà e promette di telefonare, una volta sistemata nel Paese che ha lasciato da undici anni. Non si lamenta di nulla, neppure dei padri assenti, cui sembra aver fatto, da tempo, l’abitudine. D’altra parte, non da oggi, anche gli altri padri sembrano essere scomparsi: quelli della Costituzione, della democrazia, dell’indipendenza, della nazione e delle esplorazioni di sagge utopie per il futuro. Padri scomparsi o assenti per abitudine, incuria, insipienza o semplice viltà, da ciò che dà senso e direzione alla storia contemporanea. Lei, chiamata Pascaline e nata il giorno di Natale, sorride e sceglie, prima di partire, un paio di occhiali di scarto.

   Mauro Armanino, Niamey, 12 dicembre 2021



venerdì, dicembre 10

Facciamo RESET di Samina Zargar

UNA RAGAZZA DA RESET di RENATA RUSCA ZARGAR


UNA RAGAZZA DA RESET

Si è conclusa da poco con grande successo la mostra organizzata a San Marino, presso il Palazzo SUMS, delle opere partecipanti all’originale Concorso STOP – RESET – START. La competizione, assai particolare, era stata  indetta dalla Carlo Biagioli. una società che offre un team di esperti per la soluzione di qualsiasi problema e che promuove il territorio  della Repubblica di San Marino attraverso pubblicazioni periodiche, tra cui anche tutto quanto serve per aprire un’attività a San Marino.  (Carlo Biagioli Srl - Consulenti globali)

Dunque, Reset! 

Quante volte, assediati dalla quotidianità, abbiamo avuto desiderio di chiudere con il passato e ricominciare, così come si può farlo su un mezzo tecnologico cancellando tutto! 

Gli artisti (beati loro!), sollecitati dall’input della Carlo Biagioli, avevano avuto la bella opportunità di esprimere, ognuno con i propri strumenti artistici, tra cui scultura, pittura, fotografia, scrittura, cosa avrebbero voluto-potuto fare.

Samina Zargar, affascinante youtuber che, con il suo canale “Up and down”, ci racconta gli alti e bassi della vita, aveva raccolto la sfida.

Nel video, chiamato proprio “Reset”, si è mostrata assediata dal patema del lavoro, l’auto in panne, i messaggi, le mail, le crisi politiche, climatiche, aziendali e persino i genitori ansiosi… Cosa fare, dunque? Reset! Infine, recita l’artista nel filmatino, non si vede più nessuno: finalmente, un po’ di pace! Però, siamo spariti anche noi che la stavamo guardando. Come mai? Certo, sparisce chi non è se stesso, chi vive una vita non sua (come tanti di noi che subiscono e che sono indifferenti, oppure che sono schiavi dei social, dell’opinione altrui, del perbenismo). Rimane solo lei, la protagonista, perché si è reinventata. “Sii te stesso, vivi la tua vita”. Lei, nel frattempo, parte per la Luna: una fantastica luna che “balla”!

Il concetto che noi non siamo più noi stessi perché abbiamo paura di mostrarci agli altri è sviluppato anche in un altro lavoro: “Un gatto blu è più vero di te”, ribadisce, infatti, Samina.

Qualche volta, può succedere che un semplice video di pochi minuti ma dal significato davvero profondo riesca a farci riflettere e, chi lo sa, a cambiarci la vita: Reset o  Un gatto blu è più vero di te speriamo che siano  davvero le occasioni per tutti, anche in un tempo tanto triste e difficile, di un nuovo INIZIO e di un po’ più di coraggio.

Guarda i video completi:

Facciamo Reset

https://youtu.be/C8GEPRsdEeo

Un gatto blu è più vero di te

https://youtu.be/WZHrXClcMA4

Renata Rusca Zargar



UNA FOGLIA IN AUTUNNO di RENATA RUSCA ZARGAR

 


La foto è di Srinagar (Kashmir) la città di Zahoor Zargar

Oggi è una giornata triste. Il cielo è grigio-immobile. Un po' sono triste anch'io. Sta arrivando l'autunno, le foglie degli alberi si colorano in tutte le tonalità dal giallo al rosso. Ma ci sono anche le foglie che non cambiano mai, rimangono verdi, quasi provocatorie. "Sono più forte - sembrano dire - non cadrò a terra, resisterò." 

E io cosa sono? Resistente o caduca?

In questi giorni, devo prendere la decisione più difficile della mia vita.

La prozia mi accoglie nel suo appartamento che dà su via Pietro Scotti. Dato che lei non esce più di casa per l’età, vengo a trovarla ogni settimana, il venerdì. 

- Vieni, ti faccio il caffè.  Mi offre, come al solito, quindi prepara la sua macchinetta napoletana con le mani che tremolano un po’. È vecchia, la prozia, anche se in buona salute. Ma è ostinata e non vuole andare dal neurologo per risolvere il noioso inconveniente del tremore. Così, quando le tazzine e la caffettiera oscillano nelle sue mani, ho sempre paura che rovesci tutto e, magari, si bruci o si faccia male! Per fortuna, finora non è mai successo niente del genere. 

Il profumo delizioso invade tutta la cucina e, appena sedute, una di fronte all’altra, a gustare la bevanda, la prozia inizia a spiegarmi la storia del parentado che mi ripete puntualmente ogni volta che mi vede. 

- Sai - mi racconta Mariuccia - nella nostra famiglia siamo tutte caffettone, te lo ricordi, no? Mia madre, tua bisnonna, amava tanto il caffè, ne beveva parecchie tazze al giorno ed è stata sempre bene: è vissuta assai a lungo, fino a novantatré anni. La nostra origine è ligure-piemontese. Mio padre era di Savona, faceva il carrettiere. Mia madre, invece, era di Farigliano, in provincia di Cuneo, era nata il 7 febbraio del 1890 ed era l’ultima di due fratelli e tre sorelle. A soli sei anni, purtroppo, era rimasta orfana: barba Giuseppin, barba Giors, magna Caterina e…- alla prozia non viene in mente il nome dell’ultima sorella di Marietta, la mia bisnonna - ah, sì, magna Teresin. La mandavano a scuola quando non c’erano dei lavori da fare in campagna, cioè quasi mai. Anzi, non la trattavano affatto bene, mia mamma ha preso tante botte dalla cognata che, una volta, le hanno fatto persino uscire il sangue dalla testa! Poi, un giorno, barba Giuanin, non mi ricordo più se era un parente o un amico, ma so che aveva il forno del pane in Lavagnola, che allora era un quartiere importante di Savona, è andato ad aiutare barba Giors per la vendemmia. Così, gli ha detto: “Lascia venire a Savona la Marietta, tanto ormai sta per arrivare l’inverno e in campagna c’è poco lavoro. Là può aiutarmi nella panetteria e poi, in primavera, torna qui.” Così, Marietta era stata mandata a Savona, dove faceva un po’ di tutto: portava il pane ai negozi, andava al mercato, faceva le pulizie… Era un lavoro duro, ma non certo come quello che aveva lasciato, e così non era mai tornata in Piemonte. Io la capisco, perché anche a me non piaceva andare in Piemonte. Una volta, quando ero ragazzina, per farmi prendere l’aria buona di campagna, mia madre mi aveva mandata da una zia. Mi annoiavo moltissimo, la zia mi faceva pregare in continuazione, mi dava poco da mangiare… Pensa che, al mattino, si buttava il contenuto del vaso da notte (cioè i bisogni) fuori della finestra! Strano, eh? Beh, di sotto c’erano i prati, naturalmente. -

La prozia ama tanto parlare della famiglia di un tempo passato. Chissà, se un giorno anch’io ricorderò con altrettanto piacere la mamma…

- Hai appena trovato lavoro - mi ha risposto mia madre quando le ho chiesto consiglio - vuoi già lasciare? Per cosa poi? Non avresti nessuna sicurezza e saresti sola in un paese che non conosci.

- Sì, ho trovato lavoro nel negozio “Cose di carta”, ma non è che sia il massimo! Un po’ faccio la commessa e un po’ preparo del materiale da vendere, di carta, appunto.  Io desidero altro, voglio scolpire e affermarmi come scultrice.

- Puoi fare quello che vuoi nel tempo libero ma, almeno, alla fine del mese hai un salario. Poi, se un domani, diventerai famosa, potrai lasciare il negozio. È difficile, però, al giorno d’oggi! Con la crisi che c’è, chi vuoi che compri le sculture? 


- Ma torniamo a mia mamma: era bella sai? - interrompe i miei pensieri la prozia Mariuccia - A Lavagnola, c’erano tanti che la volevano sposare, ma barba Giuanin le aveva consigliato di prendere Tugnin che era un gran lavoratore, perché così sarebbe stata bene. A dire il vero, a mia madre piaceva di più un altro, che però voleva solo divertirsi, e lei aveva seguito il parere di barba Giuanin e aveva sposato Tugnin, Antonio, mio padre, che era anche il più bello di Lavagnola. Così si diceva. La tua bisnonna era molto furba e mio padre la vedeva nell’ombra, cioè l’adorava! Tutte le mattine, egli si alzava prestissimo per andare a lavorare, scendeva in cucina e faceva il caffè nel pentolino, come usava allora, e glielo portava a letto. Sai, per mia madre quello era l’unico piacere perché, poi, anch’ella lavorava tutto il santo giorno. 

Mariuccia si interrompe, intanto che sciacqua le tazzine e le rimette nell’armadio, sempre tremolando intensamente. Tugnin doveva davvero adorare la sua Maria, detta Marietta, tanto che anche la figlia era stata chiamata Maria, detta poi Mariuccia per non confondersi tra madre e figlia.

Che bella coppia erano stati. Avevano condiviso tutto, il bello e il brutto. Perché erano molto uniti. 

Tugnin era riuscito, infine, a realizzare per loro una casa a tre piani con sei appartamenti e un negozio. Aveva avuto coraggio e capacità:  andava alla mattina presto, prima di iniziare il suo lavoro di carrettiere, a prendere la sabbia nel fiume e la portava ai muratori. Marietta, in quel tempo, gestiva una latteria.

Fausto non si impegnerebbe altrettanto. Lui si accontenta. Aiuta il padre nella gioielleria di famiglia. - Così sono libero - confida – quando devo andare da qualche parte non ho problemi. Intanto, mio padre non si muove mai dal negozio. È un’attività che non mi piace, ma rende!

È vero, quando io non lavoravo ancora siamo andati parecchio in giro, anche solo a passeggiare vicino al mare. Lui era sempre disponibile. Adesso, io non posso più, ho un orario da rispettare. Ma Fausto è sempre a gironzolare per la città, al bar, al Prolungamento… Forse, non ha sogni da realizzare. 

- Subito dopo il matrimonio - la prozia continua ancora la storia che mi ha narrato infinite volte e che pure mi appare, oggi, del tutto nuova - mio padre continuava il suo lavoro e, con il suo carretto tirato dai cavalli, andava al porto a caricare le merci che poi consegnava a destinazione. Insieme a Marietta, inoltre, gestiva un’osteria nella stessa casa dove abitavano, vicino al torrente Letimbro. Intanto, ero nata io, e poi, quando io ero ancora piccola, proprio in maggio, il mese del mio compleanno, l’Italia era entrata in guerra. Tugnin era partito per il fronte, nonostante a suo tempo non avesse fatto neppure il militare perché figlio unico di madre vedova. Ma si sa, in guerra devono andare tutti! Marietta era rimasta da sola a condurre l’osteria, mentre del carro e dei cavalli si occupava il garzone di mio padre. Subito, si credeva che la guerra sarebbe durata pochi mesi, poi, invece, il tempo era passato e si era capito che sarebbe andata per le lunghe. Tugnin rimaneva al fronte dove faceva il conducente, portava, cioè, da mangiare con una mula ai soldati in prima linea. Ogni tanto, scriveva alla Marietta e lei gli rispondeva. Si sapeva che le cose non andavano tanto bene per i soldati italiani: avevano freddo su quelle montagne, poi avevano dovuto arretrare fino al Piave, e si diceva che la guerra di trincea fosse terribile! Intanto, Marietta aveva dovuto disfarsi dei cavalli perché il garzone di mio padre era disonesto: rubava la biada per rivenderla e lasciava le bestie a soffrire la fame. Quanti sacrifici aveva dovuto fare mia madre per tirare avanti da sola! Ma ti annoio? Sei stanca di ascoltare queste vecchie storie?

- No, zia - le rispondo - mi piace sentir parlare della nostra famiglia, mi aiuta a chiarirmi le idee...

- Ah, bene. Sai, io sono vecchia ormai, e ho paura di essere noiosa. Dunque, alla fine della guerra le era arrivata una lettera, anzi, guarda, l’ho trovata qualche tempo fa in una vecchia scatola e l’ho messa da parte in questo cassetto per mostrartela. 

Mariuccia tira il cassetto e prende un foglio un po’ strappato e ingiallito. 

- Ecco, tieni, ci saranno degli errori ma non tanti, tuo bisnonno aveva fatto fino alla terza elementare e sapeva scrivere bene. Leggi cosa scriveva. 

“Cara Marietta,

la guerra è finita ed o avuto il congedo ma prima di venire a casa devo andare a Venezia a trovare la mamma di un mio compagnio qui sotto le armi. Questo mio compagnio che si chiamava Bepi è morto colpito dal fucile nemico in trincea nel Carso. Egli mi aveva tanto parlato di sua madre che viveva solo per lui ed aveva fatto tanta fatica per alevarlo dato che era sola. Così ho deciso di portarle di persona le sue cose e raccontarle le ultime giornate di suo figlio. Non preoccupar ti arriverò presto. Venezia è un po lontana da qui dalle montagne dove ci troviamo è sul mare che si chiama Adriatico. Abraccia la Mariuccia chissà come sarà cresciuta

Tugnin"

Osservo la grafia infantile ma dura e sicura del mio bisnonno che, dopo più di tre anni di lontananza dalla famiglia, aveva scelto di allungare il viaggio del ritorno per rispetto dell’amicizia con un suo compagno di armi.

- Quando finalmente è arrivato a casa - continua Mariuccia, riponendo la preziosa carta nel cassetto - ha narrato alla Marietta il suo viaggio a Venezia. “Sapessi - le diceva - è una città nell’acqua, le strade non sono strade ma canali, per spostarsi bisogna prendere la barca, i palazzi si alzano nel mare… La madre di Bepi mi ha accolto in una misera stanza che si allaga quando dicono che c’è l’acqua alta, perché sono tanto poveri, ancora più di noi. Le ho consegnato tutto ciò che lui aveva, la sua catenina d’oro, i suoi stivali, e le ho parlato di quello che lui faceva e diceva, di quanto la rispettasse per tutti i sacrifici che aveva fatto per lui. Quella donna piangeva, ma mi ha ringraziato tanto perché le ho riportato almeno il ricordo di suo figlio, il suo unico amore… Sono contento di averlo fatto, anche se è poco, anche se a lei non è rimasto nulla e nessuno.”

Poi, nel 1920,  è nato mio fratello Gino, tuo nonno e padre di tua mamma, e sai che cosa ha fatto mia madre, appena l’ha avuto tra le braccia, prima ancora di attaccarlo al seno? Gli ha dato un cucchiaino di caffè, per tirargli un po’ su il cuore, come lei diceva sempre quando, nei momenti difficili, offriva il caffè a qualcuno. 

Che bella storia. Una vera famiglia.

Anch'io, ho tanti progetti.

Per questo, ogni tanto, allestisco delle mostre dei miei lavori o partecipo a qualche collettiva.

Un mese fa, ho mandato un'opera a una mostra a Milano. “Tempi moderni” era il soggetto da interpretare. Le foglie dell’autunno, antiche ma moderne, mi hanno ispirata. Quelle che cadono, come tanti di noi, nelle guerre, nelle malattie, nelle migrazioni, e quelle che non cadono, come i benpensanti, gli sfruttatori, i corrotti…

Io non sono neppure andata all’inaugurazione, dovevo rimanere in negozio. Dopo un paio di giorni, un tizio mi ha telefonato.

- Ho visto la sua installazione. - mi ha detto - Sono Beniamino Arditi, un gallerista che opera in Italia ma anche a Londra e a NewYork. Ha altri lavori pronti?

- Qualcosa avrei…

- Può farmeli vedere?

- Io sono a Savona…

- Venga a trovarmi a Milano nella mia galleria, ci saranno anche i miei collaboratori. 

Ho chiesto a Fausto di accompagnarmi perché io non ho l’auto. Abbiamo stipato alcune sculture e qualche ceramica nel bagagliaio e siamo partiti.

- Sarà il solito buco nell’acqua. - ribadiva lui - Oppure ti daranno una miseria che non ti ripagherà neppure il materiale…

- Lo so, sarà così, ma se non ci provo mai, non arriverò da nessuna parte.

- Al giorno d’oggi, queste cose non sono più di moda. I giovani preferiscono gli oggetti di elettronica! 

Quando siamo arrivati alla galleria, lui è rimasto fuori, è andato a girare per Milano.

 - È meglio che non venga. - ha detto – Così sarai più libera. Se le prendono, anche per poco, dagliele, tanto cosa te ne fai? 

Alla fine dell’incontro, ho ricaricato tutto in auto e ho chiamato Fausto perché tornasse dalla sua passeggiata. Siamo ripartiti per Savona.

- Allora, non hanno preso niente? Lo immaginavo che sarebbe stato un buco nell’acqua.

- No, è stato diverso. Hanno guardato bene le opere, le hanno fotografate. Hanno discusso tra di loro, mi hanno detto che apprezzano il mio modo di lavorare: esteticamente valido e con contenuti importanti. Mi faranno sapere al più presto.

- Non li sentirai mai più. Figurati, una galleria così famosa, avranno decine di grandi artisti… -

La prozia continua a ripassare le vicende familiari: prima l’osteria con i cavalli, poi la latteria, infine, finalmente, il tabacchino nella casa nuova.  

- Nel negozio di tabacchino, c’era la cucina nel retro e il gabinetto nel cortile, così era sempre aperto, dalla mattina presto fino alla sera. Allora, si mesceva anche il vino, si vendevano i pesciolini di liquirizia e tante altre cose. Io e tuo nonno siamo cresciuti lì. Quando la facevamo arrabbiare, mia mamma ci inseguiva con l’asciuga-piatti. Solo che mio fratello era furbo e scappava, io, invece, mi mettevo a piangere in un angolo.

La prozia ride al ricordo. La bisnonna era buona, aveva preso tante botte da giovane e non voleva picchiare i suoi figli. 

- Poi, la sera, si saliva su per una scala interna di legno al piano superiore, cioè qui, dove abito io anche ora, perché c’erano le camere da letto. In negozio, rimaneva il cane Dick, a fare la guardia. Sì, lo so, era un cane da pastasciutta, cioè piccolino, mingherlino, un bastardino, insomma, ma noi gli volevamo bene. D’altronde, se fosse arrivato qualcuno, avrebbe abbaiato e mio padre sarebbe sceso a vedere cosa succedesse. 

Mariuccia parla, parla… Il mio pensiero vola, però, al sogno impossibile. 

Mentre aspettavo di essere ricontattata dal gallerista, intanto, mi ero informata da uno dei miei ex insegnanti all'Accademia di Belle Arti. “È conosciuto come il Creatore, - mi aveva risposto il professor Zanda - perché gli artisti che lavorano con lui imparano molto e si affermano. Se tu avessi la fortuna di piacergli, sarebbe come essere stata miracolata! Ma tu sei molto brava, chissà…” 

- Signorina, salti su un treno e venga in galleria! - mi aveva telefonato dopo alcuni giorni proprio il famoso gallerista. 

- Con le sculture? - avevo chiesto, dunque, al dottor Arditi.

- No, da sola.

- Va bene, arrivo. 

Ero andata senza farlo sapere a nessuno. Non avevo voglia di sorbirmi altri commenti acidi.

A Milano, il gallerista, insieme a un suo collaboratore, mi aveva spiegato:

- Noi pensiamo che il suo stile unito ai contenuti possa suscitare interesse nei mercati. Lei usa i materiali con padronanza e sta scardinando alcuni stereotipi della scultura e della nostra stessa cultura occidentale. Mi ricorda un po' Jimmie Durham, con il quale ho lavorato a New York. Naturalmente, dovrà ancora maturare ma è giovanissima… Quanti anni ha? 

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- Bene. Sicuramente, lei saprà che qualunque pittore, scultore o altro, non esiste senza il suo gallerista. L’artista produce ma è il gallerista che lo propone e lo valuta, lo impone al mercato, insomma. Noi vorremmo provare con lei all’estero, poi, una volta raggiunta una certa fama, torneremmo in Italia. Non le nascondiamo che, oltre al valore artistico nel quale crediamo molto, questa sarebbe una manovra commerciale che potrebbe anche non riuscire. Anche se pensiamo che ci sia lo spazio perché vada a buon fine.

- Non ho capito… Cosa dovrei fare? Darvi le opere da portare all’estero?

- No. Lei dovrebbe seguire i suoi manufatti. Inizieremmo un percorso prima a Londra, dove lei dovrebbe presenziare alle mostre, comunicare con la stampa, essere molto attiva. Dovrebbe, intanto, continuare a creare perché siamo convinti di poter vendere bene i suoi lavori.

- A Londra?

- Sì, e poi a NewYork.

- Ma io sono una commessa, non ho mezzi finanziari…

- Le spese sarebbero tutte a nostro carico. È un investimento. Poi cominceremmo a guadagnare entrambi. Incasso metà a lei e metà alla galleria. Capisco che le sembri poco dato che è lei la creativa. Ma, come ho detto, per noi sarà un investimento che potrebbe anche non andare a buon fine e lei non perderebbe nulla. Ha dei legami importanti nella sua città? 

- Mia madre. 

- Non ha un fidanzato? 

- Sì. 

- Potrebbe ostacolarla? 

-Non so. 

- Ci pensi bene per qualche giorno. Poi, ci darà la risposta che speriamo positiva. 

Non ci sono, dunque, sogni impossibili da realizzare: il segreto è continuare a seguirli, senza lasciarsi abbattere dalle difficoltà. Ma qual è davvero il mio sogno?

- Saresti matta a seguire quella gente chissà dove! - mi ha risposto Fausto piuttosto adombrato, quando gli ho esposto la questione - Dovresti lasciare tutto per andare dove? A fare cosa? La tua vita è qui, hai il tuo lavoro al negozio, tua madre… Cosa ti manca? Poi, ci sono io, stiamo bene insieme, no?

L’ho guardato senza parlare e lui ha continuato:

- Sei una bella ragazza, magari hanno pensato di approfittare di te. Quanti anni ha questo tizio?

- Non so, ma non è giovane.

- Ecco, vedi! Ha pensato di circuirti e di farsi l’amante bambina con la scusa della scultura. E tu ci sei cascata.

- No, non mi ha dato quell’impressione. Mi sembra un uomo serissimo. Anche il mio professore dell’Accademia me ne ha parlato molto bene…

- Certo. Nessuno ti dice quante ci saranno cascate con la scusa della cultura! Oggi non importa a nessuno dell’arte, fa gola una bella ragazza da illudere e manipolare. Quando sarai sola all’estero faranno tutto quello che vorranno di te.

- Potresti venire anche tu, almeno all’inizio, così non sarei sola e potremmo valutare insieme come siano le cose in realtà. Londra ti è sempre piaciuta.

- Ma non ci penso neppure! Questa è una stupidaggine. Non andrò mai a Londra per loro.

- Ma non sarebbe per loro, sarebbe per me.

- Cerca di ritornare alla normalità. Vai in negozio e vendi le tue creazioni di carta. Quando vorremo andare a Londra, lo faremo per conto nostro. Non telefonare più a quella gente. La tua vita è qui. 

D’improvviso, lasciata la prozia, appena fuori dall’edificio di via Pietro Scotti, ho capito. 

Il bisnonno Tugnin, tanti anni fa, non ha spezzato i desideri della bisnonna e neppure lei ha ostacolato i progetti del marito. Il loro segreto era assecondare le ambizioni l’uno dell’altro. 

Fausto non ha rispetto per me. 

Non si è mai interessato dei miei sogni: una vita con lui sarebbe come rinunciare alla mia identità. Non è amore quando non si ama l’altro così com’è, senza schiacciare le sue ambizioni, le sue passioni.

Sarà a Fausto che non telefonerò più non al gallerista!

Partirò per Londra e rischierò. 

Forse, riuscirò a diventare, con il tempo, la scultrice che desidero essere o, forse, no. 

Sono una foglia sempreverde e resisterò. 

Quando, tra moltissimi anni, arriverà la conclusione della mia esistenza, mi tramuterò in una foglia rossa dell’autunno in attesa della fine. 

Almeno, non avrò rimpianti e sarò orgogliosa di me stessa.

Renata Rusca Zargar