POETANDO

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lunedì, luglio 23

PHANTAASIA di Roberto Di Pietro - Analisi critica del Prof. Andrea Maia




La coccinella e  il quadrifoglio

di Andrea Maia

PHANTAASIA non IMAGINAATIO VERA di Roberto Di Pietro ha un incipit folgorante, di impostazione narrativa (a contrasto con gran parte dell’opera, di impostazione dialogica): una apertura vivida, segnata dal raggio di sole che si insinua a risvegliare la Bimba in consonanza con il sorgivo nascere di una da poco avvertita sensualità (è un moderno Cappuccetto Rosso, come si vedrà). La scena raggiunge la sua climax nel prorompere nella cameretta, accolti a braccia spalancate, del tepore e della luce primaverile, per poi distendersi nella ripresa narrativa della vestizione, che la protagonista compie con un abito preso in prestito dalla sorella Arianna; e qui il lettore saputo, o che tale si crede, percepisce come un brivido, che si replica poco dopo, quando viene a conoscere che la Bimba si chiama Fedra (e gli risuona nel cuore il verso raciniano la fille de Minos et de Pasiphaé). “Cappuccetto Rosso rinarrato o ripresa del mito cretese?” si chiede un po’ perplesso, e ricorda che tra le epigrafi una riguarda il Minotauro. Subito dunque si rende conto della complessa problematicità, della ricchezza e varietà di prospettive, della molteplicità delle interpretazioni possibili dell’opera che sta cominciando a leggere.

Conclusa la lettura, colpiti dalle sottili acrobazie (concettuali e poetiche, metriche e fattuali, liriche e drammatiche) e dalle novità formali e di contenuti, potremmo forse discutere alcuni esiti dell’opera, dichiararci incerti di fronte a pagine ardue, un po’ frastornati dalla fitta, deliberata presenza “postmoderna” di citazioni ed allusioni (a tutte le letterature occidentali ed anche oltre), ma certamente dovremo elogiare l’insolito coraggio, l’abilità e l’originalità di questo Poeta Umanista a tutto tondo. In un tempo di estenuati lirismi, di parti faticosi di composizioni esili e striminzite, di autocontemplazioni frazionate, stese in comodi aritmati “versi liberi”, merita indubbiamente il plauso del pubblico e della critica uno scrittore che affronta la composizione di un ampio, impegnativo poema, basato su un rispetto rigoroso della metrica (si alternano in esso, come nell’Aminta del Tasso, settenari ed endecasillabi di perfetta fattura), in cui mito ed attualità cozzano fra loro mescolandosi, in cui alcuni archetipi della fiaba e della letteratura classica vengono rivisti, riusati e rovesciati: un’opera di difficile collocazione in un genere tradizionale, in quanto caratterizzata da una complessa mescidanza di tonalità comiche e drammatiche, di realtà concrete e astratti teoremi, di ironia e serietà, di sarcasmo ed umorismo, di tragedia e farsa, e nella quale si prendono criticamente le distanze dai difetti, dalle colpe, dalle follie, dalle plateali stupidità del nostro tempo dominato dalla televisione e dai quiz, cioè dal vuoto culturale, con sullo sfondo una società allo sbando, ricca di presunzione quanto povera di valori e qualità. E, a questo punto, ci appare anche evidente come il concetto bachtiniano di “carnevalizzazione letteraria” (e il “rovesciamento dei valori” che esso comporta come strumento di verifica sul piano etico) sia stato magistralmente adottato ed elaborato dall’autore.
            Con scelta spregiudicata, Di Pietro ha deciso di non tener quasi conto della variabile “lettore”. Quest’ultimo si trova dunque lì per lì logicamente spiazzato, in difficoltà di immediato orientamento; e solo alla fine (come premio di una costanza agevolata dalla musica dei versi, dalla originalità delle invenzioni, dalla suggestione dei suoni accompagnata dalla totale pienezza del senso) vedrà chiaramente collocarsi al loro posto, in un quadro complessivo ben decifrabile, le tessere di un articolato mosaico poetico in cui nemmeno una battuta risulta affidata al caso: un testo organico, che l’autore stesso, in una nota, riconoscendone dunque la valenza enigmatica ed ermetica, definisce giustamente un “puzzle giallo”.
            Per una operazione del genere occorreva una sapienza notevole di impronta tipicamente “postmoderna”; ed io mi sento anzitutto di offrire all’autore l’omaggio della mia stupita e convinta ammirazione.
            Ma io sto scrivendo una postfazione e do per scontato che i “miei” lettori abbiano già letto con attenzione sia il testo sia le note (molto utili se non indispensabili, in questo caso, per la loro stretta complementarità rispetto ai versi). Mi pongo dunque, con questi lettori, una domanda, forse superflua, ma che la critica (per la sua ineliminabile funzione di chiarimento, sistemazione e razionalizzazione) non può evitare di porsi: a quale genere, a quale tipologia letteraria appartiene l’opera che ho letto? La difficoltà di dare una risposta univoca a questa domanda, se da un lato conferma la ricchezza e la complessità dell’opera stessa, dall’altro ne indica la sostanza enigmatica e suggerisce che una certa percentuale (più elevata del solito, in quanto un margine di mistero irrisolto è tipico di ogni autentica poesia) di testo rimanga sottratta alla immediata comprensione del lettore. (Ma, aggiungo, non sta forse qui il fascino di una suspense implicita nella trama di un racconto che, fin dall’inizio, presenta dei richiami inconfondibilmente ”gialli”?) Una volta deciso di definire il libro “poema”, resterà ancora da precisare il sottogenere: poema mitologico, pedagogico, metapoetico, filosofico, tragicomico? Ognuno degli appellativi che ho appena usato si adatta ad aspetti dell’opera, ma nessuno di essi ne definisce, esaurendola, la sostanza. D’altra parte, non possiamo nemmeno dimenticare che la commistione dei generi è, dopotutto, una delle caratteristiche fondamentali della letteratura postmoderna; e qui Di Pietro sembra volercene offrire un esempio lampante. Lo chiamerò, visto che è in gran parte costituito da dialoghi (con le parti narrative - molto belle nel loro sostanziale lirismo - che esercitano la funzione di didascalie) “poema teatrale”, senza ulteriori specificazioni, sottolineando ancora la molteplicità ricchissima di spunti diversi da cui deriva l’esigenza delle note, che l’autore ha redatto in terza persona, con garbato distacco e con spunti autoironici che dimostrano la sua intelligenza e maturità di “luuupo”  posseduto, come Asterio, dal demone della cultura e dell’arte.
            Ripercorreremo  per lampi e salti, rapidamente, il poema, dal fervido luminoso incipit primaverile fino all’urlo nero di Fedra per l’uccisione del lupo, mettendo in risalto almeno due aspetti essenziali  l’impostazione strutturale, la tipologia dei personaggi ed i ritratti linguistici.

Una struttura dialogica tripartita.

Il poema è suddiviso in tre parti di lunghezza assai diversa: a) ANABASI (240 versi), b) STRANO INTERLUDIO (oltre 2800 versi) e c) CATABASI (oltre 800 versi). Il totale dei versi (intorno ai 4.000) pur lontano dai tradizionali poemi italiani (14.233 la Commedia, 38.688 il Furioso, 15366 la Gerusalemme) risulta alto se si confronta alle composizioni ottocentesche o novecentesche (395 I Sepolcri, 317 La Ginestra, 433 versi La terra desolata di Eliot) ed indica l’effettiva volontà di costruire non una silloge di composizioni (come era ancora il lavoro precedente In soliloquio dialogando) ma un vero e proprio poema, con l’aggiuntiva particolarità della struttura dialogica di lontana illustre derivazione, se pensiamo che i dialoganti si chiamano Fedra, Clitennestra, Asterio-Ippolito, Arianna...
            La prima sezione (Anabasi) è caratterizzata, rispetto al resto del poema, risolto quasi esclusivamente in dialoghi e monologhi, dalla presenza di alcuni consistenti inserti narrativi (il risveglio, il cammino nel bosco, l’arrivo alla casa della nonna) intervallati dal dialogo diretto Madre-Fedra e dal ricordo “testuale” delle raccomandazioni della Madre. Particolarmente suggestivo il breve intenso inizio narrativo, che già abbiamo esaminato; la fanciulla indossa gli abiti della sorella più grande (Arianna, il cui nome è anticipazione della funzione importante che il personaggio avrà nel finale) e si scontra subito con la madre eternamente ansiosa / del respirare stesso della figlia. Fedra vuole andare a trovare la nonna Clitennestra, il cui nome appare presto nel discorso della madre. Sia nel dialogo sia nelle raccomandazioni, accanto alla centrale preoccupazione della madre (evidentemente invidiosa dell’appeal sessuale della figlia che va ormai superando il suo; si noti la sua preoccupazione per il vestito succinto e la sua sollecitudine nel chiudere il mantello e coprire i riccioli di lei) sul pericolo della perdita della virtù della bambina, si intravvede già l‘immagine del personaggio principale, il lupo Asterio, implicitamente indicato come pericoloso tentatore di bambini e poi, esplicitamente presentato (quell’Asterio! / Che là sotto le stelle / quando la notte è chiara/ quand’è di luna piena, / caaanta!), col suo fascino di notturno menestrello, bugiardo d’un lupaccio ammaliatore. Anche nella traversata del bosco, Fedra rallenta e si ferma per i sentieri, conscia di un’altra presenza, suggerita da labili segnali: il richiamo di un merlo, invito e promessa insieme, ed un occhio cilestrino che la spia con bizzarro affetto. La sezione iniziale fa dunque da ouverture del poema, delineandone le principali tematiche collegate ai personaggi che appariranno in seguito.

            La seconda sezione del poema (Strano interludio) è la parte decisamente più estesa, ed è nettamente divisa in due parti: la prima contiene il dialogo fra il lupo e la bimba, si distende per circa duemila versi e rappresenta il nucleo concettuale dell’opera, segnando la ancora inconsapevole evoluzione interiore di Fedra e delineando a tutto tondo la figura di Asterio, con il suo ardore filosofico e pedagogico che resta in gran parte, per il momento, ignorato e frainteso dalla interlocutrice. Il colloquio avviene nel letto della nonna, e la bambina gradualmente scopre il lupo, senza provare disagio o paura, anzi viene affascinata dal suo folto pelame bianco. E’ un dialogo che procede faticosamente, perché i due interlocutori usano linguaggi diversi: il gergo giovanile lei - con l’aggiuntivo inserimento di espressioni assurde ed errate imitanti il parlar materno -; la lingua alta ed eloquente della cultura lui, che cerca soprattutto di inculcare in lei la differenza tra il credere  ed il pensare, oltre che il pericolo del falso immaginare. Nella voce del lupo poi risuona l’eco della poesia del passato, con una ricca serie di allusioni dai classici antichi a Dante, da Shakespeare a Leopardi, da Byron agli Scapigliati ed a Montale. Nella parlata del lupo brillano inoltre alcuni spunti lirici, come i versi che mi hanno suggerito il titolo di questa riflessione: Asterio è convinto, come ha appena affermato Fedra, che esiste la fortuna... e la definisce, alludendo, con delicata immagine lirica, al loro incontro:
                                                            ... è il volo
                                                d’ignara coccinella
                                                che nel posarsi incontra un quadrifoglio.
Ma verso la fine del colloquio il dichiarato amore del lupo per la bimba (amore di educatore, filosofo e psicopompo) viene completamente frainteso da lei. Questa parte si chiude con la fuga di Fedra indispettita ed offesa dal rifiuto, da parte del lupo, della sua offerta erotica, e pur profondamente legata ormai a lui.
Nella seconda parte, più breve, dopo che il lupo si è abbandonato a lampi di citazioni poetiche d’amore (Dante, provenzali, Leopardi), per il suo desiderio - simile a quello dell’autore dell’autore - di voler individuare e dare senso alla Parola poetica, Asterio raggiunge Clitennestra, che, quasi per una specie di contrappasso (il lupo aveva parlato a lungo con Fedra) rivolge ad Asterio (un tempo suo discepolo)  un discorso che non lascia a lui nessuno spazio: il lupo dovrà limitarsi ad ascoltare, esprimendo il suo parere con semplici reazioni fisiognomiche, senza poter pronunciare una sola parola. Clitennestra è la voce della esperienza, della cultura, anche della conoscenza dell’ornitologia e del valore simbolico delle creature alate (e si vedano le note illuminanti, redatte dall’autore a questo riguardo); il suo discorrere ha analogie con la parlata del lupo (che è stato non a caso suo discepolo), in quanto è di tono alto ed eloquente, ma di una eloquenza più calcolata e meno istintiva. paradossalmente l’episodio si conclude con l’unione carnale/spirituale tra la vecchia signora ed il lupo, quasi una sostituzione del mancato amplesso con Fedra. Ma questo atto mancato - creduto reale dalla Madre - sarà la causa della fine tragica di Asterio.
La terza sezione (Catabasi), di 800 versi, segna il ritorno al punto di partenza, il richiudersi del cerchio e conclude l’opera sistemando al loro posto le tessere del mosaico complessivo, rivelando, fra l’altro, come Asterio sia venuto in contatto con tutti gli altri personaggi per contribuire - non certo nel caso della madre, essere statico e incapace di qualsiasi positiva evoluzione, ma per tutti gli altri, dotati di potenzialità - alla loro crescita e maturazione. Come nella evoluzione della tragedia classica, dopo il dialogo ed il monologo si passa, con l’introduzione del tritagonista, ad una vera e propria azione teatrale, con l’intrecciarsi delle voci tipicizzate di tre personaggi, due che conosciamo già (la Madre e Fedra), una nuova, la più nitida e sicura, la voce di Arianna, Signora del Labirinto, di colei che possiede il filo per guidarci alla conclusione e per intrecciare, al di là della comprensione materna, un discorso che consente alla sorella minore di capire quanto le è stato dato da Asterio, così da porsi poi, nell’episodio del sogno, di fronte al proprio personale Minotauro, affrontando per la prima volta la propria interiorità e specchiandosi nella propria coscienza, fino alla consapevolezza che per causa sua il lupo è andato incontro al proprio destino di morte, abbattuto dalla fucilata della Madre. Ma per quest’ultima sezione e dei ritratti linguistici di essa tratterò ancora nel paragrafo successivo.

Tipologia dei personaggi e ritratti linguistici

Nel poema l’autore definisce i personaggi attraverso la loro parlata, in cui svelano, per lo più inconsapevolmente, il carattere, la formazione, la mentalità, la sensibilità (o l’assoluta assenza di essa). Ciò, si replicherà, è normale e tipico di qualsiasi opera teatrale. Ne siamo proprio sicuri? In realtà ciò accade raramente, almeno con le differenziazioni nette che troviamo in queste pagine; e occorre perciò rilevare come, in questa non facile impresa, Di Pietro dia davvero prova di qualità letterarie di straordinario, encomiabile livello. Se noi sfogliamo il libro e leggiamo due o tre versi di una battuta, subito riconosciamo il personaggio: qui è Asterio che parla, qui è Clitennestra, qui è Arianna, qui è Fedra (o la madre, in quanto i “ritratti linguistici” delle due sono confinanti ed intrecciati, come è logico: una bambina imita istintivamente la madre, assimilandone tipiche espressioni).

Asterio Ippolito o l’educatore. Il vero protagonista, costantemente presente o con le sue parole o nel pensiero e nelle indicazioni degli altri personaggi, è il lupo Asterio-Ippolito. Nella visione volutamente rovesciata (“carnevalizzata”) ed anticonformista dell’autore (non dimentichiamo il titolo generale del ciclo A testa in giù, di cui Phantaasia non Imaginaatio Vera è solo una parte – e si noti, fra l’altro, come quel “non”, essendo studiatamente attribuibile al primo come al secondo termine, intenda richiamarsi ai famosi responsi “ambivalenti”, tipici delle sibille dell’antichità) l’istinto, rappresentato dall’animale, sta al disopra della ragione: l’animale balza in alto, l’uomo precipita in basso. Asterio il “bianco” rappresenta la superiorità intellettuale ed etica che, in un mondo “sbagliato” come quello in cui viviamo, è considerato, per la sua estraneità ai falsi valori che soltanto quel mondo riconosce, emarginato, condannato come “diverso”. E’ il destino che già Baudelaire assegnava al poeta nei Fiori del male, quando lo assimilava all’albatro, uccello maestoso e bellissimo quando domina la tempesta e sfida l’arciere, goffo ed irriso quando approda sulla tolda della nave, ove ses ailes de géant l’empèchent de marcher. Lettore di poeti, assimilati dall’educazione ricevuta da Clitennestra, Asterio usa un linguaggio istintivamente alto e retorico, ricco di citazioni ed allusioni culturali, con cui fa emergere un atteggiamento di filosofo con vocazione pedagogica, intrisa di benevolenza nei confronti della bambina che, addestrata dalla meschinità della madre, equivoca sulle sue intenzioni e, quando le scopre, si infuria in quanto si sente umiliata dalla mancata corrispondenza sul piano erotico all’attrazione indubbia che lei prova per il lupo, il quale ha invece scoperto in lei delle potenzialità sentimentali e razionali degne di essere coltivate.
Clitennestra è quasi una variante al femminile di Asterio (di cui non a caso l’autore ipotizza lei nella funzione antecedente e mai deposta di maestra ed educatrice); infatti tra i due c’è una sostanziale analogia di linguaggio: la scelta dello stile elevato ed eloquente (tragico lo definivano gli antichi) è analoga nei due, anche se in lui prevalentemente istintiva, in lei più voluta e consapevole. L’autore evita (forse perché qui non si sarebbe potuto realizzare il contrasto chiaroscurale, ovunque sempre presente nell’opera, fra voci diverse fra di loro?) un vero e proprio dialogo tra i due, facendo di Asterio un ascoltatore del discorso di Clitennestra, attento sempre, ora rilassato, ora irritato, ora infelice per ciò che ascolta, ma incapace di interloquire.
Ma i ritratti linguistici (e psicologici insieme, se pensiamo, come l’autore, al potere della Parola poetica di offrire qualche prezioso barlume di verità) che risaltano maggiormente dalla struttura dialogica, sono quelli della terza sezione, con il complesso scambio di “battute a tre” che scaturisce spontaneamente dalla confusa narrazione di Fedra in seguito al suo ritorno dal bosco, con le vesti “inspiegabilmente” lacere e il corpicino in realtà solo graffiato dai rovi.
Fedra (e la sua voce, i toni della sua parlata gergal-scolastico-infantile resta quella che ascoltavamo già nel dialogo col lupo) rappresenta l’ingenuità e la curiosità; piange e si lamenta, nel finale dialogo a tre, perché il lupo l’ha rifiutata, ma la Madre non la capisce ed equivoca (per la sua segreta gelosia e inconfessata voglia... di lupo) sulle sue parole, interpretandole in senso opposto al loro vero significato. Caratterizzano il linguaggio della bimba, oltre che il vezzo di allungare le vocali toniche con una lagna infantile, l’uso improprio e senza dubbio molto divertente del lessico, spesso ricco di maliziosi doppi sensi, specie nel caso di parole difficili fantasiosamente scorciate o allungate; e l’utilizzazione del gergo giovanile, di cui l’autore compila in appendice un elenco con le opportune spiegazioni.
La Madre, dal punto di vista psicologico caratteriale, per una evidente volontà dell’autore che in lei forse intende sintetizzare tutto ciò che più odia o che più lo infastidisce, risulta un personaggio del tutto negativo: è superficiale, incapace di porsi dal punto di vista altrui, ignorante e di una stupidità tale da ritenersi la più lungimirante e saggia delle madri; non le manca una buona dose di invidia ed una inconfessata brutale attrazione verso il lupo, che si muta in odio feroce quando crede che le sia stata preferita la figlia. L’autore rende evidenti al lettore questi difetti non soltanto attraverso le cose che la donna dice, ma attraverso il modo in cui le dice: le scelte lessicali e stilistiche legate al linguaggio televisivo, gli errori plateali, i toni che denunciano egocentrismo, grettezza, insensibilità, presunzione. Ne risulta un ritratto linguistico di eccezionale coerenza e vivacità, capace di dar vita possente ad uno dei personaggi più detestabili che come lettore io abbia mai incontrato.
Arianna o la cultura organizzatrice.  Il personaggio della sorella maggiore è forse quello risolutivo. Presente di scorcio (la “Nanni” citata nelle prime battute) fin dall’inizio del poema, trova il suo spazio e la sua funzione nel finale, ove sembra riprendere la funzione educativa, rimasta incompiuta, di Asterio nei confronti di Fedra. Risulta dal suo discorso (razionale e preciso, ma anche allusivo, per farsi capire sufficientemente dalla bambina impedendo nello stesso tempo la comprensione da parte della madre) una personalità adulta e sicura, una capacità di riflessione filosofica (è una studentessa di filosofia, ha conosciuto Asterio e lo ha convinto a partecipare come esperto ad un seminario). Il suo linguaggio sobrio e misurato si distacca nettamente da quello degli altri personaggi.

Un’opera complessa e forse tanto più affascinante in quanto insolitamente ardua, quella che abbiamo appena letto e sulla quale (o meglio, su alcuni spunti ed aspetti della quale) ho steso queste mie modeste semplici riflessioni; in effetti, l’apparente “difficoltà” del poema teatrale di Di Pietro non è di quelle che deludono o respingono: è di quelle che incuriosiscono, stimolano, spronano a rileggere e ad approfondire, per tentare di sciogliere gli enigmi residui presenti frale righe; ed inducono magari il lettore a ricercare nel profondo della coscienza il confronto con il simbolico Minotauro che, secondo Marguerite Yourcenar, si annida dentro ciascuno di noi.

Andrea Maia

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