POETANDO
lunedì, agosto 30
IL POTERE DELLA PAROLA di FERNANDO SORRENTINO
domenica, agosto 29
LA BANDIERA MIGRANTE DI NIAMEY E IL SOGNO DI LUTHER KING di PADRE MAURO ARMANINO
venerdì, agosto 27
LA PRIMAVERA di RENATA RUSCA ZARGAR
LA PRIMAVERA
Un nuovo odore si assaporava nell’aria fresca: un misto di profumi di fiori inconsueti, del sole, di quelle nuvolette birichine a riccioli… un bisogno di qualcosa di insolito e diverso, un sentore di vita novella che la riportava al suo paese.
Lui faceva il rappresentante e viaggiava tutto il giorno sulle strade assolate della provincia. Poi, al tramonto, quando l’aria era più dolce e i colori diventavano sfumati, passava davanti alla sua villetta rossa e suonava il clacson.
Ella, che aveva trascorso il mattino a prendere il sole sugli scogli bruniti dal mare e il primo pomeriggio nella frescura della casa con le imposte chiuse a ripararsi dall’afa, sbucava fuori sulla ghiaia del giardino, apriva il cancello e s’infilava in macchina. La cena in un ristorante vicino al mare dal quale giungeva la brezza salmastra e poi, per mano, passeggiavano sulla spiaggia ormai deserta. La luna e le stelle rimanevano sole spettatrici di baci e carezze, un ritorno alle origini, quasi un Paradiso terrestre.
Le vacanze, però, duravano solo pochi giorni, quindi, Eliana tornava in Liguria e la loro relazione restava là, immobile, ad attendere un’altra vacanza in Puglia l’anno dopo.
Infatti, Paolo era già stato sposato, anni prima, e la rottura con la moglie gli pesava ancora sull’animo. Non voleva compiere un passo troppo affrettato. Eliana, inoltre, lavorava al nord e, dunque, tra loro, non ci poteva essere di più.
Tornata a casa, Eliana riprendeva la solita vita: le amiche, la spiaggia (anche in Liguria abitava proprio in faccia al mare), il lavoro, qualche divertimento, qualche nuova conoscenza che non le dava mai, però, un sentimento vero.
Una sera, uscita dalla palestra dove si recava per qualche ora la settimana a fare un po’ di esercizio, aveva trovato una vettura parcheggiata in seconda fila proprio in modo da impedire l’uscita al suo mezzo. Era entrata allora nel pub, le cui insegne luminose blu spiccavano nel buio della via, e aveva chiesto chi ne fosse il proprietario. Un giovane deciso, dai lunghi capelli castani e gli immancabili jeans, le era venuto incontro. I loro sguardi si erano incrociati per un attimo. Poi egli aveva spostato la macchina ed ella era andata via.
Ma lo stesso fatto era successo ancora ed ella era ritornata nel pub perché Giorgio (così si chiamava l’uomo) uscisse a spostare la sua automobile. Naturalmente, prima Giorgio le aveva offerto qualcosa, poi erano rimasti un po’ a parlare…
Le giornate sembravano rosee, il lavoro più leggero, l’anziana madre e la zia seminferma meno noiose.
Un sorriso aleggiava continuamente sulle labbra di Eliana mentre il pensiero, immancabilmente, volava là ogni momento: il sorriso di lui, la sua gentilezza, la simpatia, le battute scherzose che sapeva fare…
Durante il giorno, ricordava la sera precedente, una segreta dolcezza nell’animo nascosta al resto del mondo, l’incontro con lui, le parole dette e ascoltate: allora il cuore era denso di felicità.
Giorgio era separato dalla moglie e aveva un figlio. Lavorava come autista per una ditta di vendite a domicilio e, per tutta la giornata, si affaticava a guidare e a consegnare i prodotti ordinati dai clienti. Era sempre molto stanco e anch’egli aveva timore di una nuova relazione ma molti loro progetti erano simili: andare a vivere in campagna, fuori dalla città sporca e caotica, allevare animali…
Ancora un nuovo odore nell’aria primaverile, un bisogno di qualcosa di insolito e diverso: ebbene, questa volta tutto ciò era arrivato! Dopo pochi mesi dal primo incontro, erano andati veramente a vivere insieme in un piccolo paesino dell’entroterra e la loro vecchia casa si era riempita di conigli, galline e cani. Intorno, i prati verdi profumavano di fiori, il cielo era terso e l’aria fresca anche d’estate. Poi, d’inverno, le montagne si coprivano di candida neve, mentre il silenzio avvolgeva tutte le cose.
Giorgio aveva cambiato lavoro: conduceva uno di quei lunghi tir che attraversano gli stati e tutto questo per poter rimanere, durante i giorni di riposo, a casa con lei a curare piante e animali.
Nel letto di ospedale in cui si trovava da diversi giorni, Eliana conservava quel dito di capelli tinti rosso carota sulla testa ossuta –teschio ricoperto di pelle- che ricordavano i tempi in cui, sana, amava averli di quel colore che le donava e piaceva tanto a Giorgio. Sembrava una di quelle persone che si vedono nelle vecchie immagini dei campi di concentramento. Dormiva con la bocca semiaperta con i denti lunghi che spuntavano dalle labbra, un catetere nel naso perché tutto ciò che beveva uscisse subito dallo stomaco che non reggeva più nulla, due flebo infilate nelle vene del braccio.
Il sole si appoggiava su un riquadro della porta azzurra, grandi vasi di piante adornavano il corridoio con il pavimento di linoleum azzurro sempre pulito. Una vicina di letto tossiva e scatarrava in continuazione, l’altra conversava al telefonino raccontando gli acciacchi che l’avevano colpita.
Eliana si svegliava a tratti da quel dormiveglia e, anche se si sentiva tanto stanca, faceva fatica a riposare un po’. La pancia gonfia le impediva il respiro.
Era di nuovo primavera e, chiudendo gli occhi, ricordava quel giorno – erano trascorsi solo quattro anni- in cui finalmente lei e Giorgio avevano deciso di avere un figlio. Ormai, la loro relazione si era consolidata, avevano acceso un mutuo in banca per aggiustare la casa, i cani avevano avuto i piccoli che zampettavano intorno masticando le gambe delle sedie.
Aveva preso, dunque, l’appuntamento con il ginecologo per togliere la spirale che usava quale contraccettivo e iniziare un altro capitolo della sua vita.
–Eliana, voglio fare dei controlli più approfonditi. -le aveva detto il medico. E dopo quindici giorni c’era stata anche la risposta: un cancro all’utero. Disperata, era corsa da Giorgio che l’aveva presa tra le braccia e consolata.
Il mattino seguente, egli era partito per un lungo trasporto in Francia. Si sentivano sul telefonino.
Eliana era entrata in ospedale per l’operazione.
Giorgio non era tornato.
Spesso, il suo cellulare era spento e quando riusciva a raggiungerlo, egli diceva di essere sempre impegnato in Francia.
Dopo l’intervento, le avevano prescritto la chemioterapia. Eliana la sopportava molto bene, riusciva a continuare molte attività lo stesso, anche se aveva dovuto fermarsi in città, in casa della madre.
Infine, dopo un paio di mesi, era tornata nella loro abitazione tra i prati in fiore. Finalmente, tutto sarebbe stato come prima. Forse era guarita definitivamente. Certo, non avrebbe mai più potuto avere bambini, ma sarebbero stati loro due insieme, con gli animali che amavano tanto. E poi, Giorgio un figlio l’aveva già…
Egli era arrivato, un giorno, finalmente, ma non l’aveva toccata. Né aveva pagato la rata del mutuo.
I viaggi si facevano sempre più lunghi e frequenti -lavoro, egli diceva- e, quando tornava in Italia, si fermava spesso a casa del padre per non disturbarla.
Infine, era stato proprio il padre di Giorgio a dirle di lasciarlo perdere che, ormai, la loro relazione era finita.
Non ci poteva essere niente di più crudele! Il suo amore, dunque, non esisteva più! Le restavano da pagare le rate del mutuo che, insieme, avevano stipulato per riaggiustare la casa, la “loro” casa, così come l’avevano vista e amata subito, un giorno non tanto lontano.
Eliana non si era persa d’animo. Avrebbe lavorato, ce l’avrebbe fatta anche da sola. Il destino non aveva voluto che lei avesse un figlio. E neppure che avesse un compagno.
Spesso, si sentiva come spezzata, senza futuro, senza speranza.
Di notte, l’immagine di lui tormentava i suoi sogni, e si svegliava con un tremendo dolore al petto.
Ed egli non c’era. Non aveva messo più piede alla loro fattoria e aveva perfino mandato il padre a ritirare la sua roba!
Era tornata, infine, qualche volta in Puglia, nei periodi in cui stava meglio e non doveva seguire cure. Ma ormai l’aria del paese d’origine non le faceva più lo stesso effetto e Paolo le sembrava diverso: non si sentiva di vederlo ancora.
Poi, dopo alcuni mesi, i controlli di routine: le analisi del sangue avevano dei valori sballati. Altra chemioterapia, un’altra operazione…
-Anche se dovessi farmi operare una volta l’anno, mi andrebbe bene lo stesso, pur di vivere ancora! Ho tanto da fare! - diceva all’amica.
Ed era stato così: infine, le operazioni erano state quattro e molti i cicli di chemioterapia.
Solo, quest’ultima volta, il recupero era un po’ lento, non riusciva a mangiare perché vomitava subito dopo aver ingerito qualcosa e, inoltre, non poteva neppure bere. Ma sapeva che ce l’avrebbe fatta!
–Devo riuscire! - diceva sforzandosi di mettersi a sedere sul letto. -Poi, quando uscirò di qui, cambierò lavoro. Voglio andare in montagna in vacanza, voglio provare ad andare in canoa…-
I progetti erano sempre diversi e s’era fatta portare un blocchetto dove scriveva i turni che le amiche le facevano per non lasciarla mai sola. Dirigeva dal letto la sua assistenza.
-Che ne dici, - aveva detto un giorno all’amica di turno - un paio di orecchini con una perla bianca da portare qui, in ospedale, ti sembra che mi starebbero bene? -
A Giorgio piacevano tanto gli orecchini, ma ormai, anche il suo ricordo era sfumato e il dolore attutito. Lo vedevano in giro con un’altra donna. Mai lo aveva incontrato, neppure per la strada. Pazienza, era andata così. In fondo, si può vivere anche da soli. L’importante è stare bene!
La sera stessa l’amica le aveva portato un bel paio di orecchini d’oro con la perlina bianca. Subito Eliana li aveva indossati e s’era guardata nello specchio. Erano proprio adatti per stare nel letto: non molto grandi ma eleganti. Il fatto era che il suo viso era divenuto così magro! Chissà quanto avrebbe impiegato a ritornare un po’ in carne! E pensare che prima il suo problema era quello di stare sempre a dieta per non ingrassare!
Da domani avrebbe cercato di mangiare qualcosa, magari un frutto. Certo, un’arancia, che buona! Domani avrebbe mangiato un’arancia!
La bara lucida di legno chiaro ricoperta di fiori si trovava là, nella navata centrale della chiesa. Tutto intorno, tra colonne barocche, statue e dipinti, la gente si accalcava. Le parole del prete si spandevano tra le facce e gli occhi lucidi dei presenti: - Chi crede sa che Eliana ha iniziato un’altra vita senza dolore, accompagnata dal Padre. –
Il suo spirito attonito si aggirava là intorno ad osservare la gente che affollava la chiesa. Era di nuovo primavera. “Avrei voluto vivere ancora.” pensava.
Renata Rusca Zargar
mercoledì, agosto 25
A RENATA IN RISPOSTA AL SUO ARTICOLO SU "TALEBANI BRAVE PERSONE" di DANILA OPPIO
Carissima Renata, ho letto e pubblicato il tuo articolo che condivido pienamente.
Nessuna guerra è utile, perché disumana. Togliere la vita altrui, attraverso femminicidi, guerre, o qualunque altra sia la ragione per cui si uccide, è contraria alla Vita. A qualsiasi religione si appartenga o anche atei convinti. Non so cosa sia vero di quanto si legge in questi giorni sui talebani (studenti del Corano se non sbaglio, o universitari, visto che Taliban طالبان significa appunto studenti. Infatti in arabo per dire "sono studente presso la scuola...! si dice أنا طالب في المدرسة 'ana talib fi almadrasa...
Quando un popolo si solleva e prende in mano le armi, è esasperato da governi che non rispettano norme essenziali, o da "invasori" come lo sono stati gli Stati Uniti nei confronti di molti Paesi del mondo, non dimentichiamo il Vietnam.
Ho conosciuto coppie di musulmani molto unite tra loro, dove il marito rispetta la moglie e la moglie il marito. In occidente questo non accade quasi più. Comodo accusare il vicino, di colpe che noi stessi abbiamo in abbondanza, e se posso cito un'espressione di Gesù, che parla chiaro: "non guardare alla pagliuzza nell'occhio del vicino, quando tu hai una grossa trave nel tuo". Quindi, come tenevo per i palestinesi quand'ero giovane, che stavano perdendo la loro terra a causa dei sionisti, che si sono pian piano impadroniti della Palestina, e ancor oggi non hanno smesso, così sono dalla parte dei talebani, se riescono a cacciar via gli intrusi. E non credo che facciano del male alle donne, secondo me vogliono solo che stiano dalla loro parte. Magari sbaglio, non so, ma credo che sia ora che gli occidentali la smettano di invadere, e non solo con armi, anche con la loro mentalità, inculcandola nelle popolazioni che desiderano mantenere i propri usi e costumi: è un loro sacrosanto diritto!
Danila
p.s.: non dimentichiamo che durante tutta la Storia dell’umanità, gli europei e in seguito i conquistatori del Nuovo Mondo, hanno cancellato dalla faccia della terra intere etnie, come quella dei Nativi Americani, e quelle appartenenti alle Civiltà Precolombiane. Poi si sono impossessati di terre asiatiche, africane e perfino oceaniche. E’ ora di smetterla!
TALEBANI BRAVE PERSONE di RENATA RUSCA ZARGAR
Talebani brave persone
Sento continuamente citare le femministe quando, in questi giorni, si parla dell’Afghanistan. Soprattutto perché le femministe non sostengono che quella in Kabul fosse una guerra giusta per salvare le donne afghane segregate e torturate dai talebani.
Bene. Io sono femminista dall’età di undici anni (moltissimo tempo fa) quando, di mia iniziativa, ho cominciato a non accettare alcuni ruoli casalinghi stabiliti dal maschio per le femmine.
Oltre a ciò, io sono italiana e, oggi, faccio molta fatica a mantenere i miei valori di parità con il maschio in un paese dove (forse non ci si fa caso) sono sempre più comuni lo stupro (ma erano ragazze ubriache - si dice per giustificare il delitto - poco vestite e quant'altro!) e il femminicidio (uno ogni tre giorni, alle volte anche due in un giorno solo).
Quando le mie figlie erano piccole, ho fatto fatica a far loro capire quanto conti studiare per avere una professione e accedere all’indipendenza economica, cioè alla libertà. Mio marito ha insistito su questo punto fin dai tempi dell’asilo nido delle bambine.
Perché ho fatto fatica? Magari perché la tendenza comune è di non studiare, di preoccuparsi solo del divertimento (che poi sarebbe ubriacarsi) e altre amenità. Non è facile scegliere il sacrificio, Pinocchio insegna.
Sinceramente, non so cosa potrei fare per le donne afghane, come non ho idea di cosa fare, ad esempio, per le donne dell'Arabia Saudita (che solo recentemente, bontà saudita - rinascimento! - hanno potuto guidare l'auto e uscire di casa da sole). O per le donne turche (Erdogan si è ritirato dalla Convenzione di Istanbul, strumento per proteggere le donne dalla violenza) o per tutti gli Egiziani/e prigionieri di un’implacabile dittatura.
La segregazione delle donne è colpa dell'Islam?
Io non lo credo.
Nel Seicento d.C., quando è nato l’Islam, le donne non esistevano neppure come esseri umani. L’uomo aveva diritto di vita e di morte su di loro. Se volete, leggete la storia dei Romani, tanto per fare un esempio che ci tocca da vicino.
L'Islam è stato precursore dei diritti della donna in tempi in cui le bambine venivano addirittura uccise con facilità e la femmina era, comunque, solo una merce.
Il Corano, infatti, accorda alla donna lo stesso status e gli stessi diritti dell’uomo. Ella ha il diritto di acquisire conoscenza, di possedere delle proprietà, di migliorare economicamente. É celebrata come madre perché “Il Paradiso sta sotto i piedi delle madri” ma è anche sollevata dall’essere l’unica responsabile della cacciata dal Paradiso terrestre come tentatrice e seduttrice. Infatti, secondo il Corano, Adamo ed Eva hanno sbagliato entrambi, in parità.
Questo significa che l’orientamento islamico era, come diremmo oggi, progressista, anzi, anticipatore di molti secoli per quanto riguarda la liberazione della donna. Chi avesse compreso le finalità islamiche avrebbe dovuto continuare sulla strada della dignità e della consapevolezza nell’esistenza della donna. Se il Profeta aveva tracciato una via, nell’avanzare del tempo, nel cambiamento delle condizioni di vita, si sarebbe dovuto seguire quello stesso cammino adattandosi ai tempi.
Invece, si è dato spazio, per comodo del maschio -padrone, a mostruose usanze tribali che nulla hanno a che vedere con la religione, esattamente come non pensiamo affatto che il Cristianesimo sia una fede per pedofili.
Ebbene, ora gli Americani guerrafondai e imperialisti, stanchi di una delle loro tante guerre, non avendo più interessi nella zona, hanno riabilitato i tanto vituperati talebani, trascinandoli fuori dalle galere e dall’esilio dove si trovavano, per consegnare loro l’Afghanistan.
I talebani sono diventati brave persone e cosa potrebbero fare le femministe di fronte al diktat americano?
D’altra parte, cosa hanno potuto fare le femministe per le donne afroamericane e ispaniche, che vivono negli Stati Uniti, i cui diritti non sono affatto rispettati?
Infine, una femminista non può difendere una qualsiasi guerra perché la guerra è morte, stupro, sofferenza, fame, privazione, per bambini, donne, giovani, anziani...
Nella guerra godono solo i trafficanti di armi che, ovviamente, non vanno mai a combattere.
Inoltre, una femminista non può accettare che anche un solo uomo debba morire per difenderne i diritti, perché non si può avere un diritto privando altri del più importante di tutti, che è la vita.
Comunque, se qualcuno, maschio o femmina, crede davvero che la guerra sia fonte di miglioramento nel mondo e soluzione dei problemi, abbia almeno la dignità, invece di stare a casa a sputare sentenze assurde, di alzarsi e andare a combattere personalmente. Così avrà modo di capire di cosa si stia parlando.
Renata Rusca Zargar
Articolo che ho scritto, mandato a Liguria2000news e Controluce.it La foto ovviamente l'ho presa in internet. Si nota un bambino in mezzo a quella gente. Perciò la ritengo significativa.
martedì, agosto 24
La girandola delle parole - anteprima premiazione - Terza edizione
sabato, agosto 21
I LUTTI SENZA FINE DEL SAHEL di Padre MAURO ARMANINO
Alcuni rifugiati con P. Mauro Armanino
I lutti senza fine del Sahel
Il mestiere più pericoloso nel Sahel adesso è quello del contadino. La strategia dei Gruppi Armati Terroristi li ha infatti presi come fin troppo facile bersaglio. Chini sulla terra da coltivare sono uccisi da uomini armati che arrivano all’improviso, il mattino o il pomeriggio, sicuri di trovarli al lavoro. I militari sono l’altro bersaglio dei Gruppi Armati quando pattugliano oppure sono di scorta ai civili com’è accaduto recentemente nel Burkina Faso. Si chiama la zona delle ‘tre frontiere’, quelle del Mali, del Niger e del citato Burkina Faso che si trova, suo malgrado, a essere una delle regioni più pericolose al mondo. Dall’inizio dell’anno i morti nel Sahel si contano ormai a centinaia. I massacri sono opera dei terroristi, banditi armati e sedicenti djihadisti ma anche delle Forze di Difesa e di Sicurezza oltre che dei gruppi di ‘autodifesa’ o suppletivi. Questi ultimi si sono costituiti in seguito all’evidente incapacità delle forze armate di difendere i contadini dei villaggi nella regione. Formati e armati in modo sommario si aggregano spesso, secondo appartenenze etniche, e ciò li rende vulnerabili agli attacchi dei gruppi armati. I lutti sono anche per loro.
Il Burkina Faso ha iniziato giovedì un lutto nazionale di tre giorni, in seguito all’attacco djihadista che ha ucciso 65 civili, 15 gendarmi e 6 suppletivi delle forze armate del Burkina. Secondo alcuni specialisti, i gruppi armati attaccano con più frequenza i convogli misti in vista di controllare questa parte del Paese. Il governo nigerino, da parte sua, lo scorso martedì ha decretato un lutto nazionale di 48 ore, in seguito all’attacco condotto lunedì da uomini armati non identificati, uccidendo 37 civili. Il lunedì 16 agosto l’attacco è stato perpetrato nei campi del villaggio. Tra questi si contano 13 minori e 4 donne. Il mese scorso lo stesso villaggio aveva subito un attacco simile. Uomini armati non identificati avevano ucciso 16 contadini che lavoravano nei loro campi. Questa zona si trova al confine col Mali e subisce attacchi armati fin dal 2017. Quindici soldati di questo paese sono stai uccisi durante un agguato imputato ai djihadisti il giovedì 19 agosto nel centro del Paese. Oltre une ventina sono stati feriti e condotti all’ospedale per cure.
Un lutto nazionale di 72 ore è stato decretato dal presidente della Transizione del Mali, Assimi Goita, per rendere omaggio alle vittime degli attacchi concertati in quattro villaggi nel nord del paese, nella notte da domenica a lunedì. Il presidente ha affermato che le forze armate del Mali faranno il possibile per ricercare e ‘neutralizzare’ gli autori di questa barbarie e chiede al popolo di rimanere unito e determinato in questa prova in vista di continuare la lotta contro il terrorismo. Chi parla, è colui che ha guidato l’ultimo colpo di stato nel Mali l’anno scorso. Da allora le cose non sono migliorate e le speranze riposte nella giunta militare si stanno gradualmente sfaldando. I giorni di lutto proclamato nel Sahel hanno ancora un bel futuro.
Un lutto nazionale di tre giorni è stato decretato per i soldati del Chad uccisi da Boko Haram, gruppo che a sua volta avrebbe perso un centinaio di combattenti. Nell’isola dell’omonimo lago le unità di Forza e Difesa citate erano state inviate per proteggere la popolazione. Neppure gli operatori umanitari sono risparmiati. Sui 35 umanitari uccisi dall’inizio dell’anno, 11 sono morti nel Sudan del Sud, 9 nella Repubblica Democratica del Congo e 2 in Centrafrica. La maggior parte delle vittime sono lavoratori locali e i loro nomi saranno presto dimenticati. Proprio come quelli dei contadini, dei soldati, e delle migliaia di donne e bambini, costretti fuggire per sopravvivere al prossimo lutto decretato dai governi dei Paesi del Sahel.
Il primo lutto è quello della politica che, per la sua assenza o per avidità di potere, ha tradito se stessa col popolo che dopo sessant’anni d’indipendenza merita di più che dichiarazioni di lutti. L’altro lutto è quello d’ideologie che hanno preso Dio in ostaggio e, profittando del vuoto della giustizia sociale colmato da radicalismi salafisti, crea e giustifica nel Suo nome i delitti più efferati. Il lutto più tragico, infine, è quello decretato dalle parole, perché tutto parte e si radica nella menzogna che altro non è che uno stupro perpetrato su di loro. I lutti si trasformeranno in gioia solo quando le parole risorgeranno dalle tombe e danzeranno con i bambini vestiti di festa.
Mauro Armanino, Niamey, 22 agosto 2021
venerdì, agosto 20
IL CAGNOLINO DI PELUCHE di RENATA RUSCA ZARGAR
domenica, agosto 15
IL RACCONTO di RENATA RUSCA ZARGAR
IL RACCONTO
Il sogno di Giuseppina, fin da quando era bambina, era stato quello di scrivere: racconti, romanzi, fiabe, qualsiasi cosa. Ma prima che suo il sogno era stato di suo padre Francesco che si vantava di essere stato molto bravo in italiano quando andava a scuola. Poi egli, occupato continuamente dal lavoro, in realtà, non aveva scritto neppure una riga né aveva letto neanche un libro tra quelli delle collane di romanzi e classici della letteratura che spesso acquistava.
I libri li leggeva Giuseppina ma, quanto a scrivere, il momento non era mai venuto neppure per lei.
Alcuni anni prima, infine, Francesco, tormentato, da tempo da una terribile malattia, era morto e mai era apparso nei sogni di Giuseppina che avrebbe voluto essere la sua figlia prediletta. Spesso, in situazioni speciali, le veniva alla mente ma non riusciva mai a sentirsi unita a lui come avrebbe desiderato.
Fu così che un giorno, approfittando di un’influenza che l’aveva confinata in casa, prese la penna e decise di raccontare l’ultima storia sua e di suo padre e di abbellirla un po’ con la fantasia.
L’OROLOGIO
Gino era entrato in coma la mattina del 15 luglio. Nessuno era presente in quel momento nella stanza d’ospedale a più letti dalle grandi vetrate che s’affacciavano sul saliscendi delle colline scure solidamente ancorate alle acque del golfo intensamente azzurro. L’infermiera di turno, che era giunta contemporaneamente al carrello delle pulizie per spalancare le persiane e aprire le finestre, l’aveva trovato là, nel letto, con la bocca semiaperta e il respiro rantolante.
Subito aveva chiamato il medico che, considerata ormai l’inutilità di ogni cura, l’aveva fatto trasferire in una stanzetta libera, a due letti, perché potesse morire al riparo da sguardi indiscreti.
Poco dopo, erano arrivate la figlia Rossana e Giulietta, la ragazza albanese che lo accudiva da quando era diventato incapace di camminare.
Esse si erano accinte a vegliare la sua fine.
Le ore trascorrevano lente e nulla cambiava.
Egli non apriva gli occhi né dava alcun segno, solo quell’arida bocca spalancata ad acchiappare il respiro lo teneva collegato alla realtà terrena.
Poi, era iniziata la notte: altre ore inesorabilmente lunghe.
Infine, un sussulto, dei gemiti, e dall’antro scuro della bocca era sgorgato un fiume verde di bile.
- Aiuto, infermiera! - aveva chiamato Rossana, sperando, forse, in una ripresa.
Quante volte, infatti, suo padre era stato dato per morto!
- Il corpo non ce la fa più! - dicevano i medici - Il fegato non funziona, i reni, l’intestino, si stanno disfacendo.
Eppure, ce l’aveva fatta tante volte.
Era tornato alla vita, lucido, seppur immobilizzato nel letto.
Altri giorni, invece, all’ora della visita, lo trovava là, tra lenzuola e biancheria gettate via, nudo, con il vomito che gli si attaccava addosso, incosciente…
Ma, ormai non c’era più nulla da sperare.
Il rantolo era ripreso uguale, il corpo era gelido anche sotto le coperte di lana nonostante la temperatura estiva.
Sul comodino c’era il suo orologio d’oro con il bel cinghino di pelle nera.
Gino amava gli orologi e ne aveva regalati tanti e diversi a Rossana: di metallo, d’oro o d’argento, subacquei, con disegni colorati…
Rossana teneva tra le mani quell’ultimo oggetto di suo padre: funzionava perfettamente e segnava con indifferenza lo scorrere di quelle ore dense di dolore.
Poi, un altro giorno era sopravvenuto: 16 luglio, il compleanno di Rossana.
Ella aveva letto in un libro che alcune date sono molto importanti per noi: gli stessi numeri tornano ciclicamente a indicare eventi positivi o negativi ma sempre decisivi nella nostra vita.
Chissà, forse la sua data di nascita era stata importante per Gino quando, molti anni prima, era divenuto padre per la prima volta. Allora, forse, avrebbe concluso il suo cammino terreno proprio in quel giorno, le avrebbe dato un segno, e sarebbe stato comunque ricordare un avvenimento determinante.
- Chissà se l’inconscio funziona veramente così? - si chiedeva.
La notte si era avvicinata, la mezzanotte era trascorsa ed era iniziato il giorno 17.
Lo spirito di Gino, dunque, non aveva voluto mostrare che Rossana era qualcosa di speciale per lui. Ed ella lo rivedeva ancora nei mesi – tanti - trascorsi nel letto d’ospedale a scrutare il golfo oltre la finestra oppure a fissare la porta, in attesa della moglie e del figlio.
Essi non apparivano che raramente. Eppure, quando si facevano vivi, il suo sguardo s’illuminava, parlava, tutto felice, e mai appariva a loro malato.
Solo a Rossana riservava le lunghe giornate di febbre, l’impossibilità di trangugiare il cibo, le amnesie e i dolori che lo colpivano alle ossa.
Per anni, i colloqui con i medici erano stati un suo compito, i dubbi su quelle perdite di sangue… le decisioni da prendere, gli interventi chirurgici in extremis…
Tutto nelle sue mani!
Ormai, però, Rossana e Giulietta, stremate da quel terribile rantolo, pregavano che Dio concedesse la pace al di là delle sofferenze terrene.
Infine, alle tre e quindici del 17 luglio, il respiro semplicemente aveva taciuto.
In fretta, gli infermieri avevano preparato tutto per l’obitorio: Gino era stato vestito con un bell’abito scuro e il suo corpo malandato era diventato di pietra.
La borsa con le sue cose, un tovagliolo, un asciugamano, qualche pigiama, era pronta da rimandare a casa.
Solo sul comodino era rimasto l’orologio.
Segnava ancora le tre e quindici.
Strana coincidenza.
Fino a quel momento aveva funzionato benissimo, anche perché andava a pila e non aveva bisogno, come certi altri meccanismi, del movimento del braccio di chi lo usava.
Qualche tempo era passato.
A Rossana restava per ricordo del padre quell’unico orologio che non aveva consegnato alla madre con gli altri oggetti.
-Tanto nessuno lo vuole – pensava - Io, invece, lo userò.
Il cinghino nero di pelle pitonata faceva bella mostra di sé al suo polso. Le ore della vita di sempre si muovevano in tondo ed ella non lo lasciava mai, neppure di notte.
Il ricordo del padre faceva male.
Egli non c’era più e non poteva raccontargli, come usava un tempo, gli episodi del suo quotidiano che divertivano tutta la camerata dell’ospedale.
Se, invece, ci fosse stato ancora, egli avrebbe letto quegli articoli che ella scriveva su di un piccolo giornale di provincia e sarebbe stato orgoglioso delle lotte un po’ assurde che Rossana faceva per seguire sempre i suoi principi e i suoi valori.
A volte, ella avrebbe voluto sapere se le era restato vicino anche dopo la morte, se poteva aiutarla, se Dio l’aveva accolto in una pace che l’uomo non può comprendere.
Ma non provava nessuna sensazione di risposta.
Solo l’orologio l’accompagnava nel cammino con quel leggero ticchettio delle sottili lancette che girava indicando i minuscoli puntini d’oro a rappresentare le ore.
Naturalmente, facendo la doccia, Rossana toglieva l’orologio e così era capitato che, nella fretta di correre al lavoro, lo avesse dimenticato a casa. Tornata, aveva notato che la macchina meccanica si era fermata.
- Forse sarà scarica la pila. - aveva concluso. Ma poi, rimesso al braccio, l’oggetto riprendeva a funzionare con precisione.
Questo fatto era capitato diverse volte tanto che ne aveva chiesto ragione a chi si intendeva di questo tipo di meccanismi.
- L’orologio funziona a pila e quindi va sia al braccio che in qualsiasi altra posizione, purché la pila sia attiva. - le era stato risposto.
Per precauzione, comunque, Rossana aveva fatto cambiare la pila dall’orologiaio e ne aveva scelta una più resistente delle altre.
Eppure, quella era diventata quasi un’ossessione: appena lontano dal braccio, anche per pochi minuti, l’orologio si fermava inesorabilmente e riprendeva a funzionare non appena rimesso a posto.
Per il resto, tutto andava bene, il tempo mitigava il dolore.
Solo ogni tanto ella ricordava quel corpo scheletrico, quel viso affilato e scarno, e si chiedeva perché mai suo padre non le fosse apparso neppure in sogno.
Un tempo, alla morte della nonna, le era sembrato addirittura di vederla avanzare scivolando in casa, vestita dei suoi panni scuri e sorridente.
Poi, l’aveva sognata molte volte e la sua presenza le dava conforto e aiuto nel superare le difficoltà.
Ma il padre, forse, non era a lei, come di solito, che dedicava la sua attenzione maggiore!
Alla fine dell’anno, l’ufficio aveva organizzato una bella gita in montagna.
Rossana aveva aderito con piacere: qualche giorno in un paesaggio diverso, sulla neve, lontano dal caos della città…
Già se le immaginava le candide distese di neve, i silenzi ovattati a un passo dal cielo blu e le fiaccolate a rischiarare la notte!
Erano partiti in molti, assiepati in un lussuoso autobus fornito di ogni comfort.
Eppure, scivolando a una curva della strada di montagna, l’elegante autobus era precipitato giù dalla scarpata, rotolandosi e infrangendosi tra alberi e spuntoni di roccia.
I soccorritori avevano trovato corpi sparsi qua e là tra le lamiere. Molti erano morti, altri gravemente feriti.
Rossana era stata trasportata all’ospedale: le sue condizioni apparivano disperate, forse un’emorragia interna…
Al suo polso, l’orologio si era arrestato sull’ora dell’incidente.
Ella non aveva visto la sala operatoria dai colori verdi, né i medici affaccendarsi su di un corpo dai flebili segnali.
E l’orologio, nel cassetto del comodino dove era stato deposto dall’infermiera che l’aveva preparata per l’operazione, giaceva ancora, inutilmente fermo.
Erano trascorsi alcuni mesi, le sue condizioni erano sempre molto gravi e i medici avevano deciso per un’altra operazione al cervello, l’ultimo tentativo per recuperarla alla vita.
- Le prossime ore saranno determinanti. - aveva detto il chirurgo ai parenti dopo le lunghe ore nella sala operatoria – Ma probabilmente non ce la farà.
Era il 16 luglio, il giorno del suo compleanno.
Il tempo trascorreva lento.
Rossana, in sala rianimazione, non aveva ripreso conoscenza. Solo le macchine che sostituivano le funzioni cardio-respiratorie la tenevano ancora in vita.
Alle dieci di sera era cambiato il turno degli infermieri e una di loro era venuta a vederla: tutti ricordavano ancora quel terribile incidente di cui, a suo tempo, avevano parlato i mass media!
Rossana giaceva là, con il respiro sempre più debole…
Sospirando, l’infermiera le aveva praticato l’ultima iniezione della sera.
Sapeva bene che non si esce che molto difficilmente dal coma, specialmente in quelle condizioni. Poi si era dedicata agli altri malati.
Mancavano cinque minuti alla mezzanotte del 16 luglio quando le macchine avevano preso a suonare: il cuore si stava fermando definitivamente.
- Presto, adrenalina! Massaggio cardiaco!
Rossana aveva riaperto gli occhi: era mezzanotte meno due minuti del 16 luglio ed ella era salva.
Nel cassetto, l’orologio aveva ripreso a funzionare e lassù, tra le alte sfere del cielo, Gino sorrideva con la sua bocca scarna e sdentata.”
Ecco, il racconto era completo.
Ora doveva spedirlo a un Concorso letterario della sua città di cui sentiva parlare da tanto tempo.
Fu solo dopo alcuni mesi che Giuseppina ebbe il risultato del Concorso: aveva vinto il primo premio e la storia sarebbe stata pubblicata su di una rivista.
Beh, non era male come inizio!
Lassù, nel frizzante empireo lucido di stelle, Francesco sorrideva con la sua bocca scarna e sdentata.
Renata Rusca Zargar