POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

lunedì, agosto 30

IL POTERE DELLA PAROLA di FERNANDO SORRENTINO

 




Il potere della parola 


 Titolo dell’originale in spagnolo “El poder de la palabra”. “Il racconto è stato pubblicato su Gramma. Revista de la Universidad del Salvador, Buenos Aires, Argentina, vol. 32, n.o 65, giugno-dicembre 2020 (pagg. 124-130)
di Fernando Sorrentino (Argentina) Traduzione dallo spagnolo di Enzo Citterio 

Il mio nome è Susana Silvia Siciliano. Sono professoressa di Lingua e Letteratura nel Collegio Bastione della Sapienza (misto, laico, bilingue e con costo d’iscrizione assai sostanziosa), nel rione Belgrano R, nella città di Buenos Aires. 
Yasmín Magalí Corbatta, una delle mie alunne del quinto anno, partecipò a un certo quiz televisivo scegliendo l’argomento Letteratura Ispanoamericana. La ragazza, a dispetto dei nomi orripilanti con cui, a mo’ di peccato originale, la castigarono i suoi genitori, fu sempre un’eccellentissima studentessa e, per tale motivo, gode della mia massima stima. 
Si verificò il seguente conflitto: di fronte al giudice televisivo, Yasmín Magalí dovette citare, a sua scelta, tre opere qualsiasi pubblicate dallo scrittore ecuadoriano Juan Montalvo. Siccome era ben preparata (in gran parte grazie alla mia efficienza pedagogica), senza vacillazione disse: Catilinarie, Geometria morale e Sette trattati. Secondo quanto mi riferì, i tre giudici della giuria (dei pelandroni, scrittori di best sellers) si consultarono con un’occhiata, sfogliarono alcune carte, chiacchierarono sottovoce e, finalmente, il presidente del tribunale qualificò la risposta come erronea, poiché secondo le sue risultanze Montalvo non aveva mai pubblicato alcuna opera intitolata Geometria morale. 
A causa di ciò Yasmín Magalí fu eliminata dal certame e non poté accedere alla seconda fase. 
Questa situazione non doveva finire così. 
Consigliata da me, alcuni giorni più tardi Yasmín Magalí, accompagnata dal dottor Tomás Toledano (che, oltre che avvocato, è mio marito da un’eternità), si presentò al canale televisivo con animo combattivo e una busta A4. Il primo albergava una giusta indignazione; la seconda conteneva due fotocopie le quali erano: 
1) La pagina 162 della Storia della letteratura americana e argentina, di Fermín Estrella Gutiérrez ed Emilio Suárez Calimano; 2) la pagina 211 di Scrittori Ispanoamericani, di Rodolfo M. Ragucci. In entrambe si certificava che, in effetti, Juan Montalvo aveva scritto un’opera intitolata Geometria morale. 
I tre ignoranti autori di best sellers deliberarono fra loro e, non sapendo cosa diavolo fare, passarono la seccatura alle autorità amministrative del canale, che promisero di “studiare la questione e agire di conseguenza”. Secondo la metafora calcistica usata da mio marito, ciò che fecero queste menti illuminate fu “buttare il pallone fuori campo”, e cioè, disinteressarsi del problema senza cercarne la soluzione.
Incalzato dalle circostanze (a causa di cinque lettere minacciose redatte da Tomás, ossia il mio suddetto marito avvocato), il direttore generale del canale in persona si riunì con lui e con Yasmín Magalí, e addusse un malizioso sofisma: che la domanda si riferiva a opere pubblicate da Montalvo, ed essendo che Geometria morale non era stato pubblicato dall’autore ma era apparso nel 1902, quando l’autore era già viaggiato nell’aldilà nel 1889, la risposta della concorrente non poteva considerarsi corretta.
Secondo quanto mi raccontò Tomás, lui immediatamente “tagliò le gambe” all’insolente dirigente che pretendeva di invischiarlo con un gioco di parole e lo minacciò di iniziare ipso facto azioni penali contro la trasmissione, il canale televisivo e contro l’impresa multimediale proprietaria del canale. En passant, lasciò intravvedere che il temibile Tirso Toledano, sindacalista capo della Corporazione dei Conducenti di Bulldozer e Trivellatori, non era altro che suo fratello maggiore.
Allora il dirigente s’intimorì – sempre nella versione di Tomás – e, per evitare che il conflitto assumesse maggiori dimensioni, propose una soluzione intermedia, che sarebbe servita anche come pubblicità “culturale”. Yasmín Magalí doveva ottenere un parere scritto da un accademico argentino che certificasse che, a suo giudizio, non c’era né poteva esserci discordanza fra un’opera pubblicata durante la vita dell’autore e un’altra stampata dopo il suo decesso. Con questa semplice condizione, Yasmín Magalí ritornerebbe a partecipare alla competizione e sarebbe passata automaticamente alla seconda fase che le era stata negata in precedenza. 
2. Considerando la mia eccellente professionalità, assunsi la responsabilità di ottenere il documento liberatorio, anche perché, non essendo madre, considero che tutti i miei studenti costituiscano, in qualche modo, i figli che non ho avuto (tranne un cospicuo gruppo che, essendo insopportabili, mi avrebbero portata a essere figlicida). 
Nella Sala Professori esposi il caso e ricevetti, da parte di quasi tutti i colleghi (fra i quali la maggioranza sono babbei), numerosi commenti insipidi che non mi servirono a nulla. 
Anche se professoressa di alcune materie incomprensibili come la Matematica e la Fisica, Gabriela Irene Laguna è una buona amica mia (nonostante abbia dei difetti che non è il caso di esporli adesso). 
– Non c’è problema, Su! – esclamò. – Proprio girando l’angolo di casa mia vive l’accademico Benito Benvestiti. È un vecchio malaticcio, un mezzo imbranato, che fa la spesa dall’ortolano e dal panettiere. È simpatico, ride sempre e saluta tutti, anche se non è mai successo con me. Immagino che non avrà niente in contrario nel redigere e firmare ciò che chiediamo. Io vivo nella strada Picheuta, e il vecchio caprone in Barco Centenera. 
Anche se io, nonostante la mia profonda conoscenza in Lettere, non avevo mai neanche sentito il nome di Benvestiti, ho considerato un buon segno che tanto rapidamente avessimo trovato una persona adatta per mettere in atto il nostro piano. 
In effetti, la settimana seguente Gaby mi annunciò telefonicamente che aveva ottenuto un appuntamento con il “celebre accademico” (lo chiamò così, con un’iperbole). Ci avrebbe ricevuto sabato 18 alle undici del mattino nel suo appartamento del sesto piano della via Barco Centenera, nel rione Parque Chacabuco.
Accolsi la notizia con un misto di allegria e malumore; la prima, perché il nostro obiettivo iniziava a procedere efficacemente; il secondo, perché, vivendo in Olivos – in via Catamarca, per essere più precisa, – non ho alcuna difficoltà a guidare l’auto fino al nostro collegio nella via Estomba, in Belgrano R, ma detesto dover spostarmi verso zone di un’altra galassia, come Pompeya, Soldati, Lugano o, in questo caso, Parque Chacabuco. 
Nonostante ciò, dopo avere consultato una pianta di Buenos Aires e di avere interpellato geograficamente mio marito (che, anche se inutile per molte cose, conosce abbastanza le vie), impugnai il volante della mia auto (ne abbiamo due, una bianca e l’altra nera, dello stesso marchio e identico modello) e, aiutata dal GPS, mi diressi verso le abitazioni della via Picheuta. Arrivai con poco anticipo, alle undici meno dieci. Sul marciapiede mi aspettava Gabriela. 
Disse:
– Non vuoi salire a bere un caffè?
Un invito totalmente inutile e irrazionale. Come potevamo perdere tempo bevendo caffè se alle undici, a due isolati da dove ci trovavamo, ci aspettava l’accademico? 
Per tutta risposta, diedi tre colpetti sul mio orologio con il dito indice, e ci indirizzammo verso la via Barco Centenera. 
Gabriela e io, senza consultarci prima, c’eravamo agghindate per acquisire un’aria attrattiva ma, allo stesso tempo, profonda e intellettuale. Io ho agito con i miei abituali moderazione e buon gusto. 
Caricando abbastanza i toni, Gabriela, che non avevo mai visto con le lenti, ora sfoggiava un paio di occhiali di formidabile montatura nera, che le dava un’inconfondibile aria di sociologa di sinistra, perfezionata dal non essersi dipinta le labbra e dai capelli un po’ scompigliati. Ciò nonostante, la combinazione della sua gonna lunga Chanel con una casacca profusa di tasche e cerniere, e un po’ rigida, la faceva apparire anche come una suora di clausura che aspirasse a far parte di un corpo di pompieri volontari. Insomma, la povera Gaby, con tutti i suoi limiti, è una brava persona ma portata a cadere facilmente nel ridicolo. 
Abituata al mio chalet di stile nordico di Olivos, non mancò di colpirmi sgradevolmente l’edificio della via Barco Centenera, brutto e grigiastro, da tipica classe media virando verso il basso. Le coordinate del portiere elettrico ci informarono che l’immobile constava di otto piani. Siccome Gabriela era del rione, era appropriato che fosse lei a premere il pulsante del sesto A. 
Non utilizzò l’indice ma il pollice. Dopo un’eternità di almeno tre minuti, udimmo una voce flebile: 
– Chi è? 
Per dimostrarmi quanto era sicura di sé, Gaby, sempre istrionica, sorrise, come se stesse su un palcoscenico e, con canterina voce di soprano, disse, atteggiandosi a giovincella: 
– Le prof che veniamo a consultarla per la questione di Juan Montalvo! 
Suonò il cicalino, spingemmo la porta ed entrammo in un vestibolo con odore di zuppa con ditalini. Salimmo in ascensore – su una parete qualcuno aveva scritto CHI LEGGE QUESTO È UN FINOCCHIO – e arrivammo al sesto piano. 
L’accademico, vestito con una specie di vestaglia logora, color ratto di fogna, ci aspettava, fumando, nel vano della porta dell’appartamento. Era un uomo basso, canuto, pettinato e con barba disordinata e antiestetica. Un terribile tanfo di sigarette arrivava fino al pianerottolo. 
Ci tese una mano bianchiccia come un filetto di merluzzo e con un cenno ci indicò che ci sedessimo su un divano spelacchiato. 
Il vecchio fumava quella che probabilmente era l’undicesima sigaretta del mattino. In un posacenere con forma di pneumatico di trattore c’erano almeno dieci mozziconi con filtro marrone. A lato, una foto incorniciata: lo scrittore in gioventù, insieme a una donna con viso malvagio, probabilmente la sua defunta moglie. 
Tanto Gabriela quanto me eravamo “peccatrici pentite”: eravamo state forti fumatrici in gioventù ma ora, dopo aver abbandonato il vizio per sempre, non potevamo sopportare il puro e semplice odore di una sigaretta accesa a venti metri. E molto meno in quell’appartamento piccolo, indubitabilmente abbastanza sporco e direi perfino sordido, dove stavamo come navigando nella nebbia. 
Gabriela cominciò a tossire, anche se timidamente, affinché quell’uomo non pensasse che le desse fastidio il fumo delle sue sigarette. 
– Bene, signore o signorine, ditemi cosa vi porta qui. Vi ascolto. 
E ci lanciò uno sguardo severo. 
Siccome io ero la docente di Letteratura, mi sentii in obbligo di rispondere: 
– Allora, noi siamo professoresse nel Collegio Bastione della Sapienza... 
– Sì, lo so. Me l’ha detto la persona inopportuna che, all’ora della siesta, mi fece alzar dal letto per rispondere al telefono. 
– Quella persona sono stata io, mi scusi – precisò Gabriela. 
– Ho solo detto il peccato. Non m’interessa chi fu il peccatore o la peccatrice. Andiamo avanti con la storia, perché non ho tutta la mattina da sprecare con stupidi dettagli! 
– Bene, come le dicevo – ripresi, già un po’ spaventata, – nel Collegio Bastione della Sapienza io sono professoressa di Lingua e Letteratura e Gabriela di Matematica. 
L’accademico agitò la sua mano destra: 
– Avanti, avanti, avanti! Non m’interessano le autobiografie e molto meno i curriculum professionali, che sogliono essere pieni di bugie e d’informazioni false. 
Mandai giù saliva: 
– Il caso è che una delle mie alunne partecipò al noto concorso Vediamo Chi Sa Di Più, organizzato dal canale televisivo 73 bis Allegria Contagiosa. 
– Non so perché qualifica come “noto” il concorso – disse l’accademico. – Io non l’ho mai sentito nominare. E non sento neanche la mancanza di occuparmi di quelle stupidaggini che tanto piacciono al volgo spregevole e ignorante! 
Ci fu un istante di silenzio. Compii uno sforzo sovrumano e continuai: 
– Allora lì le fecero una domanda su tre opere di Juan Montalvo e, poiché ci fu una specie di discrepanza fra la risposta della mia alunna e il giudizio della giuria, loro raccomandarono come una specie di espediente mediatore la presentazione di un documento valido che certificasse l’autenticità, se non esatta, approssimativa della risposta che era entrata in collisione con i dati ricavati dai membri della giuria da fonti forse dubbie ma... 
Il vecchio si alzò in piedi e, durante alcuni secondi, con entrambe le mani si coprì le orecchie:
– Come pretende lei che io possa riuscire a capire quel discorso demenziale, quel labirinto di alunne, giurati e documenti? Dato che lei asserisce di essere professoressa di Letteratura, il minimo che le si può esigere è che sappia esprimersi con un minimo di chiarezza. 
Il fuoco del rossore m’invase le guance e una cataratta di traspirazione mi sgorgò dalle ascelle. In cambio, un pallore cadaverico aveva ricoperto il viso di Gabriela. 
– Riassumendo – colossale sforzo per riprendere il discorso, – ciò che vorremmo avere dalla sua generosità e che ci rediga un documento che certifichi che Juan Montalvo... 
– Basta! – esclamò. – Tutto questo costituisce una burla terribile ai miei danni, e vi dirò il perché. In primo luogo, l’unica opera di Montalvo che tentai di leggere fu un libro marmoreo dove inventava non so che assurde nuove avventure di Don Chisciotte, e mi parve tanto brutto che ne abbandonai la lettura a pagina dieci. Vedete, quindi, che non posso dirvi niente su quello scrittore insopportabile. 
– Scusi – intervenne Gabriela, – non era nostra intenzione molestarla. Siamo solo docenti che... 
– In secondo luogo, credo che siate professoresse di niente assolutamente. Siete due imbroglione, magari con mandato di cattura internazionale. E se voi, con l’ignoranza che dimostrate e con l’aspetto ridicolo che ostentano le vostre persone e i vostri abiti, siete realmente professoresse, compatisco gli alunni, che non potranno mai apprendere alcunché dai vostri insegnamenti! 
– Bene, in quel caso... 
– In quel caso, niente! Il meglio che potete fare è ritirarvi dalla mia casa e non tornarvi mai più con quegli spropositi e affabulazioni e assurdità di concorsi, montalvi e bastioni della sapienza. 
Imbarazzate, spaventate, indignate, Gabriela e io afferrammo le nostre rispettive borse come fossero palloni di rugby e, come se corressimo verso la meta, abbandonammo, tipo mandria, l’edificio della via Barco Centenera. 
Abbiamo camminato per mezzo isolato. Gabriela aveva recuperato i suoi colori e aveva le mani a pugno e le dita contratte sui palmi. 
– Torniamo indietro – disse. – Ho dimenticato qualcosa. 
Non mi disse cosa, ma ho immaginato la sua intenzione. Per esperienza, so che Gaby può essere fiera. 
Il suo pollice premette a lungo il campanello dell’appartamento del sesto piano A. Dopo una nuova eternità di almeno tre minuti, tornammo a udire la stessa voce flebile. 
– Chi è? 
Per dimostrarmi quanto fosse sicura di sé, Gabriela sorrise, di nuovo come se fosse su un palcoscenico e, con voce melodiosa, ora di baritono, disse: 
– Parlo con il signor Benvestiti?
– In persona. Che cosa desidera...?
– Che cosa desidero? Desidero che te ne vada dalla tua stramaledettissima puttana della madre che mille volte ti ha ripartorito, vecchio bastardo, imbranato, moribondo e figlio di mille puttane! 
Non sappiamo se l’apostrofato mise in pratica il suggerimento, poiché, invece di rispondere, chiuse il citofono. 
Ritornammo all’appartamento di Gaby, ammobiliato, detto per inciso, con un gusto spaventoso e con una moltitudine di oggetti orripilanti sulle pareti e sugli scaffali. Infine, una sciatteria cosmica. Ma ciò che non farei mai nella vita è parlar male di Gabriela che, nonostante i suoi difetti, è una delle mie migliori amiche.
– Héctor e i bambini sono andati a vedere un torneo di calcetto – m’informò mentre entravamo.
– Ah, che peccato. Mi sarebbe piaciuto salutarli ancora, risposi, mentre pensavo: “Meglio che non ci siano. Il marito è uno scassacazzi e i figli due rompicoglioni”. 
L’umiliazione subita dall’abominevole Benvestiti produsse in noi un effetto diuretico: sollecitata dalla pipì che esigeva libertà immediata, Gaby corse in bagno e io la seguii alcuni minuti più tardi. In quel posto ho costatato che la carta igienica era di pessima qualità e che i quattro spazzolini da denti avevano già ultimato il loro compito. 
Per riprenderci della recente battaglia contro il caprone, in cucina (piastrelle celesti, alcune delle quali scheggiate) bevemmo caffè con biscotti (un po’ umidi, sicuramente perché non conservati nel modo adeguato). 
Poi, con un bacio sulle guance, presi commiato da Gaby fino il lunedì, quando ci saremmo riviste nel collegio. 
3. Lunedì 20, in mattinata, ho spiegato a Yasmín che l’accademico Benvestiti, un uomo molto simpatico, ci trattò con un’enorme gentilezza e deferenza, ma si scusò amabilmente per non poter redigere il documento richiesto in quanto quella stessa settimana doveva sottomettersi a una delicata operazione chirurgica, che preferì non specificare. 
Yasmín non apparve troppo rammaricata: 
– Bene – disse, – ma quello non sarà l’unico accademico esistente. Potremmo cercarne un altro... 
– Certamente – le risposi. – Ma in tutti i casi, occupati tu della questione. Io ora sono molto occupata e non ho tempo per visitare accademici. 
4. Quello stesso lunedì nel pomeriggio stavo sorbendo mate e sfogliando distrattamente La Nación e notai questa notizia: 
Benito Benvestiti, un rigoroso uomo di cultura 
Profondo sentimento di afflizione ha causato, nei nostri circoli accademici e intellettuali l’improvviso decesso del dottor Benito Benvestiti, latinista ed ellenistica di solida cultura classica, avvenuto sabato scorso, a causa di una sincope cardiaca, nella sua mitica abitazione del rione Parque Chacabuco, dove solevano riunirsi artisti e scrittori celebri per ascoltare le parole del Maestro. 
A ottantadue anni d’età, e nella pienezza delle sue capacità fisiche e facoltà mentali, niente faceva prevedere il tanto sventurato epilogo. Portegno verace, era nato a Buenos Aires, nel 1938, in seno a una famiglia di poeti, pittori e musicisti. 
La sua opera, vasta ed eccellente, iniziò nel 1965, con il suo saggio Influenze della poesia latina nella lirica ispanoamericana. Da allora ha pubblicato più di quaranta opere, delle quali la più importante e caratteristica è il suo classico Itinerario di Juan Montalvo: poeta, prosatore e saggista di dimensione universale, il più completo ed esaustivo saggio sull’opera del crittografo ecuadoriano, per la quale fu nominato membro onorario della Società Montalviana della Letteratura, con sede a Quito. 
A continuazione c’era un’enumerazione degli onori e riconoscimenti ottenuti dallo scrittore, e finiva con questa informazione: 
La salma sarà esposta nella sede della Società Argentina degli Scrittori, e riceverà la sepoltura domani, nel Cimitero di Flores, alle ore 10:00.
 Immediatamente presi il telefono e chiamai Gabriela.
Appena disse “Pronto”, spiattellai:
- Gabri, rizza le orecchie, ti leggerò qualcosa di interessante.
E dall’inizio alla fine, le lessi la necrologia de “La Naciòn”
- Bè – rispose – Bisognerà credere nel potere della parola. Sembra che il vecchio vizioso mi diede retta e se n’è andato dove l’ho mandato.
- Così sembra, tale e quale.
- Cosa possiamo farci: che riposi in pace. 



domenica, agosto 29

LA BANDIERA MIGRANTE DI NIAMEY E IL SOGNO DI LUTHER KING di PADRE MAURO ARMANINO

 



La bandiera migrante di Niamey
 e il sogno di Luther King



Assomiglia a quella degli Stati Uniti dei quali la Liberia è un’improbabile emanazione. La bandiera della Liberia porta undici striscie orizzontali invece di tredici come quella degli USA. Vi si trova una sola stella in alto a sinistra per significare un Paese libero dalla colonizzazione occidentale. La bandiera è appesa al nulla nell’aula di una classe elementare del quartiere periferico di Niamey chiamato Gamkallé. Attorno a lei un gruppo di migranti liberiani che sanno poco della sua storia. Sono in forzato ritorno da un progetto migratorio non realizzato, dirottato o semplicemente abbandonato per la forza degli avvenimenti nella Regione. Alcuni hanno fuggito la guerra di quindici anni nel loro Paese per trovarne altre nel Soudan, Tchad, Libia, Costa d’Avorio e soprattutto in Algeria a causa delle espulsioni forzate. Da una guerra all’altra.
Eppure tutto sembrava filare liscio come nelle favole o il sogno di Martin Luther King di cui proprio oggi cade l’anniversario. ‘I have a dream’, gridava Luther King nel 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington, alla fine di una manifestazione per i diritti civili nota come la marcia per il lavoro e la libertà. Anche i migranti liberiani che festeggiano a Niamey, custodiscono il sogno che hanno piantato nella sabbia del Sahara che si confonde con quello del Sahel. Lo stesso sogno di coloro che, dopo aver conosciuto la schiavitù nelle piantagioni degli Stati Uniti hanno scelto di tornare in Africa, loro Terra Promessa. Sappiamo come sono poi andate le cose in Liberia. Gli ex schiavi hanno riprodotto sulle popolazioni autonome, che a loro volta campavano anche della vendita degli schiavi, la stessa schiavitù che avevano sofferto. 
Dichiarata illegale la schiavitù negli Stati Uniti, si trattava di ‘facilitare’ il ritorno al mittente degli schiavi ormai liberi. E fu così che, malgrado le resistenze delle popolazioni autoctone che non volevano vendere la loro terra, nei primi decenni del 1800, il sogno dei ‘liberiani’ prese forma finché nel 1847 venne dichiarata l’indipendenza. Il sogno si trasformò in incubo per le popolazioni locali perché il potere venne assicurato dai ‘colonizzatori neri’ arrivati liberi dall’America. La guerra civile che ha insanguinato il Paese è, almeno in parte, conseguenza di questo sogno che ha fatto naufragio nella Terra della Libertà. I migranti liberiani di Niamey cantano l’inno nazionale, condividono il riso e la salsa di loro gradimento sotto lo sguardo vigile della bandiera. Solo rimane la stella che il sogno di Luther King ha loro affidato.

       Mauro Armanino, Niamey, 28 agosto 2021

venerdì, agosto 27

LA PRIMAVERA di RENATA RUSCA ZARGAR


LA PRIMAVERA

Un nuovo odore si assaporava nell’aria fresca: un misto di profumi di fiori inconsueti, del sole, di quelle nuvolette birichine a riccioli… un bisogno di qualcosa di insolito e diverso, un sentore di vita novella che la riportava al suo paese. 

Lui faceva il rappresentante e viaggiava tutto il giorno sulle strade assolate della provincia. Poi, al tramonto, quando l’aria era più dolce e i colori diventavano sfumati, passava davanti alla sua villetta rossa e suonava il clacson.

Ella, che aveva trascorso il mattino a prendere il sole sugli scogli bruniti dal mare e il primo pomeriggio nella frescura della casa con le imposte chiuse a ripararsi dall’afa, sbucava fuori sulla ghiaia del giardino, apriva il cancello e s’infilava in macchina. La cena in un ristorante vicino al mare dal quale giungeva la brezza salmastra e poi, per mano, passeggiavano sulla spiaggia ormai deserta. La luna e le stelle rimanevano sole spettatrici di baci e carezze, un ritorno alle origini, quasi un Paradiso terrestre. 

Le vacanze, però, duravano solo pochi giorni, quindi, Eliana tornava in Liguria e la loro relazione restava là, immobile, ad attendere un’altra vacanza in Puglia l’anno dopo. 

Infatti, Paolo era già stato sposato, anni prima, e la rottura con la moglie gli pesava ancora sull’animo. Non voleva compiere un passo troppo affrettato. Eliana, inoltre, lavorava al nord e, dunque, tra loro, non ci poteva essere di più.

Tornata a casa, Eliana riprendeva la solita vita: le amiche, la spiaggia (anche in Liguria abitava proprio in faccia al mare), il lavoro, qualche divertimento, qualche nuova conoscenza che non le dava mai, però, un sentimento vero.

Una sera, uscita dalla palestra dove si recava per qualche ora la settimana a fare un po’ di esercizio, aveva trovato una vettura parcheggiata in seconda fila proprio in modo da impedire l’uscita al suo mezzo. Era entrata allora nel pub, le cui insegne luminose blu spiccavano nel buio della via, e aveva chiesto chi ne fosse il proprietario. Un giovane deciso, dai lunghi capelli castani e gli immancabili jeans, le era venuto incontro. I loro sguardi si erano incrociati per un attimo. Poi egli aveva spostato la macchina ed ella era andata via. 

Ma lo stesso fatto era successo ancora ed ella era ritornata nel pub perché Giorgio (così si chiamava l’uomo) uscisse a spostare la sua automobile. Naturalmente, prima Giorgio le aveva offerto qualcosa, poi erano rimasti un po’ a parlare…

Le giornate sembravano rosee, il lavoro più leggero, l’anziana madre e la zia seminferma meno noiose.

Un sorriso aleggiava continuamente sulle labbra di Eliana mentre il pensiero, immancabilmente, volava là ogni momento: il sorriso di lui, la sua gentilezza, la simpatia, le battute scherzose che sapeva fare…

Durante il giorno, ricordava la sera precedente, una segreta dolcezza nell’animo nascosta al resto del mondo, l’incontro con lui, le parole dette e ascoltate: allora il cuore era denso di felicità. 

Giorgio era separato dalla moglie e aveva un figlio. Lavorava come autista per una ditta di vendite a domicilio e, per tutta la giornata, si affaticava a guidare e a consegnare i prodotti ordinati dai clienti. Era sempre molto stanco e anch’egli aveva timore di una nuova relazione ma molti loro progetti erano simili: andare a vivere in campagna, fuori dalla città sporca e caotica, allevare animali…

Ancora un nuovo odore nell’aria primaverile, un bisogno di qualcosa di insolito e diverso: ebbene, questa volta tutto ciò era arrivato!  Dopo pochi mesi dal primo incontro, erano andati veramente a vivere insieme in un piccolo paesino dell’entroterra e la loro vecchia casa si era riempita di conigli, galline e cani. Intorno, i prati verdi profumavano di fiori, il cielo era terso e l’aria fresca anche d’estate. Poi, d’inverno, le montagne si coprivano di candida neve, mentre il silenzio avvolgeva tutte le cose.

Giorgio aveva cambiato lavoro: conduceva uno di quei lunghi tir che attraversano gli stati e tutto questo per poter rimanere, durante i giorni di riposo, a casa con lei a curare piante e animali.  



Nel letto di ospedale in cui si trovava da diversi giorni, Eliana conservava quel dito di capelli tinti rosso carota sulla testa ossuta –teschio ricoperto di pelle- che ricordavano i tempi in cui, sana, amava averli di quel colore che le donava e piaceva tanto a Giorgio. Sembrava una di quelle persone che si vedono nelle vecchie immagini dei campi di concentramento. Dormiva con la bocca semiaperta con i denti lunghi che spuntavano dalle labbra, un catetere nel naso perché tutto ciò che beveva uscisse subito dallo stomaco che non reggeva più nulla, due flebo infilate nelle vene del braccio. 

Il sole si appoggiava su un riquadro della porta azzurra, grandi vasi di piante adornavano il corridoio con il pavimento di linoleum azzurro sempre pulito. Una vicina di letto tossiva e scatarrava in continuazione, l’altra conversava al telefonino raccontando gli acciacchi che l’avevano colpita. 

Eliana si svegliava a tratti da quel dormiveglia e, anche se si sentiva tanto stanca, faceva fatica a riposare un po’. La pancia gonfia le impediva il respiro. 

Era di nuovo primavera e, chiudendo gli occhi, ricordava quel giorno – erano trascorsi solo quattro anni- in cui finalmente lei e Giorgio avevano deciso di avere un figlio. Ormai, la loro relazione si era consolidata, avevano acceso un mutuo in banca per aggiustare la casa, i cani avevano avuto i piccoli che zampettavano intorno masticando le gambe delle sedie. 

Aveva preso, dunque, l’appuntamento con il ginecologo per togliere la spirale che usava quale contraccettivo e iniziare un altro capitolo della sua vita. 

–Eliana, voglio fare dei controlli più approfonditi. -le aveva detto il medico. E dopo quindici giorni c’era stata anche la risposta: un cancro all’utero. Disperata, era corsa da Giorgio che l’aveva presa tra le braccia e consolata. 

Il mattino seguente, egli era partito per un lungo trasporto in Francia. Si sentivano sul telefonino. 

Eliana era entrata in ospedale per l’operazione. 

Giorgio non era tornato. 

Spesso, il suo cellulare era spento e quando riusciva a raggiungerlo, egli diceva di essere sempre impegnato in Francia.

Dopo l’intervento, le avevano prescritto la chemioterapia. Eliana la sopportava molto bene, riusciva a continuare molte attività lo stesso, anche se aveva dovuto fermarsi in città, in casa della madre. 

Infine, dopo un paio di mesi, era tornata nella loro abitazione tra i prati in fiore. Finalmente, tutto sarebbe stato come prima. Forse era guarita definitivamente. Certo, non avrebbe mai più potuto avere bambini, ma sarebbero stati loro due insieme, con gli animali che amavano tanto. E poi, Giorgio un figlio l’aveva già…

Egli era arrivato, un giorno, finalmente, ma non l’aveva toccata. Né aveva pagato la rata del mutuo. 

I viaggi si facevano sempre più lunghi e frequenti -lavoro, egli diceva- e, quando tornava in Italia, si fermava spesso a casa del padre per non disturbarla.

Infine, era stato proprio il padre di Giorgio a dirle di lasciarlo perdere che, ormai, la loro relazione era finita. 

Non ci poteva essere niente di più crudele! Il suo amore, dunque, non esisteva più! Le restavano da pagare le rate del mutuo che, insieme, avevano stipulato per riaggiustare la casa, la “loro” casa, così come l’avevano vista e amata subito, un giorno non tanto lontano.

Eliana non si era persa d’animo. Avrebbe lavorato, ce l’avrebbe fatta anche da sola. Il destino non aveva voluto che lei avesse un figlio. E neppure che avesse un compagno. 

Spesso, si sentiva come spezzata, senza futuro, senza speranza. 

Di notte, l’immagine di lui tormentava i suoi sogni, e si svegliava con un tremendo dolore al petto. 

Ed egli non c’era. Non aveva messo più piede alla loro fattoria e aveva perfino mandato il padre a ritirare la sua roba!

Era tornata, infine, qualche volta in Puglia, nei periodi in cui stava meglio e non doveva seguire cure. Ma ormai l’aria del paese d’origine non le faceva più lo stesso effetto e Paolo le sembrava diverso: non si sentiva di vederlo ancora.

Poi, dopo alcuni mesi, i controlli di routine: le analisi del sangue avevano dei valori sballati. Altra chemioterapia, un’altra operazione…

-Anche se dovessi farmi operare una volta l’anno, mi andrebbe bene lo stesso, pur di vivere ancora! Ho tanto da fare! - diceva all’amica.

Ed era stato così: infine, le operazioni erano state quattro e molti i cicli di chemioterapia.

Solo, quest’ultima volta, il recupero era un po’ lento, non riusciva a mangiare perché vomitava subito dopo aver ingerito qualcosa e, inoltre, non poteva neppure bere. Ma sapeva che ce l’avrebbe fatta! 

–Devo riuscire! - diceva sforzandosi di mettersi a sedere sul letto. -Poi, quando uscirò di qui, cambierò lavoro. Voglio andare in montagna in vacanza, voglio provare ad andare in canoa…- 

I progetti erano sempre diversi e s’era fatta portare un blocchetto dove scriveva i turni che le amiche le facevano per non lasciarla mai sola. Dirigeva dal letto la sua assistenza.

-Che ne dici, - aveva detto un giorno all’amica di turno - un paio di orecchini con una perla bianca da portare qui, in ospedale, ti sembra che mi starebbero bene? -

A Giorgio piacevano tanto gli orecchini, ma ormai, anche il suo ricordo era sfumato e il dolore attutito. Lo vedevano in giro con un’altra donna. Mai lo aveva incontrato, neppure per la strada. Pazienza, era andata così. In fondo, si può vivere anche da soli. L’importante è stare bene!

La sera stessa l’amica le aveva portato un bel paio di orecchini d’oro con la perlina bianca. Subito Eliana li aveva indossati e s’era guardata nello specchio. Erano proprio adatti per stare nel letto: non molto grandi ma eleganti. Il fatto era che il suo viso era divenuto così magro! Chissà quanto avrebbe impiegato a ritornare un po’ in carne! E pensare che prima il suo problema era quello di stare sempre a dieta per non ingrassare! 

Da domani avrebbe cercato di mangiare qualcosa, magari un frutto. Certo, un’arancia, che buona! Domani avrebbe mangiato un’arancia!


La bara lucida di legno chiaro ricoperta di fiori si trovava là, nella navata centrale della chiesa. Tutto intorno, tra colonne barocche, statue e dipinti, la gente si accalcava. Le parole del prete si spandevano tra le facce e gli occhi lucidi dei presenti: - Chi crede sa che Eliana ha iniziato un’altra vita senza dolore, accompagnata dal Padre. –

Il suo spirito attonito si aggirava là intorno ad osservare la gente che affollava la chiesa. Era di nuovo primavera. “Avrei voluto vivere ancora.” pensava.

Renata Rusca Zargar


mercoledì, agosto 25

Pensando a "Animal Farm" di George Orwell - di ANNA MONTELLA


 

A RENATA IN RISPOSTA AL SUO ARTICOLO SU "TALEBANI BRAVE PERSONE" di DANILA OPPIO



Carissima Renata, ho letto e pubblicato il tuo articolo che condivido pienamente.

Nessuna guerra è utile, perché disumana. Togliere la vita altrui, attraverso femminicidi, guerre, o qualunque altra sia la ragione per cui si uccide, è contraria alla Vita. A qualsiasi religione si appartenga o anche  atei convinti. Non so cosa sia vero di quanto si legge in questi giorni sui talebani (studenti del Corano se non sbaglio, o universitari, visto che Taliban طالبان  significa appunto studenti. Infatti in arabo per dire "sono studente presso la scuola...! si dice أنا طالب في المدرسة 'ana talib fi almadrasa...

Quando un popolo si solleva e prende in mano le armi, è esasperato da governi che non rispettano norme essenziali, o da "invasori" come lo sono stati gli Stati Uniti nei confronti di molti Paesi del mondo, non dimentichiamo il Vietnam.

Ho conosciuto coppie di musulmani molto unite tra loro, dove il marito rispetta la moglie e la moglie il marito. In occidente questo non accade quasi più. Comodo accusare il vicino, di colpe che noi stessi abbiamo in abbondanza, e se posso cito un'espressione di Gesù, che parla chiaro: "non guardare alla pagliuzza nell'occhio del vicino, quando tu hai una grossa trave nel tuo". Quindi, come tenevo per i palestinesi quand'ero giovane, che stavano perdendo la loro terra a causa dei sionisti, che si sono pian piano impadroniti della Palestina, e ancor oggi non hanno smesso, così sono dalla parte dei talebani, se riescono a cacciar via gli intrusi. E non credo che facciano del male alle donne, secondo me vogliono solo che stiano dalla loro parte. Magari sbaglio, non so, ma credo che sia ora che gli occidentali la smettano di invadere, e non solo con armi, anche con la loro mentalità, inculcandola nelle  popolazioni che desiderano mantenere i propri usi e costumi: è un loro sacrosanto diritto!

 Danila

p.s.: non dimentichiamo che durante tutta la Storia dell’umanità, gli europei e in seguito i conquistatori del Nuovo Mondo, hanno cancellato dalla faccia della terra intere etnie, come quella dei Nativi Americani, e quelle appartenenti alle Civiltà Precolombiane. Poi si sono impossessati di terre asiatiche, africane e perfino oceaniche. E’ ora di smetterla!  

TALEBANI BRAVE PERSONE di RENATA RUSCA ZARGAR

 


Talebani brave persone


Sento continuamente citare le femministe quando, in questi giorni, si parla dell’Afghanistan. Soprattutto perché le femministe non sostengono che quella in Kabul fosse una guerra giusta per salvare le donne afghane segregate e torturate dai talebani.

Bene. Io sono femminista dall’età di undici anni (moltissimo tempo fa) quando, di mia iniziativa, ho cominciato a non accettare alcuni ruoli casalinghi stabiliti dal maschio per le femmine.

Oltre a ciò, io sono italiana e, oggi, faccio molta fatica a mantenere i miei valori di parità con il maschio in un paese dove (forse non ci si fa caso) sono sempre più comuni lo stupro (ma erano ragazze ubriache - si dice per giustificare il delitto - poco vestite e quant'altro!) e il femminicidio (uno ogni tre giorni, alle volte anche due in un giorno solo).

Quando le mie figlie erano piccole, ho fatto fatica a far loro capire  quanto conti  studiare per avere una professione e  accedere all’indipendenza economica, cioè alla libertà. Mio marito ha insistito su questo punto fin dai tempi dell’asilo nido delle bambine. 

Perché ho fatto fatica? Magari perché la tendenza comune è di non studiare, di preoccuparsi solo del divertimento (che poi sarebbe ubriacarsi) e altre amenità. Non è facile scegliere il sacrificio, Pinocchio insegna.

Sinceramente, non so cosa potrei fare per le donne afghane, come non ho idea di cosa fare, ad esempio, per le donne dell'Arabia Saudita (che solo recentemente, bontà saudita - rinascimento! - hanno potuto guidare l'auto e uscire di casa da sole). O per le donne turche (Erdogan si è ritirato dalla Convenzione di Istanbul, strumento per proteggere le donne dalla violenza) o per tutti gli Egiziani/e prigionieri di un’implacabile dittatura.

La segregazione delle donne è colpa dell'Islam? 

Io non lo credo.

Nel Seicento d.C., quando è nato l’Islam, le donne non esistevano neppure come esseri umani. L’uomo aveva diritto di vita e di morte su di loro. Se volete, leggete la storia dei Romani, tanto per fare un esempio che ci tocca da vicino.

 L'Islam è stato precursore dei diritti della donna in tempi in cui le bambine venivano addirittura uccise con facilità e la femmina era, comunque, solo una merce. 

Il Corano, infatti, accorda alla donna lo stesso status e gli stessi diritti dell’uomo. Ella ha il diritto di acquisire conoscenza, di possedere delle proprietà, di migliorare economicamente. É celebrata come madre perché “Il Paradiso sta sotto i piedi delle madri” ma è anche sollevata dall’essere l’unica responsabile della cacciata dal Paradiso terrestre come tentatrice e seduttrice. Infatti, secondo il Corano, Adamo ed Eva hanno sbagliato entrambi, in parità.

Questo significa che l’orientamento islamico era, come diremmo oggi, progressista, anzi, anticipatore di molti secoli per quanto riguarda la liberazione della donna. Chi avesse compreso le finalità islamiche avrebbe dovuto continuare sulla strada della dignità e della consapevolezza nell’esistenza della donna. Se il Profeta aveva tracciato una via, nell’avanzare del tempo, nel cambiamento delle condizioni di vita, si sarebbe dovuto seguire quello stesso cammino adattandosi ai tempi.

Invece, si è dato spazio, per comodo del maschio -padrone, a mostruose usanze tribali che nulla hanno a che vedere con la religione, esattamente come non pensiamo affatto che il Cristianesimo sia una fede per pedofili.

Ebbene, ora gli Americani guerrafondai e imperialisti, stanchi di una delle loro tante guerre, non avendo più interessi nella zona, hanno riabilitato i tanto vituperati talebani, trascinandoli fuori dalle galere e dall’esilio dove si trovavano, per consegnare loro l’Afghanistan.

I talebani sono diventati brave persone e cosa potrebbero fare le femministe di fronte al diktat americano?

D’altra parte, cosa hanno potuto fare le femministe per le donne afroamericane e ispaniche, che vivono negli Stati Uniti, i cui diritti non sono affatto rispettati?

Infine, una femminista non può difendere una qualsiasi guerra perché la guerra è morte, stupro, sofferenza, fame, privazione, per bambini, donne, giovani, anziani...

Nella guerra godono solo i trafficanti di armi che, ovviamente, non vanno mai a combattere.

Inoltre, una femminista non può accettare che anche un solo uomo debba morire per difenderne i diritti, perché non si può avere un diritto privando altri del più importante di tutti, che è la vita.

Comunque, se qualcuno, maschio o femmina, crede davvero che la guerra sia fonte di miglioramento nel mondo e soluzione dei problemi, abbia almeno la dignità, invece di stare a casa a sputare sentenze assurde, di alzarsi e andare a combattere personalmente. Così avrà modo di capire di cosa si stia parlando.

 Renata Rusca Zargar

Articolo che ho scritto, mandato a Liguria2000news e Controluce.it La foto ovviamente l'ho presa in internet. Si nota un bambino in mezzo a quella gente. Perciò la ritengo significativa.



martedì, agosto 24

La girandola delle parole - anteprima premiazione - Terza edizione


Ho ottenuto anch'io una menzione speciale, partecipando in una nuova sezione: poesia visiva, ovvero con una brevissima opera, scritta sull'immagine di un  quadro ad olio da me dipinto. Se cercate il mio nome, sono l'ultima nell'elenco dei premiati, perché questa nuova sezione è anche l'ultima nelle varie categorie. O forse perché valgo poco? Mi complimento con tutti i concorrenti che hanno ottenuto ambiti premi. 

Danila Oppio

sabato, agosto 21

I LUTTI SENZA FINE DEL SAHEL di Padre MAURO ARMANINO

Alcuni rifugiati con P. Mauro Armanino

         I lutti senza fine del Sahel

Il mestiere più pericoloso nel Sahel adesso è quello del contadino. La strategia dei Gruppi Armati Terroristi li ha infatti presi come fin troppo facile bersaglio. Chini sulla terra da coltivare sono uccisi da uomini armati che arrivano all’improviso, il mattino o il pomeriggio, sicuri di trovarli al lavoro. I militari sono l’altro bersaglio dei Gruppi Armati quando pattugliano oppure sono di scorta ai civili com’è accaduto recentemente nel Burkina Faso. Si chiama la zona delle ‘tre frontiere’, quelle del Mali, del Niger e del citato Burkina Faso che si trova, suo malgrado, a essere una delle regioni più pericolose al mondo. Dall’inizio dell’anno i morti nel Sahel si contano ormai a centinaia. I massacri sono opera dei terroristi, banditi armati e sedicenti djihadisti ma anche delle Forze di Difesa e di Sicurezza oltre che dei gruppi di ‘autodifesa’ o suppletivi. Questi ultimi si sono costituiti in seguito all’evidente incapacità delle forze armate di difendere i contadini dei villaggi nella regione. Formati e armati in modo sommario si aggregano spesso, secondo appartenenze etniche, e ciò li rende vulnerabili agli attacchi dei gruppi armati. I lutti sono anche per loro.

Il Burkina Faso ha iniziato giovedì un lutto nazionale di tre giorni, in seguito all’attacco djihadista che ha ucciso 65 civili, 15 gendarmi e 6 suppletivi delle forze armate del Burkina. Secondo alcuni specialisti, i gruppi armati attaccano con più frequenza i convogli misti in vista di controllare questa parte del Paese. Il governo nigerino, da parte sua, lo scorso martedì ha decretato un lutto nazionale di 48 ore, in seguito all’attacco condotto lunedì da uomini armati non identificati, uccidendo 37 civili. Il lunedì 16 agosto l’attacco è stato perpetrato nei campi del villaggio. Tra questi si contano 13 minori e 4 donne. Il mese scorso lo stesso villaggio aveva subito un attacco simile. Uomini armati non identificati avevano ucciso 16 contadini che lavoravano nei loro campi. Questa zona si trova al confine col Mali e subisce attacchi armati fin dal 2017. Quindici soldati di questo paese sono stai uccisi durante un agguato imputato ai djihadisti il giovedì 19 agosto nel centro del Paese. Oltre une ventina sono stati feriti e condotti all’ospedale per cure. 

Un lutto nazionale di 72 ore è stato decretato dal presidente della Transizione del Mali, Assimi Goita, per rendere omaggio alle vittime degli attacchi concertati in quattro villaggi nel nord del paese, nella notte da domenica a lunedì. Il presidente ha affermato che le forze armate del Mali faranno il possibile per ricercare e ‘neutralizzare’ gli autori di questa barbarie e chiede al popolo di rimanere unito e determinato in questa prova in vista di continuare la lotta contro il terrorismo. Chi parla, è colui che ha guidato l’ultimo colpo di stato nel Mali l’anno scorso. Da allora le cose non sono migliorate e le speranze riposte nella giunta militare si stanno gradualmente sfaldando. I giorni di lutto proclamato nel Sahel hanno ancora un bel futuro.

 Un lutto nazionale di tre giorni è stato decretato per i soldati del Chad uccisi da Boko Haram, gruppo che a sua volta avrebbe perso un centinaio di combattenti. Nell’isola dell’omonimo lago le unità di Forza e Difesa citate erano state inviate per proteggere la popolazione. Neppure gli operatori umanitari sono risparmiati. Sui 35 umanitari uccisi dall’inizio dell’anno, 11 sono morti nel Sudan del Sud, 9 nella Repubblica Democratica del Congo e 2 in Centrafrica. La maggior parte delle vittime sono lavoratori locali e i loro nomi saranno presto dimenticati. Proprio come quelli dei contadini, dei soldati, e delle migliaia di donne e bambini, costretti  fuggire per sopravvivere al prossimo lutto decretato dai governi dei Paesi del Sahel.

Il primo lutto è quello della politica che, per la sua assenza o per avidità di potere, ha tradito se stessa col popolo che dopo sessant’anni d’indipendenza merita di più che dichiarazioni di lutti. L’altro lutto è quello d’ideologie che hanno preso Dio in ostaggio e,  profittando del vuoto della giustizia sociale colmato da radicalismi salafisti, crea e giustifica nel Suo nome i delitti più efferati. Il lutto più tragico, infine, è quello decretato dalle parole, perché tutto parte e si radica nella menzogna che altro non è che uno stupro perpetrato su di loro. I lutti si trasformeranno in gioia solo quando le parole risorgeranno dalle tombe e danzeranno con i bambini vestiti di festa.


       Mauro Armanino, Niamey, 22 agosto 2021


venerdì, agosto 20

IL CAGNOLINO DI PELUCHE di RENATA RUSCA ZARGAR

 


IL CAGNOLINO DI PELUCHE

Ogni mattina, Giuseppe usciva fuori dai cartoni che proteggevano il suo giaciglio sotto il ponte sul fiume Letimbro e si avviava verso i bidoni della spazzatura. 
Da qualche anno, là vicino, stavano proponendo ai cittadini (quelli che possedevano una casa) la raccolta differenziata, così egli poteva scegliere se aveva necessità di carta o se andava alla ricerca di qualche rimasuglio di cibo lasciato nei sacchetti compostabili, gettati via frettolosamente.
Giuseppe era un alcolista e il suo unico scopo era di trovare del denaro per potersi comprare una bottiglia di vino a basso prezzo. Quel liquido gli dava subito l’impressione di un calore che, altrimenti, non provava più e lo aiutava a far scorrere i giorni di una vita ottenebrata. 
Certo, una volta, era stato diverso. 
Anzi, egli era il dirigente amministrativo di una piccola impresa di riparazione dei carri ferroviari e guadagnava bene. La casa in cui viveva era ordinata e pulita (sua moglie, a dire il vero, pensava a ogni particolare e non si lasciava sfuggire neppure un granello di polvere) ma, soprattutto, egli aveva una figlia, Teresa, che adorava.
Ormai, però, egli aveva lasciato tutto ciò e, quindi, sollevando il coperchio del contenitore dell’immondizia, aveva iniziato a frugare all’interno. Le bucce della frutta conservavano ancora dei resti commestibili e, qualche volta, si potevano trovare persino degli avanzi di carne che qualche svogliato sprecone aveva scartato. 
Il vento soffiava tristemente, sollevando qua e là delle cartacce. 
Dopo aver mangiato un po’ di quei rifiuti, strettosi nel cappotto di lana grigio assai consunto che lo avvolgeva giorno e notte, si era recato all’angolo di via Paleocapa, dove solitamente chiedeva l’elemosina. 
Non aveva bisogno di molto: appena aveva racimolato quattro o cinque euro, correva a comprare al supermercato la solita bottiglia di vino che tracannava avidamente. 
Quindi, tornava al suo giaciglio sotto il ponte del fiume. 
Di nuovo, poi, sorgeva un altro giorno e l’uomo, perduto l’effetto anestetico dell’alcool, tornava a cercare.
Nel solito bidone, quella mattina, aveva trovato un sacchetto con diverse cose: del torrone, del pane secco, un formaggino. Infine, un po’ sporco ma in buone condizioni, c’era anche un simpatico cagnolino di peluche marrone e bianco con un grande cuore rosso. 
A Giuseppe era tornato in mente che Teresa ne aveva uno simile, così, l’aveva preso e infilato sotto il suo cappotto lurido e puzzolente. 
Quindi, come il solito, si era diretto verso via Paleocapa per la questua. 
Il cagnolino, che si chiamava Spotty, aveva abitato in casa di Aurora, una bimba della zona. Spesso, ella lo teneva con sé nel lettino al caldo: -Spotty, fai il bravo! - e lo faceva saltare qua e là sul tappeto oppure, abbracciandolo, si addormentava serenamente nel tepore delle copertine rosa e azzurre. 
Per un periodo, essi avevano giocato sempre insieme e gli occhi finti di Spotty ammiccavano con gioia. Poi, erano arrivate due magnifiche foche dal pelo candido e avevano occupato il suo posto nel letto della bambina. 
Spotty veniva trascinato da una parte all’altra della stanza, senza un posto fisso, fintanto che il padre di Aurora, riordinando la camera e trovandolo sporco e inutile, non l’aveva gettato nella spazzatura. 
Dunque, il tenero Spotty era stato chiuso al buio in una plastica soffocante e, quindi, aveva raggiunto il bidone con altri rifiuti indifferenziati. Per fortuna, era stato recuperato e si trovava, ora, nella tasca interna di quel cappotto sconcio, proprio all’altezza del cuore di Giuseppe.
- Signore, faccia la carità. - masticava l’uomo tendendo la mano ai passanti. I suoi capelli unti e attorcigliati, la barba lunga, gli davano un aspetto sempre più miserabile. Qualcuno frugava in tasca e consegnava qualche spicciolo. 
Intanto, il vento continuava a soffiare sollevando polvere e cartacce e la gente si affrettava: quel giorno, non era facile raccogliere la solita cifra, molti passanti tiravano in lungo infastiditi dalla sua vista. 
Perché vivere così? Riflettevano. 
Oggi, poi, Giuseppe si era ripromesso di attendere qualche euro in più e comprare due bottiglie invece di una. 
Ormai, una sola non era abbastanza. 
I ricordi tornavano pressanti… 
La cameretta rosa con le tendine ricamate alle finestre, il libro di lettura di Teresa che cominciava appena appena a compitare alcune parole seguendo le lettere e tenendovi sotto il ditino. La sera, quando il padre tornava a casa dal lavoro, lei gli saltava in braccio e gli si stringeva al collo…
-Signora, la carità, la prego, la carità! 
Perché non andava a lavorare quell’uomo? Non era poi così vecchio, una volta ripulito un po’, pensava la gente.
Una giovane donna elegante, senza parlare e senza muovere neppure un muscolo del viso, aveva lasciato cadere un biglietto da 20 euro. 
Ecco, proprio a pochi metri c’era il solito supermercato! Tre bottiglie di vino, un chilo di pane, un pezzo di formaggio. La cassiera lo guardava con disgusto. Purché facesse presto a pagare e andarsene, gli aveva regalato un bel sacchetto verde. Puzzava così forte quell’uomo e veniva ogni giorno ad acquistare il vino e qualche altra cosetta. Un vero guaio! I clienti lo osservavano infastiditi e con ribrezzo. C’era il pericolo di perdere degli acquirenti, persone per bene, con un simile frequentatore!
Giuseppe era uscito dal locale e, appena fuori della porta, aveva stappato una delle bottiglie e se l’era attaccata alla bocca. Mentre il liquido rosso scendeva lungo l’esofago, un vago calore gli avvolgeva le membra e, soprattutto, la mente. 
Allora, la cameretta rosa svaniva lentamente. Il corpicino magro di sua figlia, disteso immobile su quel letto dal bellissimo piumone di raso trapuntato, con le braccine strette attorno a un cagnetto di peluche rosso, si allontanava. Come pure sbiadiva l’ora, le tre e trenta del mattino, che, di solito, dominava, ossessiva, tra le pieghe del cervello. 
Quelle immagini non rodevano più orrendamente il suo stomaco, così come avveniva, invece, non appena l’alcool lo lasciava solo. 
Adesso, una nebbia chiara e avvolgente scendeva a proteggerlo. 
Giuseppe era tornato, dunque, al suo giaciglio sotto il ponte dove, tra i cartoni, si era addormentato profondamente.
La notte, la pioggia aveva preso a scendere copiosa. 
Se più in alto, al nord, la neve e il ghiaccio invadevano le montagne in anticipo rispetto alla stagione, vicino al mare, la tempesta si sfogava in un turbinio d’acqua che, con il passare delle ore, diveniva più feroce e rombante. 
L’uomo, immemore, non si accorgeva dell’innalzarsi del livello delle acque, né dei rifiuti che le onde limacciose trascinavano con foga verso la foce. Solo poco dopo le tre di notte, un mulinello misto di fango e rami spezzati di alberi si era ingrossato come le fauci di un feroce drago e l’aveva inghiottito. 
Trasportato quasi fosse un fuscello dalla corrente, colpito da pietre e oggetti di ogni tipo, Giuseppe rotolava tra i flutti. 
Finalmente, erano le tre e trenta, il suo spirito era tornato a navigare lassù, in un cielo terso e profumato, mentre la sua bimba gli veniva incontro sorridente. 
Quelle parole, “Un tumore al rene, Teresa ha un tumore al rene… É in stadio avanzato… Non c’è nessuna speranza, solo pochi mesi di vita…”, che il medico dell’ospedale aveva pronunciato senza il coraggio neppure di guardarlo in faccia, avevano irrimediabilmente distrutto la sua vita. 
Ma ormai non lo atterrivano più.
Mano nella mano con la sua Teresa, passeggiava nei giardini dove l’orrida sofferenza è pace. 
Al loro fianco, due cagnolini che erano stati di peluche abbaiavano e correvano festosamente.
Alcuni giorni dopo, sulla spiaggia francese, molti chilometri lontano dal torrente Letimbro, alcuni passanti avevano trovato un cadavere in decomposizione. 
Stringeva al petto, però, un piccolo cagnolino di peluche marrone e bianco con un cuore rosso. 

Renata Rusca Zargar

domenica, agosto 15

IL RACCONTO di RENATA RUSCA ZARGAR

 


IL RACCONTO

Il sogno di Giuseppina, fin da quando era bambina, era stato quello di scrivere: racconti, romanzi, fiabe, qualsiasi cosa. Ma prima che suo il sogno era stato di suo padre Francesco che si vantava di essere stato molto bravo in italiano quando andava a scuola. Poi egli, occupato continuamente dal lavoro, in realtà, non aveva scritto neppure una riga né aveva letto neanche un libro tra quelli delle collane di romanzi e classici della letteratura che spesso acquistava. 

I libri li leggeva Giuseppina ma, quanto a scrivere, il momento non era mai venuto neppure per lei. 

Alcuni anni prima, infine, Francesco, tormentato,  da tempo da una terribile malattia, era morto e mai era apparso nei sogni di Giuseppina che avrebbe voluto essere la sua figlia prediletta. Spesso, in situazioni speciali, le veniva alla mente ma non riusciva mai a sentirsi unita a lui come avrebbe desiderato. 

Fu così che un giorno, approfittando di un’influenza che l’aveva confinata in casa, prese la penna e decise di raccontare l’ultima storia sua e di suo padre e di abbellirla un po’ con la fantasia.

L’OROLOGIO


Gino era entrato in coma la mattina del 15 luglio.  Nessuno era presente in quel momento nella stanza d’ospedale a più letti dalle grandi vetrate che s’affacciavano sul saliscendi delle colline scure solidamente ancorate alle acque del golfo intensamente azzurro. L’infermiera di turno, che era giunta contemporaneamente al carrello delle pulizie per spalancare le persiane e aprire le finestre, l’aveva trovato là, nel letto, con la bocca semiaperta e il respiro rantolante. 

Subito aveva chiamato il medico che, considerata ormai l’inutilità di ogni cura, l’aveva fatto trasferire in una stanzetta libera, a due letti, perché potesse morire al riparo da sguardi indiscreti.

Poco dopo, erano arrivate la figlia Rossana e Giulietta, la ragazza albanese che lo accudiva da quando era diventato incapace di camminare.

Esse si erano accinte a vegliare la sua fine. 

Le ore trascorrevano lente e nulla cambiava. 

Egli non apriva gli occhi né dava alcun segno, solo quell’arida bocca spalancata ad acchiappare il respiro lo teneva collegato alla realtà terrena.

Poi, era iniziata la notte: altre ore inesorabilmente lunghe. 

Infine, un sussulto, dei gemiti, e dall’antro scuro della bocca era sgorgato un fiume verde di bile.

- Aiuto, infermiera! - aveva chiamato Rossana, sperando, forse, in una ripresa. 

Quante volte, infatti, suo padre era stato dato per morto!

 - Il corpo non ce la fa più! - dicevano i medici - Il fegato non funziona, i reni, l’intestino, si stanno disfacendo. 

Eppure, ce l’aveva fatta tante volte. 

Era tornato alla vita, lucido, seppur immobilizzato nel letto. 

Altri giorni, invece, all’ora della visita, lo trovava là, tra lenzuola e biancheria gettate via, nudo, con il vomito che gli si attaccava addosso, incosciente… 

Ma, ormai non c’era più nulla da sperare. 

Il rantolo era ripreso uguale, il corpo era gelido anche sotto le coperte di lana nonostante la temperatura estiva. 

Sul comodino c’era il suo orologio d’oro con il bel cinghino di pelle nera. 

Gino amava gli orologi e ne aveva regalati tanti e diversi a Rossana: di metallo, d’oro o d’argento, subacquei, con disegni colorati…

Rossana teneva tra le mani quell’ultimo oggetto di suo padre: funzionava perfettamente e segnava con indifferenza lo scorrere di quelle ore dense di dolore. 

Poi, un altro giorno era sopravvenuto: 16 luglio, il compleanno di Rossana. 

Ella aveva letto in un libro che alcune date sono molto importanti per noi: gli stessi numeri tornano ciclicamente a indicare eventi positivi o negativi ma sempre decisivi nella nostra vita. 

Chissà, forse la sua data di nascita era stata importante per Gino quando, molti anni prima, era divenuto padre per la prima volta. Allora, forse, avrebbe concluso il suo cammino terreno proprio in quel giorno, le avrebbe dato un segno, e sarebbe stato comunque ricordare un avvenimento determinante.

 - Chissà se l’inconscio funziona veramente così? - si chiedeva. 

La notte si era avvicinata, la mezzanotte era trascorsa ed era iniziato il giorno 17.

Lo spirito di Gino, dunque, non aveva voluto mostrare che Rossana era qualcosa di speciale per lui. Ed ella lo rivedeva ancora nei mesi – tanti - trascorsi nel letto d’ospedale a scrutare il golfo oltre la finestra oppure a fissare la porta, in attesa della moglie e del figlio.

Essi non apparivano che raramente. Eppure, quando si facevano vivi, il suo sguardo s’illuminava, parlava, tutto felice, e mai appariva a loro malato.

Solo a Rossana riservava le lunghe giornate di febbre, l’impossibilità di trangugiare il cibo, le amnesie e i dolori che lo colpivano alle ossa. 

Per anni, i colloqui con i medici erano stati un suo compito, i dubbi su quelle perdite di sangue… le decisioni da prendere, gli interventi chirurgici in extremis… 

Tutto nelle sue mani!

Ormai, però, Rossana e Giulietta, stremate da quel terribile rantolo, pregavano che Dio concedesse la pace al di là delle sofferenze terrene. 

Infine, alle tre e quindici del 17 luglio, il respiro semplicemente aveva taciuto.

In fretta, gli infermieri avevano preparato tutto per l’obitorio: Gino era stato vestito con un bell’abito scuro e il suo corpo malandato era diventato di pietra. 

La borsa con le sue cose, un tovagliolo, un asciugamano, qualche pigiama, era pronta da rimandare a casa.

Solo sul comodino era rimasto l’orologio. 

Segnava ancora le tre e quindici.

Strana coincidenza. 

Fino a quel momento aveva funzionato benissimo, anche perché andava a pila e non aveva bisogno, come certi altri meccanismi, del movimento del braccio di chi lo usava.


Qualche tempo era passato. 

A Rossana restava per ricordo del padre quell’unico orologio che non aveva consegnato alla madre con gli altri oggetti.

 -Tanto nessuno lo vuole – pensava - Io, invece, lo userò. 

Il cinghino nero di pelle pitonata faceva bella mostra di sé al suo polso. Le ore della vita di sempre si muovevano in tondo ed ella non lo lasciava mai, neppure di notte.

Il ricordo del padre faceva male. 

Egli non c’era più e non poteva raccontargli, come usava un tempo, gli episodi del suo quotidiano che divertivano tutta la camerata dell’ospedale. 

Se, invece, ci fosse stato ancora, egli avrebbe letto quegli articoli che ella scriveva su di un piccolo giornale di provincia e sarebbe stato orgoglioso delle lotte un po’ assurde che Rossana faceva per seguire sempre i suoi principi e i suoi valori.

A volte, ella avrebbe voluto sapere se le era restato vicino anche dopo la morte, se poteva aiutarla, se Dio l’aveva accolto in una pace che l’uomo non può comprendere. 

Ma non provava nessuna sensazione di risposta.

Solo l’orologio l’accompagnava nel cammino con quel leggero ticchettio delle sottili lancette che girava indicando i minuscoli puntini d’oro a rappresentare le ore.

Naturalmente, facendo la doccia, Rossana toglieva l’orologio e così era capitato che, nella fretta di correre al lavoro, lo avesse dimenticato a casa. Tornata, aveva notato che la macchina meccanica si era fermata.

 - Forse sarà scarica la pila. - aveva concluso. Ma poi, rimesso al braccio, l’oggetto riprendeva a funzionare con precisione.   

Questo fatto era capitato diverse volte tanto che ne aveva chiesto ragione a chi si intendeva di questo tipo di meccanismi.

 - L’orologio funziona a pila e quindi va sia al braccio che in qualsiasi altra posizione, purché la pila sia attiva. - le era stato risposto.

Per precauzione, comunque, Rossana aveva fatto cambiare la pila dall’orologiaio e ne aveva scelta una più resistente delle altre.

Eppure, quella era diventata quasi un’ossessione: appena lontano dal braccio, anche per pochi minuti, l’orologio si fermava inesorabilmente e riprendeva a funzionare non appena rimesso a posto.

Per il resto, tutto andava bene, il tempo mitigava il dolore. 

Solo ogni tanto ella ricordava quel corpo scheletrico, quel viso affilato e scarno, e si chiedeva perché mai suo padre non le fosse apparso neppure in sogno. 

Un tempo, alla morte della nonna, le era sembrato addirittura di vederla avanzare scivolando in casa, vestita dei suoi panni scuri e sorridente. 

Poi, l’aveva sognata molte volte e la sua presenza le dava conforto e aiuto nel superare le difficoltà. 

Ma il padre, forse, non era a lei, come di solito, che dedicava la sua attenzione maggiore!

Alla fine dell’anno, l’ufficio aveva organizzato una bella gita in montagna. 

Rossana aveva aderito con piacere: qualche giorno in un paesaggio diverso, sulla neve, lontano dal caos della città… 

Già se le immaginava le candide distese di neve, i silenzi ovattati a un passo dal cielo blu e le fiaccolate a rischiarare la notte! 

Erano partiti in molti, assiepati in un lussuoso autobus fornito di ogni comfort.

 Eppure, scivolando a una curva della strada di montagna, l’elegante autobus era precipitato giù dalla scarpata, rotolandosi e infrangendosi tra alberi e spuntoni di roccia. 

I soccorritori avevano trovato corpi sparsi qua e là tra le lamiere. Molti erano morti, altri gravemente feriti. 

Rossana era stata trasportata all’ospedale: le sue condizioni apparivano disperate, forse un’emorragia interna…

Al suo polso, l’orologio si era arrestato sull’ora dell’incidente. 

Ella non aveva visto la sala operatoria dai colori verdi, né i medici affaccendarsi su di un corpo dai flebili segnali. 

E l’orologio, nel cassetto del comodino dove era stato deposto dall’infermiera che l’aveva preparata per l’operazione, giaceva ancora, inutilmente fermo. 

Erano trascorsi alcuni mesi, le sue condizioni erano sempre molto gravi e i medici avevano deciso per un’altra operazione al cervello, l’ultimo tentativo per recuperarla alla vita.

- Le prossime ore saranno determinanti. - aveva detto il chirurgo ai parenti dopo le lunghe ore nella sala operatoria – Ma probabilmente non ce la farà.  

Era il 16 luglio, il giorno del suo compleanno. 

Il tempo trascorreva lento. 

Rossana, in sala rianimazione, non aveva ripreso conoscenza. Solo le macchine che sostituivano le funzioni cardio-respiratorie la tenevano ancora in vita. 

Alle dieci di sera era cambiato il turno degli infermieri e una di loro era venuta a vederla: tutti ricordavano ancora quel terribile incidente di cui, a suo tempo, avevano parlato i mass media! 

Rossana giaceva là, con il respiro sempre più debole…

Sospirando, l’infermiera le aveva praticato l’ultima iniezione della sera. 

Sapeva bene che non si esce che molto difficilmente dal coma, specialmente in quelle condizioni. Poi si era dedicata agli altri malati.

Mancavano cinque minuti alla mezzanotte del 16 luglio quando le macchine avevano preso a suonare: il cuore si stava fermando definitivamente.

 - Presto, adrenalina! Massaggio cardiaco! 

Rossana aveva riaperto gli occhi: era mezzanotte meno due minuti del 16 luglio ed ella era salva.

Nel cassetto, l’orologio aveva ripreso a funzionare e lassù, tra le alte sfere del cielo, Gino sorrideva con la sua bocca scarna e sdentata.”

Ecco, il racconto era completo. 

Ora doveva spedirlo a un Concorso letterario della sua città di cui sentiva parlare da tanto tempo.

Fu solo dopo alcuni mesi che Giuseppina ebbe il risultato del Concorso: aveva vinto il primo premio e la storia sarebbe stata pubblicata su di una rivista. 

Beh, non era male come inizio!

Lassù, nel frizzante empireo lucido di stelle, Francesco sorrideva con la sua bocca scarna e sdentata.

Renata Rusca Zargar