IL CAGNOLINO DI PELUCHE
Ogni mattina, Giuseppe usciva fuori dai cartoni che proteggevano il suo giaciglio sotto il ponte sul fiume Letimbro e si avviava verso i bidoni della spazzatura.
Da qualche anno, là vicino, stavano proponendo ai cittadini (quelli che possedevano una casa) la raccolta differenziata, così egli poteva scegliere se aveva necessità di carta o se andava alla ricerca di qualche rimasuglio di cibo lasciato nei sacchetti compostabili, gettati via frettolosamente.
Giuseppe era un alcolista e il suo unico scopo era di trovare del denaro per potersi comprare una bottiglia di vino a basso prezzo. Quel liquido gli dava subito l’impressione di un calore che, altrimenti, non provava più e lo aiutava a far scorrere i giorni di una vita ottenebrata.
Certo, una volta, era stato diverso.
Anzi, egli era il dirigente amministrativo di una piccola impresa di riparazione dei carri ferroviari e guadagnava bene. La casa in cui viveva era ordinata e pulita (sua moglie, a dire il vero, pensava a ogni particolare e non si lasciava sfuggire neppure un granello di polvere) ma, soprattutto, egli aveva una figlia, Teresa, che adorava.
Ormai, però, egli aveva lasciato tutto ciò e, quindi, sollevando il coperchio del contenitore dell’immondizia, aveva iniziato a frugare all’interno. Le bucce della frutta conservavano ancora dei resti commestibili e, qualche volta, si potevano trovare persino degli avanzi di carne che qualche svogliato sprecone aveva scartato.
Il vento soffiava tristemente, sollevando qua e là delle cartacce.
Dopo aver mangiato un po’ di quei rifiuti, strettosi nel cappotto di lana grigio assai consunto che lo avvolgeva giorno e notte, si era recato all’angolo di via Paleocapa, dove solitamente chiedeva l’elemosina.
Non aveva bisogno di molto: appena aveva racimolato quattro o cinque euro, correva a comprare al supermercato la solita bottiglia di vino che tracannava avidamente.
Quindi, tornava al suo giaciglio sotto il ponte del fiume.
Di nuovo, poi, sorgeva un altro giorno e l’uomo, perduto l’effetto anestetico dell’alcool, tornava a cercare.
Nel solito bidone, quella mattina, aveva trovato un sacchetto con diverse cose: del torrone, del pane secco, un formaggino. Infine, un po’ sporco ma in buone condizioni, c’era anche un simpatico cagnolino di peluche marrone e bianco con un grande cuore rosso.
A Giuseppe era tornato in mente che Teresa ne aveva uno simile, così, l’aveva preso e infilato sotto il suo cappotto lurido e puzzolente.
Quindi, come il solito, si era diretto verso via Paleocapa per la questua.
Il cagnolino, che si chiamava Spotty, aveva abitato in casa di Aurora, una bimba della zona. Spesso, ella lo teneva con sé nel lettino al caldo: -Spotty, fai il bravo! - e lo faceva saltare qua e là sul tappeto oppure, abbracciandolo, si addormentava serenamente nel tepore delle copertine rosa e azzurre.
Per un periodo, essi avevano giocato sempre insieme e gli occhi finti di Spotty ammiccavano con gioia. Poi, erano arrivate due magnifiche foche dal pelo candido e avevano occupato il suo posto nel letto della bambina.
Spotty veniva trascinato da una parte all’altra della stanza, senza un posto fisso, fintanto che il padre di Aurora, riordinando la camera e trovandolo sporco e inutile, non l’aveva gettato nella spazzatura.
Dunque, il tenero Spotty era stato chiuso al buio in una plastica soffocante e, quindi, aveva raggiunto il bidone con altri rifiuti indifferenziati. Per fortuna, era stato recuperato e si trovava, ora, nella tasca interna di quel cappotto sconcio, proprio all’altezza del cuore di Giuseppe.
- Signore, faccia la carità. - masticava l’uomo tendendo la mano ai passanti. I suoi capelli unti e attorcigliati, la barba lunga, gli davano un aspetto sempre più miserabile. Qualcuno frugava in tasca e consegnava qualche spicciolo.
Intanto, il vento continuava a soffiare sollevando polvere e cartacce e la gente si affrettava: quel giorno, non era facile raccogliere la solita cifra, molti passanti tiravano in lungo infastiditi dalla sua vista.
Perché vivere così? Riflettevano.
Oggi, poi, Giuseppe si era ripromesso di attendere qualche euro in più e comprare due bottiglie invece di una.
Ormai, una sola non era abbastanza.
I ricordi tornavano pressanti…
La cameretta rosa con le tendine ricamate alle finestre, il libro di lettura di Teresa che cominciava appena appena a compitare alcune parole seguendo le lettere e tenendovi sotto il ditino. La sera, quando il padre tornava a casa dal lavoro, lei gli saltava in braccio e gli si stringeva al collo…
-Signora, la carità, la prego, la carità!
Perché non andava a lavorare quell’uomo? Non era poi così vecchio, una volta ripulito un po’, pensava la gente.
Una giovane donna elegante, senza parlare e senza muovere neppure un muscolo del viso, aveva lasciato cadere un biglietto da 20 euro.
Ecco, proprio a pochi metri c’era il solito supermercato! Tre bottiglie di vino, un chilo di pane, un pezzo di formaggio. La cassiera lo guardava con disgusto. Purché facesse presto a pagare e andarsene, gli aveva regalato un bel sacchetto verde. Puzzava così forte quell’uomo e veniva ogni giorno ad acquistare il vino e qualche altra cosetta. Un vero guaio! I clienti lo osservavano infastiditi e con ribrezzo. C’era il pericolo di perdere degli acquirenti, persone per bene, con un simile frequentatore!
Giuseppe era uscito dal locale e, appena fuori della porta, aveva stappato una delle bottiglie e se l’era attaccata alla bocca. Mentre il liquido rosso scendeva lungo l’esofago, un vago calore gli avvolgeva le membra e, soprattutto, la mente.
Allora, la cameretta rosa svaniva lentamente. Il corpicino magro di sua figlia, disteso immobile su quel letto dal bellissimo piumone di raso trapuntato, con le braccine strette attorno a un cagnetto di peluche rosso, si allontanava. Come pure sbiadiva l’ora, le tre e trenta del mattino, che, di solito, dominava, ossessiva, tra le pieghe del cervello.
Quelle immagini non rodevano più orrendamente il suo stomaco, così come avveniva, invece, non appena l’alcool lo lasciava solo.
Adesso, una nebbia chiara e avvolgente scendeva a proteggerlo.
Giuseppe era tornato, dunque, al suo giaciglio sotto il ponte dove, tra i cartoni, si era addormentato profondamente.
La notte, la pioggia aveva preso a scendere copiosa.
Se più in alto, al nord, la neve e il ghiaccio invadevano le montagne in anticipo rispetto alla stagione, vicino al mare, la tempesta si sfogava in un turbinio d’acqua che, con il passare delle ore, diveniva più feroce e rombante.
L’uomo, immemore, non si accorgeva dell’innalzarsi del livello delle acque, né dei rifiuti che le onde limacciose trascinavano con foga verso la foce. Solo poco dopo le tre di notte, un mulinello misto di fango e rami spezzati di alberi si era ingrossato come le fauci di un feroce drago e l’aveva inghiottito.
Trasportato quasi fosse un fuscello dalla corrente, colpito da pietre e oggetti di ogni tipo, Giuseppe rotolava tra i flutti.
Finalmente, erano le tre e trenta, il suo spirito era tornato a navigare lassù, in un cielo terso e profumato, mentre la sua bimba gli veniva incontro sorridente.
Quelle parole, “Un tumore al rene, Teresa ha un tumore al rene… É in stadio avanzato… Non c’è nessuna speranza, solo pochi mesi di vita…”, che il medico dell’ospedale aveva pronunciato senza il coraggio neppure di guardarlo in faccia, avevano irrimediabilmente distrutto la sua vita.
Ma ormai non lo atterrivano più.
Mano nella mano con la sua Teresa, passeggiava nei giardini dove l’orrida sofferenza è pace.
Al loro fianco, due cagnolini che erano stati di peluche abbaiavano e correvano festosamente.
Alcuni giorni dopo, sulla spiaggia francese, molti chilometri lontano dal torrente Letimbro, alcuni passanti avevano trovato un cadavere in decomposizione.
Stringeva al petto, però, un piccolo cagnolino di peluche marrone e bianco con un cuore rosso.
Renata Rusca Zargar
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