E oggi apprendo la triste notizia...e penso che certe persone che hanno dato tanto, avrebbero diritto all’eternità, pur rimanendo eterni con le loro opere o artistiche o letterarie. Addio Luca, ti voglio ricordare con le parole del tuo collega giornalista Francesco Moroni.
Danila Oppio
Da Il RESTO DEL CARLINO
Luca Goldoni, una delle figure più emblematiche del giornalismo italiano, ci ha lasciato all’età di 95 anni il 7 ottobre 2023. Si è spento nel pomeriggio all’hospice di Casalecchio di Reno, dove era stato ricoverato a causa di un peggioramento delle sue condizioni di salute
La luminosa carriera di Goldoni
Goldoni non è stato solo un giornalista, ma anche un prolifico scrittore. Durante la sua lunga carriera, ha lavorato come cronista di nera e inviato di guerra per prestigiose testate come il Corriere della Sera, QN, Il Resto del Carlino, il Giorno e la Nazione. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti, spiccano il Libro d’oro, ottenuto per aver superato i tre milioni di copie vendute con i suoi lavori, e la Palma d’Oro al salone dell’umorismo per “Non ho parole”.
Ricordi indimenticabili
Nato a Parma nel 1928, Goldoni iniziò la sua carriera giornalistica per il quotidiano della sua città, la Gazzetta di Parma. Successivamente, si trasferì a Bologna per lavorare per Il Resto del Carlino. Una delle storie più memorabili della sua carriera riguarda la corrispondenza da Praga nel 1968, durante l’invasione dei carri armati sovietici. Goldoni, per eludere la censura sovietica, dettò la sua corrispondenza in dialetto parmigiano, un aneddoto che ha raccontato con orgoglio nel maggio 2021 Fra i suoi numerosi libri, alcuni dei più noti sono ‘Lei m’insegna’, ‘È gradito l’abito scuro’, ‘Italia al guinzaglio’, ‘Il sopravvissuto’ (premio Fenice Europa), ‘Il mare nell’anima’, ‘Cioè’, ‘Tranelli d’Italia’ e ‘Francesco Baracca’. Quest’ultimo, scritto in collaborazione con il figlio Alessandro, anch’esso giornalista, è dedicato all’aviere di Lugo. Luca Goldoni ha anche espresso una profonda ammirazione per Maria Luigia, duchessa di Parma e moglie di Napoleone, descrivendola come una donna avanti ai suoi tempi per l’epoca in cui viveva.
Morto a 95 anni, dopo una malattia che, seppure complicata da gestire, non gli aveva tolto l’umorismo e lo sguardo ironico sul mondo. Luca Goldoni ha vissuto molte vite: cronista di nera, inviato di guerra, osservatore di costume. Un giornalista vero, insomma. Di quelli forgiati da un mestiere che, per forza di cose, non esiste più.
Nato a Il Resto del Carlino, la sua firma si allarga nel tempo anche agli altri giornali del Gruppo, a periodici e testate nazionali. Ma è con i libri che la sua penna, mai scontata, trova il migliore respiro: celeberrimo il suo ’Sempre meglio che lavorare’, ma anche ’Dì che ti mando io’, ’Lei m’insegna’, ’Maria Luigia donna in carriera’ e molti, moltissimi altri.
Dalla storia agli animali, dalla politica al (mal)costume italiano. Ironico e corrosivo, mai inutilmente aggressivo e con un occhio particolarmente attento al territorio, agli avvenimenti appena passati come in ’Viaggio in provincia’, ’Bologna Kaputt’ (con Aldo Ferrari e Gianni Leoni) o ’Mettevamo il prete a letto’ (con Enzo Sermasi). La curiosità è stata la sua chiave, che gli ha permesso di scrivere di tutto, dallo sport ai jeans, con vera partecipazione
"Fino all’ultimo non ha perso il proprio umorismo. Quella serenità, unita a grande dignità, che lo contraddistingueva. Da un paio d’anni era sottoposto, non senza fatica, al trattamento di dialisi che riceveva a casa, mentre gli ultimi giorni li ha passati in hospice. Faceva fatica a parlare, chiaramente, eppure continuava ad arrabbiarsi con il suo solito piglio quando non trovava un termine o faceva fatica a pronunciarlo... E io rispondevo: ’Non preoccuparti papà. Le tue parole sono tutte qui, nei libri".
È un ricordo emozionato, sentito, commosso quello di Alessandro. Luca Goldoni per lui non era soltanto "un padre", ma "un amico, un collega". La persona che gli ha trasmesso ogni passione: la scrittura, in primis. Insieme hanno lavorato a più di un libro. Ma anche la lettura. E poi il mare, ovviamente. Il dolore della perdita è ancora permeante, ma Alessandro Goldoni si fa forza, raccoglie i pensieri e li mette in fila per ricordare il papà, morto ieri a 95 anni, con l’amore e l’ammirazione di un figlio, l’affetto di un amico e il rispetto di un collega. Perché, sottolinea, crede se ne sia andato davvero "uno degli ultimi tra i grandi del giornalismo".
Come sono stati questi ultimi, sofferti giorni?
"Lui ha sempre accettato tutte le cure con grande dignità. Siamo rimasti uno accanto all’altro praticamente fino all’ultimo, perché mia madre se n’è andata qualche anno fa ed eravamo io e lui. Ha continuato a prendere tutti i farmaci utili per alleviare le proprie sofferenze: era molto debilitato. Ma c’è una cosa che ha colpito tutti...".
Quale?
"Non ha abbandonato mai la sua ironia. Scherzava, faceva battute. Abbiamo passato un periodo a guardare tutti gli avvenimenti sportivi possibili, dal tennis fino alle partite di calcio. Lui ripeteva come gli avessero stufato tutti questi talk show televisivi... Diceva: ‘Sono sempre le stesse menate’ (ride, n.d.r.)".
Lo ha definito "padre, amico e collega".
"Ho imparato molto da lui. Ho imparato tutto. E, anche adesso, avevamo scambi continui. Era un rapporto bilaterale. Mi diceva: ‘Devi trovare una battuta calzante, puoi scrivere meglio di così’. E io ammiravo questo suo essere pignolo, questa sua ricerca ossessiva della parola giusta al posto giusto".
Quando si è avvicinato alla professione di suo padre?
"Ho sempre seguito i suoi consigli, fin da giovane, e ovviamente sono rimasto affascinato dal suo modo di scrivere. Poi è stato lui, con il tempo, che ha cominciato a chiedere consiglio a me. Ci scambiavamo idee, parole, impressioni. Sono contento di essere rimasto sempre accanto a lui, che rispondeva: ‘Sono felice che sei qui con me’...".
"Uno degli ultimi grandi giornalisti", diceva...
"Ma non lo dico perché parliamo di mio padre. Credo sia riuscito a inventare uno stile che, prima di lui, non esisteva: un modo di raccontare l’Italia, e di calarsi nei panni dell’italiano medio, unico e irripetibile. Con le sue parole riusciva a coinvolgere completamente il lettore, a fargli provare le stesse cose".
Grande empatia?
"Sì, sicuramente. Sono proprio i suoi lettori che continuano a ricordare a tutti cosa fosse la penna di Luca Goldoni...".
L’affetto verso chi ha raccontato la storia intera di un Paese non se n’è mai andato?
"Esattamente. Il suo pubblico ha sempre trasmesso grande affetto e devozione. Molti lettori hanno continuato a scrivere lunghissime lettere: volevano sapere cosa pensasse lui di certi avvenimenti, volevano continuare a leggere le sue parole. Poi c’è anche una pagina Facebook che, da tempo, complice la malattia, non riusciva più a seguire: penso di poter trovare qualcosa come migliaia e migliaia di commenti di seguaci e appassionati che, anche solo per uno scambio veloce, ci tenevano a fargli sapere il proprio pensiero. A scrivergli".
Una vita piena.
"Una persona che non ha mai smesso di viaggiare, che aveva visto il mondo intero, eppure non si è mai montata la testa. Era molto curioso".
Di più. Era davvero curioso! Mi ricordo quando una volta, in Sardegna, si fermò a parlare con un uomo incontrato per strada...".
Cosa successe?
"Aveva notato questo signore impegnato a tagliare il sughero. Si presentarono, si fermarono a parlare per parecchio tempo. Fu in quell’occasione che creò una definizione divertentissima, sottolineando come gli alberi sembravano indossare dei ‘calzoni corti’. Beh, mio padre e questa persona sono rimasti in contatto per tutta la vita e sono diventati grandi amici. Perché lui era così... Era dotato di un’umanità fuori dal comune.
In quel libro che ho citato all'inizio, c'è proprio il capitolo "Chi conosce la Sardegna?" Cito il ricordo del viaggio fatto in Gallura: " E siccome né io né mio figlio siamo troppo ferrati in botanica, lui sosteneva che quelli erano lecci e io farneticavo di ulivi, finché incontrammo una casa con un uomo che trafficava sotto un trattore. Allora scesi e gli domandai che diavolo di piante erano....per la prima volta mi trovai di fronte all'albero del sughero, poco mancava credessi che i tappi spuntassero da terra (ma benedico le mie lacune, che noia sarebbe la vita se non ci fosse ogni tanto qualche stupore infantile). ...Gavino non avrebbe mai smesso di spiegarci: gli alberi erano scorticati fino a metà (e con quella pelle nuda sembravano in braghe corte) perché sennò morirebbero, mentre così in nove anni si riforma la scorza...
Incrocio un’auto ferma in mezzo alla strada che lampeggia per poter svoltare. Mendica una gentilezza e io freno per favorire la manovra. Un ragazzetto in scooter sopraggiunge, mi affianca e mi grida "sveglia nonno!". Mi ha dato del vecchio bollito ma senza rabbia. Solo perché non concepisce che si possa rinunciare a un diritto. Diventeranno grandi anche loro, ma per adesso mi fanno sentire un sopravvissuto.
Come si sa l’uomo è il più infelice fra gli esseri viventi, perché ha coscienza anche della morte. Lo sa pure da giovane, ma non collega l’evento alla sua sorte personale. O meglio, ripete che tutti siamo destinati a morire, ma lo pensa in astratto: un modo di dire, tipo si vive una volta sola, la vita è fatta a scale ecc. È invecchiando che il nostro si scopre all’improvviso “zavorra” per i bilanci dello Stato, “soggetto a rischio” per gli agenti delle assicurazioni che lo valutano brutalmente come un’auto usata: quanti chilometri? che aspettativa di vita? E allora si sorprende ad amare svisceratamente il suo scampolo di esistenza.
In pubblico proclama che non ha paura di morire, ma quando si sveglia di notte avverte sensazioni inquietanti. I battiti del cuore rimbombano nel silenzio, quel ritmo così familiare, quand’è percepito nel polso, diventa angoscioso nelle immagini di un’ecografia che ora rivede nel buio: una forma che pulsa febbrile, quasi con affanno, e il microfono amplifica come una risacca il ritmato fluire del sangue: sessanta convulse contrazioni al minuto. Un impressionante spiraglio nel mistero della biologia. Chi ha progettato questo straordinario meccanismo che regola la vita? Nelle tenebre si accendono pallidi barlumi del Grande Enigma: le comunissime microonde del nostro forno o gli ultravioletti della lampada abbronzante sono le stesse misteriose forze che governano l’universo. Mi affascina il rapporto con Dio nell’allegoria immaginata da Albert Einstein. Un ragazzo si trova in un’immensa biblioteca tappezzata da libri scritti in molte lingue. Ha il sospetto che questa moltitudine di volumi siano disposti in un ordine logico, ma lui non sa quale. Con queste immagini – conclude Einstein – avverto la presenza di un potere superiore che si cela però nell’incomprensibile universo. Mi piacerebbe scoprire come la pensano su questo tema il mio giornalaio, il benzinaio, la postina. Ma come si fa ad aggredirli, hai paura di morire, esiste l’aldilà, hai un’idea di infinito? Una volta ho aggirato l’ostacolo con un mini-sondaggio sulla profezia dei Maya. Tutti ammettono che non sarebbe poi così assurdo: un’umanità come la nostra merita solo di sparire. E finire con tutto il mondo è meno triste che morire per conto proprio, non si vedono i parenti attorno al letto, non si ascolta oltre la finestra la vita che continua. Lo scenario più sofisticato di fine del mondo, me lo descrisse un liceale: "La luce si attenua lentamente come al cinema. Il cielo si illumina come lo schermo e si apre, rivelando cosa c’è ‘dietro’: e affiorano le immagini che ti facevano sorridere incredulo: il Signore con la barba, gli angeli con le trombe e tu stai volando come i violinisti di Chagall. Allora pensi: è un sogno, devo svegliarmi. E invece non ti svegli più". (Un finale da Oscar, non immaginavo per la fine del creato tanta creatività).
Ma adesso devo concludere e non posso esimermi da qualche confessione: quasi una TAC del mio ego. Il mio lavoro interferisce con la famiglia? Sì, ed è alienazione totale. Per esempio, mia moglie mi sta sottoponendo un problema di casa e io mi distraggo perché le sue parole mi suggeriscono la chiusa di un articolo. Sono sicuro di me? Da giovane no e adesso nemmeno: a costo di ricalcare un noto aforisma rispondo che se ho un po’ di sicurezza deriva dal sapermi insicuro, cioè insoddisfatto. Anche di questa risposta. Un'auto-definizione? Sono un egoista che soffre delle sofferenze che procura. Forse sono un ego-altruista. La mia gioventù in sintesi? Bombe, morte, fame, freddo. Però immense emozioni: la pace, le prime notti a luce accesa ballando il Boogie, la libertà, cioè andare in piazza a gridare "io sono contro". E una grande serenità dovuta al fatto che non esistevano smart, video, web, ovvero gli elementi che oggi trasformano tanti bulli in feroci criminali. Rimorsi? Sì: mi sono lasciato troppo consumare e assorbire dal mio lavoro: quando incontro degli amici – affermati professionisti, che si ritagliano il tempo per smestolare nelle mense dei barboni, guidare ambulanze, portare coperte ai clochard avvolti nei cartoni, regalare una passeggiata a qualcuno con il bastone bianco – mi sento in imbarazzo, come se avessi esaurito la mia solidarietà con qualche chiamata a Telethon. Peccato: riparerò nei miei secondi 90 anni.
Dei suoi secondi 90 anni ne ha vissuti altri cinque, e ritengo che sia stata una lunga vita ben spesa! Sono sempre stata una sua accanita lettrice, apprezzando il suo stile di scrittura, ma non ho mai osato trasmettergli il mio sentire. Lo faccio qui e ora, e se lui non mi può leggere, lo faranno i suoi estimatori.
Danila