Da bambina, ma non prima dei 6 o 7 anni, ho avuto in dono una
bambola che aveva il corpo di stoffa, riempito di segatura mentre viso, braccia
e gambe erano di gesso. I capelli parevano un nido di rondine marrone,
impossibile da pettinare. Era proprio bruttina, ma questa pupattola l’amavo
molto. Le avevo messo nome Renata e per anni, insieme a una mia amichetta e
compagna di scuola, con i ritagli di tessuto che ci regalavano le nostre
rispettive sarte, ci divertivamo a cucirle i vestitini. Ricordo che mi era
stato dato anche un pezzo di pelle da guanti, sottile e duttile, e con quella
le avevo fatto anche le scarpette.
Avrò avuto 12 o 13 anni, quando un giorno non la trovai più. Che me
ne facevo della scatola piena dei suoi vestitini fatti su misura e dei ritagli
di stoffa, se non possedevo più la modella che li indossava? Si, perché per me
era il gioco più bello, quello di confezionarle i vestitini di vari colori.
Renata era come fosse il manichino per le prove sartoriali.
Ho chiesto a papà dove fosse finita, e lui mi disse che mamma
l’aveva buttata via, perché vecchia e brutta. L’ho recuperata nella pattumiera
condominiale, in mezzo a scarti di cibarie, lurida. L’ho lavata e salvata, Ma
dopo un po’ di tempo, la segatura del suo corpo si perdeva in giro per casa, e
fui costretta a separarmi definitivamente da lei.
Durante gli anni della mia prima infanzia, avevo ricevuto in dono
due bambole Lenci, di straordinaria bellezza. Una aveva le gambe e le braccia
lunghe, come fosse un’adolescente. Gli occhi erano realizzati in vetro azzurro
intenso, quasi cobalto, e indossava un abito d’organza bianco, con ricamate
delle bordure a punto croce. L’altra era un tipo spagnolesco,
dall’incarnato abbronzato e dall'espressione imbronciata, pienotta, con due treccioni neri. Indossava un abito
arlecchino, proprio quello a losanghe di vari colori. Il fatto pietoso fu che io, essendo troppo piccola e inesperta, davo da
mangiare alle bambole, attraverso un buco fatto nella loro bocca, e così il
materiale con cui il loro corpo era imbottito marcì, e puzzavano da
schifo. Allora ho salvato gli abitini, e buttato le bambole, che se ora le
avessi, avrebbero un valore non indifferente. Anche l’abito arlecchino, col
tempo è stato rovinato dalle tarme, e gettato tra i rifiuti. Mentre dell’abito
di organza deve trovarsi ancora in uno dei bauli della casa di campagna di
mamma.
Poi ero la “mamma” di Stefano, un bambolotto di lattice, che aveva
l’incarnato proprio come quello di un bimbo vero, al quale mia madre sferruzzava
abitini di lana, come quelli che allora si facevano anche per i cuccioli
d’uomo. Poi c’era Alessandro, che invece era di celluloide, rigido
quindi, ma molto bello, perché sembrava proprio un neonato, forse come aspetto,
era l’antenato di Cicciobello. Anche per lui, mamma gli confezionava calzoncini
e magliette. Che fine abbiano fatto,
questo lo so, come tutti gli altri giochi (servizi di piattini e tazzine da
caffè in porcellana, pentoline di alluminio o rame e quant’altro). Ormai ero
cresciuta per pettinare le bambole, ma i miei giocattoli erano ancora quasi
nuovi. Sono così stati portati nella casa di campagna, in attesa di eventuali
figlie. Dentro le loro scatole originali o in scatoloni di cartone. E poi
riposti in un armadio.
Nonna Ina, la madre di mia madre, si prendeva cura della casa e del
giardino, nel periodo in cui noi eravamo a Milano, in modo che durante le
vacanze, la nostra casa fosse agibile. Con lei, c’era la mia cuginetta Dolores
e per farla stare tranquilla, le dava i miei giochi. Ovviamente senza aver
informato nessuno. Così quando in estate andavo nella casa di campagna per
trascorrere le vacanze, mancava sempre qualcosa: le bambole, qualche tazzina,
le pentole erano piene di bernoccoli, o schiacciate. Alla fine, per mia figlia
era rimasto ben poco e quel poco, piuttosto malconcio.
A parte la mia passione sartoriale infantile (che poi cucivo alla
bel e meglio, con punti lunghi e storti, e solo con ago e filo, perché la
macchina da cucire non ho mai imparato ad usarla anche se mamma la possedeva)
preferivo i giochi all’aria aperta, ai giardinetti, dove mi arrampicavo sugli
alberi come uno scoiattolo, e regolarmente tornavo a casa con il vestito
sbrindellato. Oppure mettevo i miei pattini a rotelle, ma non quelli belli che
hanno inventato poi, con la scarpetta annessa. I miei andavano agganciati alle
scarpe normali,
regolando con la
farfallina metallica la misura della lunghezza, e stringendoli con cinturini di
cuoio. Il rischio che di tanto in tanto, il pattino uscisse dalla scarpa, era quello di tombolare a terra, e sbucciarsi le ginocchia.
Mi piaceva molto leggere tanti libri di fiabe, durante i giorni invernali o
di maltempo.
Sono storie di bambole e di giochi di bambina, ancora vive nei miei
ricordi di un’infanzia serena e felice.
Danila Oppio
Felice di vedere che hai intrapreso la tua strada sul blog.
RispondiEliminaIl 16 maggio hai trattato a lungo di ‘Filosofia della Verità’, dunque sai.
Così ti auguro di riuscire a esprimere almeno la tua verità, senza cercare di ingannare prima di tutto te stessa.
Angela Fabbri
(Ferrara, 18 maggio 2015, ore 18:30)
Veramente non ho mai cercato di ingannare me stessa. in quel post cui fai riferimento, ho chiaramente espresso che il carattere ed i sentimenti umani mutano a seconda dello stato d'animo. E l'interlocutore potrebbe farsi un'idea errata di chi siamo e di come la pensiamo. Nel corso della vita, tanti eventi ci cambiano, da dentro e da fuori. Questo volevo evidenziare. I ricordi restano, quella bambina che giocava con le bambole non c'è più, ovviamente, ma resta il ricordo, e con quello, ogni tanto torna a galla qualche rigurgito d'infanzia.
RispondiEliminaDanila