Si sentiva comunque a disagio in abiti non acquistati
apposta per lei.
Ricorda come era intimidita dalla casa di Rossella.
Le stanze emanavano un odore dolciastro, un insieme di spezie orientali, cera e
profumo di donna, di certo quello della madre, una donnina minuta e raffinata.
Il mobilio antico, i tappeti persiani, i quadri che, allora solo intuiva, ma
che oggi sa con certezza esser stati d’autore affermato, tutto era così diverso
da casa sua, così lontano dalla realtà che le apparteneva, da creare in lei uno
strano malessere. Ondeggiava nell’irreale, quasi nel metafisico. Quello non era
e non sarebbe mai stato il suo mondo.
Giocattoli suoi non ne aveva mai avuti, quelli con
cui giocava, spesso erano creati da lei, in parte con le sue piccole mani,
nella stragrande maggioranza dei casi, dalla sua fertile fantasia di bimba
povera di cose ma ricca d’immaginazione.
Anche le bambole erano “adottate” come altri giocattoli
ripudiati da Rossella, ancora nuovi, e accolti amorevolmente da un’aspirante
mammina.
Mai avrebbe pensato allora, non ancora decenne, che
la camera dei suoi bimbi rigurgitassero di giochi d’ogni tipo.
Girando nella camera di Rossella, naso in aria,
osservava lo scrittoio antico, colmo di ninnoli rari, la libreria stipata di
volumi e volumetti e una raccolta di bamboline di varia provenienza, doni
portati dai viaggi del padre.
Quando mai avrebbe potuto possedere un simile tesoro?
L’appartamento dove abitava – una vera metafora definirlo così – erano 40 mq di
spazio suddiviso in camera matrimoniale, quella dei genitori, divisa a sua
volta da una tenda, oltre la quale c’era il suo lettino. Il mini appartamento
comprendeva un piccolo bagno e un altro locale che fungeva da cucina, tinello, zona
pranzo. Era la stanza nella quale giocava, studiava, leggeva, ballava e
ballando, sognava di essere una principessa, o Carla Fracci e ogni altro
personaggio che la sua fantasia le suggeriva.
L’appartamento di Rossella, due piani sopra il suo, occupava
300 mq. e comprendeva una quantità tale di stanze, da perdersi come percorrendo
un labirinto. Ricorda un salone di vaste proporzioni, corridoi, studi, camere,
bagni e un’enorme cucina con attigua una stanza che fungeva da dispensa.
La camera di Rossella, che nella sua memoria
ricordava grande, in proporzione al resto della casa, era piccola. Gli abitini
di Rossella, che poi divennero suoi, a quei tempi erano capi d’’abbigliamento di
gran lusso, realizzati in ottimo materiale. Le gonnelline scozzesi di lana
shetland (i kilt che andavano tanto di moda nella Milano bene) o i golfini di pura lana vergine, le camicette di popeline con ricami
e i vestitini con la pettorina lavorata a nido d’ape, in rilievo, tutti di
squisita fattura, oggi le appaiono banali.
Eppure, allora tutto questo benessere, chiamiamola
pure ricchezza, per lei era qualcosa d‘irraggiungibile.
Sapeva che non sarebbe mai potuta appartenere a quel
mondo, niente di tutto ciò che Rossella e la sua famiglia possedeva, forse
neppure rendendosi conto della situazione fortunata in cui vivevano, sarebbe
stato possibile per lei.
Rossella era “in” e lei “out”!
D’altro canto, veniva dalla campagna, passando dal
dialetto alla lingua italiana attraverso sorrisini di scherno. Frequentava le
elementari nella scuola più rinomata di Milano, una scuola d’élite, per bacino
d’utenza, non certo per scelta, poiché se si fosse trattato di scegliere,
sarebbe stata allontanata come un’appestata. Le sue compagne di classe
organizzavano festicciole di compleanno? Venti su trenta erano del giro, le
altre erano escluse dagli inviti, accomunate dalla sventura alquanto singolare
e bizzarra, d’esser nate povere.
Talvolta accadeva che qualche compagna, mossa da
pietà o da un falso senso di parità sociale, la invitasse a casa sua, e lei
accettava. Ma come sarebbe stato meglio non avesse accolto quegli inviti! Si
sentiva osservata come una bestia rara. I suoi abiti non erano adeguati, il
regalino che portava era di poco valore e riconosceva il sorriso di
compatimento, poiché dotata di un animo sensibile. Questo contribuiva a
renderla ancor più timida e vulnerabile di quanto già non fosse. Non si
divertiva mai, a quelle feste, stava seduta in un cantuccio e non assaggiava
nemmeno quanto esposto sul buffet, elegantemente imbandito.
La sua mamma le diceva: “stai attenta, sii educata, e
non fare brutte figure, non disturbare, ringrazia, ecc.”
Così lei, davanti ai vassoi di pasticcini offertole
dalla cameriera di turno, rispondeva: “Grazie, no”. E tornava a casa con
l’animo gonfio di tristezza e lo stomaco vuoto. Aveva sentito il profumo di
tante cose buone, adocchiato dolcetti e tramezzini mai gustati a casa sua. Ma
aveva detto: “Grazie, no”.
Poi crebbe un pochino, d’anni non di statura, e si
chiese: “Ma in questo mio mondo che è chiuso come una prigione, non c’è neppure
una porticina da cui evadere alla chetichella?”.
Forse esisteva, questa uscita, il problema era
trovare la strada: studiare, lavorare e con i soldi guadagnati, forse avrebbe cambiato
anche il tenore di vita.
Per esempio avrebbe potuto vestirsi in modo più
elegante, frequentare gente dalla quale apprendere cose nuove. Poteva imparare qualunque cosa, purché
diversa da quella vissuta fra le quattro mura domestiche.
Doveva farsi una cultura, oltre a quella limitata agli studi scolastici. E trovare l’uomo giusto che l’avrebbe accettata per quello che era, che l’aiutasse a salire la scala dei valori, quelli veri, che la spingesse a rompere quella barriera mentale che si era creata in lei. Vedeva, infatti, il mondo come fosse a compartimenti stagni: di qua i poveri, di là i ricchi. Di qua gli ignoranti, di là i colti. Di qua gli operai, di là gli impiegati. Di qua i borghesi, di là i nobili. Di qui e di là…divisioni indivisibili!
Doveva farsi una cultura, oltre a quella limitata agli studi scolastici. E trovare l’uomo giusto che l’avrebbe accettata per quello che era, che l’aiutasse a salire la scala dei valori, quelli veri, che la spingesse a rompere quella barriera mentale che si era creata in lei. Vedeva, infatti, il mondo come fosse a compartimenti stagni: di qua i poveri, di là i ricchi. Di qua gli ignoranti, di là i colti. Di qua gli operai, di là gli impiegati. Di qua i borghesi, di là i nobili. Di qui e di là…divisioni indivisibili!
Secondo lei, nulla poteva o doveva mescolarsi. E chi
era nato di qua, di qua doveva morire, nessuna via di scampo. Non riusciva a
immaginare che un nobile poteva anche essere povero, o che un impiegato avrebbe
potuto arricchirsi. Che un
ignorante si sarebbe istruito, e un ricco cadere in disgrazia.
Se solo avesse immaginato come girava davvero il
mondo, sarebbe stata meno insicura e senz’altro più saggia.
Lei si ricordava anche di quando viveva in campagna,
nata da famiglia contadina, in quel piccolo paese erano onorati e tenuti in
alta considerazione i notabili del luogo: il parroco, il medico, il farmacista
e, ovviamente, il Sindaco.
Non aveva alcuna importanza se il farmacista, padre
di numerosi figli, e con pochi clienti
perché le medicine erano un lusso poiché a quei tempi non esisteva “la mutua”, doveva tirare la cinghia anche sul
cibo. Lui era una persona di riguardo, mentre i suoi nonni solo dei “bifolchi”:
Peccato che nessuno abbia mai visto il nonno, uomo intelligente e di gran cuore – non si dice forse “contadino,
scarpe grosse, cervello fino?” -
andare di nascosto a casa del farmacista, portando con sé una cesta colma
di formaggi, farina di mais per polenta, ortaggi, un pollo spennato, uova, e
quant’altro si poteva raccogliere dai campi e dall’orto di casa, oltre che dal
pollaio! A casa sua, in campagna, nessuno è mai morto di fame! Eppure il contadino era considerato povero e il
farmacista ricco. Vorrei sapere chi si sia preso mai la briga di fare in conti
in tasca ad ognuno di loro!
Questo accadeva nel dopoguerra e durò fino agli anni
del boom economico. Poi arrivò il ’68 con la sua rivoluzione culturale, e quel
netto divario tra poveri e ricchi scomparve. Non
scomparvero la povertà e
neppure la ricchezza. Anche oggi, i poveri sono sempre più poveri a causa della
disoccupazione e delle tassazioni eccessive rispetto ai Paesi Nordeuropei. Il
costo della vita lievita giorno dopo l’altro e la borsa della spesa non si riempie
più di tante cose buone, come un tempo, ma si presenta sempre più vuota, poiché
anche il portafoglio si svuota in breve tempo. Molte piccole e medie aziende
chiudono i battenti, soffocate dalle multinazionali e pare di essere tornati
ancora ai tempi del dopoguerra, con un’enorme differenza: allora ci fu la
ricostruzione, che diede lavoro a tutti, adesso si smantella quel che era stato
costruito con tanto amore e dedizione. Cultura compresa.
La storia che ho raccontato è uno spaccato di vita
del tempo passato. I ricchi donavano ai poveri quello che a loro non serviva
più e i poveri ben volentieri gradivano quei doni, non potendo
acquistarli. Gli attuali poveri,
faticano ad accettare roba riciclata, e piuttosto nascondono, come possono, la
loro nuova situazione economica, rovesciatasi quasi all’improvviso, per aver
perso il posto di lavoro, e senza alcun aiuto da parte dello Stato. L’arrampicata
sociale è potuta accadere per merito della crescita economica degli anni ’60, e
chi era povero, grazie al lavoro, è diventato benestante ed ha potuto
cancellare parte di quel divario sociale che era ad appannaggio dei ricchi. La
cameriera, era trattata come una serva, non aveva neppure la giornata di libertà
e se era assunta dalle famiglie danarose, a tempo pieno, lavorava dalla mattina
presto fino a notte inoltrata. Certo le erano consentiti vitto e alloggio, ma
il lavoro era tiranno. Però almeno c’era! Poi con l’arrivo dei sindacati in
difesa dei lavoratori, molte cose sono cambiate in meglio. Le dattilografe
lavoravano dieci ore al giorno, spesso anche di sabato. C’era molto da cambiare
e questo avvenne. E i signori con la puzza sotto il naso, hanno capito che dovevano
abbassare la cresta, avendo già tanto ottenuto dalla vita, che almeno non la
facessero pesare su quelli meno fortunati di loro.
Oggi i ricchi sono chiusi nel loro bunker, dove
cercano di ammassare più denaro possibile, a volte speculando, riciclando denaro
sporco, abusando del loro potere per schiacciare le piccole aziende, evadendo
le tasse accendendo conti correnti all’estero. Che li accendessero con un
cerino così da dar loro fuoco! E i poveri? Quelli ci sono sempre stati e sempre
esiteranno. Mi spiegate come fa chi è ricco, a sapere di esserlo, se non vi
sono i poveri a fungere da cartina di tornasole? Non sapremo mai che la neve è bianca, se non avessimo il
carbone che ci dimostra che è nero!
E a tal proposito, sono incazzata nera, al pensiero
di come potrebbe essere diverso il mondo, se la ricchezza fosse distribuita con
maggior equità, quanta meno gente morirebbe di fame!
Già, perché non costa nulla donare un vestito smesso
a chi non può comprarselo, ma costa molto creare nuove occasioni di lavoro,
così che con uno stipendio, chi non ha mai mangiato pane possa finalmente
gustarne il sapore.
Danila Oppio
Un bello sfogo, Dani, non c'è che dire.
RispondiEliminaI ricchi, riciclatori, evasori.
I poveri non si sa, ma probabilmente dediti a pagare le tasse e di conseguenza a non avere denaro da riciclare.
Chissà di quali ricchi parli tu, perchè quelli davvero ricchi non hanno bisogno di evadere, nè di riciclare.
Dei poveri senza istruzione e senza voce in capitolo si è persa traccia, visto che parli di sindacati.
E dunque?
Non è che forse, col tempo, fra queste 2 classi se ne è inserita una terza, una quarta
e ancora altre? E io e te apparteniamo a una di queste ultime?
Faccio domande, non dò risposte.
Angie
I ricchi, Angie, se non lo sono da generazioni, si sono arricchiti sulle spalle degli altri. Non leggi degli scandali proprio tra i politici? Non faccio nomi, ma sono indagati per evasione fiscale, mazzette, conti all'estero, anche quegli uomini di governo che dovrebbero essere i primi a dare il buon esempio. Quindi penso che chi sceglie di far politica, lo faccia per arricchirsi, e poiché di norma non dovrebbero avere altri introiti che il loro appannaggio, trovano il modo di far soldi e subito attraverso manovre non proprio legali. I ricchi veri, quelli che hanno fatto i soldi attraverso le loro imprese, hanno sempre trovato il modo di pagare meno tasse possibili e portare soldi all'estero, per non essere ulteriormente tassati. E sono stati ricchi, in passato, perché pagavano poco i loro dipendenti, sfruttandoli tanto. I ricchi onesti ci saranno ancora, ma se sono onesti e generosi, non si tratterà mai di una ricchezza esagerata, allora possiamo definirli piuttosto benestanti. Si certo, a quelle classi se ne sono inserite altre, infatti, come ho scritto, c'è stato un certo livellamento economico, con meno muri divisori. Ma tra le due estremità sociali, c'è un divario ancora maggiore, così credo. I ricchi sono ancora più ricchi, e i poveri sono aumentati di numero, diventando ancora più poveri di quelli di un tempo. Ovvero, se nel periodo in cui ho esordito con questo racconto, si consideravano poveri quei lavoratori che espletavano lavori umili (lo spazzino, il manovale, la donna di servizio....) ora i poveri sono proprio quelli che magari avevano un'occupazione di un certo livello, e che non hanno più lavoro a causa di licenziamenti dovuti alla chiusura delle aziende per le quali prestavano la loro opera. Ed io trovo che ci sia una differenza sostanziale, tra le due povertà. Non sto parlando dei poveri del terzo mondo, perché temo che anche l'Italia si stia avviando verso quella china. Pessimista dici? No, semplicemente realista.
RispondiEliminaDani
Ho saltato l'ultima domanda: io e te apparteniamo a queste ultime? Credo di no, chi ha la fortuna (per quanto ancora?) di ricevere la pensione, grazie al lavoro di una vita, e quindi un diritto acquisito e non una regalia! o di avere uno stipendio che copra almeno le primarie necessità, non appartiene all'ultima categoria. Si può ancora ritenere fortunato. Chi possiede una casa di proprietà, ed ha un reddito mensile fisso (che sia stipendio o pensione) su cui contare, penso che non si debba lamentare. Chi ha la possibilità di pagare l'affitto di un'abitazione e far fronte alle spese senza indebitarsi, non può lamentarsi. Non deve! Per rispetto di coloro che hanno perso il lavoro ad un'età in cui non hanno ancora raggiunto l'età pensionabile, che hanno figli che debbono ultimare gli studi, e non riescono più a pagare le utenze, o il mutuo o l'affitto di casa e per quanto cerchino, non trovano altri posti di lavoro, o debbono adeguarsi a lavori mal retribuiti, non in regola magari. Beh, quelli sono davvero poveri e non solo per mancanza di mezzi economici. Chi è nato povero, forse non si rende conto di quel che non ha, ma chi ha avuto una vita serena, e di colpo precipita nelle difficoltà, sente in modo maggiore il senso di povertà, che è anche umiliazione, dolore, impotenza di fronte a coloro che hanno deciso al posto suo. E se queste cose accadono, è perché siamo mal governati. Per concludere...noi possiamo reputarci ricche! Davvero sai? Non sono i pingui conti correnti, o i palazzi e le ville, a rendere ricco l'essere umano. E' la serenità, quella che fa dire che la vita è bella!
RispondiEliminaDani
Non so, la vita è bella se si può farne qualcosa.
RispondiEliminaAngie
Sono d'accordo con te! Ma per chi non ha modo di viverla decorosamente, intendo dire che non ha reddito sufficiente per le primarie necessità, ha dei seri motivi per non reputare bella la sua esistenza!
EliminaA proposito, Dani, è un pezzo che volevo chiederlo: sei tu la bimbina con il gonnellino scozzese? Ti assomiglia molto. La bimbina, non il gonnellino.
RispondiEliminaAngie
No, non ero così bella e neppure bionda (i miei capelli, da piccola, erano castano chiaro). Ho solo cercato sul web un'immagine che ricordasse quei kilt che indossavo. E penso di assomigliare di più al gonnellino che a quella bimba dal dolce musino! Ai miei le foto a colori ancora non esistevano, e quelle poche che possiedo, non sono neppure ben riuscite.Era Rossella ad assomigliare a questa bimba.
RispondiEliminaDani
Errata corrige: ai miei tempi!
RispondiElimina