POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

lunedì, gennaio 31

Just Like a Woman Pontifex cui segue il testo della poesia di Samina Zargar


Samina Zargar si è ispirata alla canzone di Bob Dylan e al remake di Acquaraggia che potrete ascoltare qui.
Just like a woman ( Bob Dylan ). The original song is on the 1966 album Blonde on Blonde. This remake on the Acquaraggia Album "Pontifex, Dylan on the Great Wall".
Ed ora passiamo all testo della poesia di Samina ispirata alla canzone di Dylan.
LE CAMPANELLE

E si riuniscono gli artisti
in onore della spietata libertà.
E si riuniscono gli artisti
per i vicoli più intrepidi
della notte scura
per le onde più alte
dei lontani abissi del tempo
per le ripide vette di montagna
cancellate dalla neve bianca...

E si riuniscono oggi
nel tempo di ogni tempo
nel boato dell'essere assordante
che viene alla luce
i curiosi cantanti,
gli avventurosi musicisti,
i brillanti poeti,
i semplici attori
per narrare tutti insieme le storie
le gesta degli antenati
che prendono vita a uno a uno...
E si muovono gli scheletri scricchiolanti
in ogni direzione
nell'aria umida nebbia
appannata ricordi.
E ancora si aprono le gabbie
d'inferno ardente oppressione,
si alleggeriscono
come piume di aquile reali
le catene dei prigionieri,
e non brucia più
il fuoco di chi è al rogo,
e il più debole che diventa il più forte
e il deriso che ride con ghigno.

Campane della libertà.

Ecco le campane della libertà
che suonano e suonano
e suonano ancora vibrando,
lampeggiano rumori beati nel cielo.

Ed eccoci qui tutti
in onore della libertà
il momento di tregua
per ogni spirito
il momento di pace
per ogni corpo...
E alza la testa
con timido sorriso
il guerriero la cui forza
è non combattere,
Si riprende la dignità
il miserabile,
Sorride alla vita lo sfortunato,
Riprende più forte la speranza
del malato le cui ferite
non possono essere lenite...
E suonano
suonano ancora
sempre più forti
le campane della libertà
mentre
tutti noi artisti
rimbombiamo con la nostra arte
il loro suono
affinché si rievochino
le note
nel tempo
senza smettere mai.

Mai più silenzio.

Samina Zargar

Chimes of Freedom!!!

PICCOLI ESERCIZI DI CONSAPEVOLEZZA di Zarina Zargar e Chiara Massobrio - co-autore e supervisor Antonino La Tona


 Piccoli esercizi di consapevolezza

Autori: Zarina Zargar & Chiara Massobrio

Co-autore e Supervisor: Antonino La Tona

Caro lettore, ti pongo adesso alcune domande a cui dovrai rispondere con attenzione.

In che posizione si trovano le tue gambe in questo momento? Sono incrociate? Distese? Flesse? E la tua schiena è dritta? Inarcata? È appoggiata a qualcosa?

Ora: è stato difficile rispondere a queste domande? Prova a riflettere: dov’era la tua attenzione fino ad un momento fa? E dov’è adesso? Chi effettivamente, l’attimo prima di leggere queste righe, era consapevole dello stato del proprio corpo o di una parte di esso?

L’attività mentale, se ci facciamo caso, non parla mai al presente, ma dialoga sempre nel passato e nel futuro. Per moltissime persone, infatti, risulta davvero difficile godersi il dettaglio, il momento o la giornata che sta vivendo. Basta pensare a quante cose avvengono nel mondo e in noi stessi ogni giorno.

La maggior parte di queste vengono cancellate dall’esistenza perché non gli viene prestata attenzione. Tutti i giorni, per la maggior parte del tempo, viviamo in uno stato di inconsapevolezza e questo in una certa misura è adattivo: permette di fare un’infinità di cose automaticamente e di risparmiare risorse attentive da spendere in altri compiti, più o meno complessi.

Sicuramente anche ora sta succedendo: mentre i vostri occhi scorrono queste parole e il cervello decodifica le immagini posate sulla retina oltre ad analizzare il significato di ogni singola parola all’interno di questo contesto il vostro sterno si alza e abbassa, la vostra lingua deglutisce la saliva, il vostro dito scorre in automatico verso il basso sullo schermo.

Se facessimo caso ad ognuno di questi avvenimenti e a molti altri non saremmo più in grado di svolgerli tutti contemporaneamente. Spesso, però, questo meccanismo interno in grado di farci tralasciare le informazioni meno importanti diventa esageratamente generalizzato e noi, assorbiti dal mondo esterno o dalla nostra mente sempre troppo impegnata ad arrovellarsi su qualcosa, finiamo per perderci, e allontanarci da noi e dalla vita.

Esistono, fortunatamente, delle metodologie in grado di guidare ognuno di noi nell’esplorazione del modo che ha di vivere il momento presente e, più in generale, la vita. Le pratiche mindfulness-based, che letteralmente con il termine stesso si riferiscono alla capacità di essere pienamente presenti a se stessi, mirano ad allenare la capacità di stare nel presente in modo rilassato, ma allo stesso tempo vigile: perfettamente coscienti di ciò che sta avvenendo.

Per tornare alle vostre gambe: chi ce le aveva poste in quella posizione? Voi, ovviamente… Ma chi di voi l’ha fatto rimanendo presente a ciò che stava facendo?

Quello che avete compiuto prima focalizzando la vostra attenzione sulla posizione di diverse parti del vostro corpo è un piccolo esercizio di consapevolezza: la vostra attenzione, a partire dalle parole lette, si è spostata per qualche secondo alle vostre gambe e subito dopo alla vostra schiena per capire in che condizioni si trovassero. Questo fa parte della pratica della consapevolezza, detta appunto in inglese mindfulness, e si inizia con poco.

Il termine mindfulness, come già accennato, indica un preciso stato mentale che ha a che fare con qualità dell’attenzione e della coscienza che possono essere coltivate e sviluppate attraverso la meditazione (Segal et al. 2014).

Oggi il termine viene anche genericamente utilizzato per indicare un insieme di pratiche, talvolta organizzate in protocolli clinici, che si basano sull’ascolto del corpo, sulla respirazione e sulla presenza non giudicante di quello che accade nel momento presente.

La teoria sembra semplice, ma la pratica non lo è: ci vogliono disciplina, costanza e allenamento. Se, però, riuscirete a vincere le resistenze iniziali e le frustrazioni vi sorprenderete di quanto con l’esercizio si possa migliorare.

Di come si possa essere sempre più bravi a non lasciarsi trascinare dai pensieri, di come l’immaginazione possa diventare sempre più fervida e di quanto la sensibilità possa affinarsi fino a permettere di distinguere con precisione le sensazioni che arrivano dalle varie parti del corpo o dalle loro attività.

Da un punto di vista neuroscientifico l’attività meditativa mindfulness è associata a significative modificazioni delle onde cerebrali in favore delle frequenze Alpha e theta, le quali possono indicare uno stato di vigile rilassamento sia in soggetti sani che in soggetti affetti da diverse tipologie di disagio psicologico curato sia ambulatorialmente sia presso cliniche dedicate (Lomas et al., 2015).

Non a caso, una delle più influenti teoriche e psicoterapeute di successo degli ultimi decenni, la nota Marsha Linehan, ha focalizzato parte considerevole del proprio protocollo clinico denominato Dialectical behavior therapy sulla pratica della mindfulness.

La Linehan, che si é prevalentemente dedicata al trattamento del disturbo borderline di personalità caratterizzato da un elevato livello di impulsività e spesso da una scarsa capacità di restare in contatto con le proprie emozioni senza esserne travolti, ha dimostrato che gli esercizi di consapevolezza e accettazione risultano fondamentali per una corretta gestione dei propri stati emozionali e una corretta interpretazione della realtà (Linehan M., 2014).

Numerosi altri trattamenti, comunque, includono allenamenti basati sulla mindfulness come la Mindfulness-Based Cognitive Therapy per la riduzione delle ricadute depressive o la Acceptance and commitment therapy che aiuta il paziente a essere più elastico psicologicamente e quindi più resiliente.

Non é solamente la conoscenza di sé stessi a migliorare, seguita a ruota da una migliorata capacità di gestione del quotidiano. La ricerca scientifica sempre più ricca, infatti, dimostra anche che questo tipo di attività è in grado di attivare la corteccia prefrontale e la corteccia cingolata anteriore ed una pratica costante può nel lungo termine potenziare le aree associate alle funzioni attentive (Chiesa e Serretti, 2009).

Spesso, in un mondo frenetico e folto di impegni e necessità arriviamo al punto di perdere il contatto con il nucleo più profondo di noi stessi: chi siamo, cosa vogliamo e soprattutto cosa proviamo. Per questa ragione é importante darsi un momento per riprendere fiato, scollegarsi da tutto ciò che circonda e concedersi un momento privato ricco di benefici. La pratica costante della mindfulness può aiutare in questo: gradualmente contribuisce a potenziare le nostre capacità mentali di resistenza allo stress e allinearle al nostro corpo per incrementare, anche in breve tempo, la nostra salute fisica e mentale.

Un punto fondamentale, nella meditazione, è il respiro. Esistono diversi tipi di respirazione, ma per la mindfulness la cosa più importante è l’atto stesso della respirazione. Ecco qui un altro piccolo esercizio di consapevolezza. Vi accorgete che state respirando? E solitamente? La risposta è chiaramente “no”, eppure lo fate sempre: tutti i giorni dalla nascita, 24 ore su 24. É impossibile e non necessario essere costantemente focalizzati sui piccoli e grandi cambiamenti che avvengono ogni secondo nel nostro corpo.

Un piccolo esercizio per iniziare a praticare e avvicinarsi alle tecniche meditative, però, può essere quello di portare l’attenzione al respiro per qualche minuto al giorno, più volte al giorno, senza modificarlo. Da solo questo “semplice” esercizio, ripetuto quotidianamente, può rendere meno difficoltoso e più abituale essere consapevoli di sé e migliorare conseguentemente l’atteggiamento alla vita.

Nella continua corsa quotidiana che mira sempre più spesso a un obiettivo materiale (economico, di successo lavorativo, di ascesa sociale, ecc.), i momenti di pratica possono diventare dei veri e propri “ritorni a casa”. Non esiste la bacchetta magica, ma con un po’ di impegno si possono ottenere degli ottimi risultati. Si tratta soltanto di avere la curiosità di riscoprire il proprio corpo e l’esperienza delle cose più semplici, da sempre portatrici di valore autentico e troppo spesso dimenticate.

BIBLIOGRAFIA

Chiesa A., Serretti A. (2009). A systematic review of neurobiological and clinical features of mindfulness meditations. Psychological Medicine, volume 40.

Segal Z. V., Williams J. M. G., Teasdale J. D. (2014) Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero.

Bollati Boringhieri. Lomas T., Ivtzan I., Fuab C. H. T., (2015). A systematic review of the neurophysiology of mindfulness on EEG oscillations. Neuroscience & Biobehavioral Reviews, volume 57, pages 401-410.

Linehan M. (2014). DBT? Skills Training Manual, Second Edition. Guilford Publications

 



domenica, gennaio 30

COULIBALY OSSIA L'AFRICA CHE CAMMINA di P. MAURO ARMANINO

Coulibaly ossia l’Africa che cammina

Torna da sua madre dopo sette anni con quattro valigie e due borse altrettanto pesanti. Coulibaly, dopo aver rubato i soldi del viaggio alla mamma era partito, con una dozzina d’amici, per diventare un campione di calcio in Tunisia. Aveva giusto 13 anni quando gli avevano presentato una coppia di adulti che, dietro compensazione, potevano dargli un futuro come calciatore in Nord Africa. Sul retro di un Toyota ‘pick-up’ si ritrova, senza saperlo, con i compagni di gioco nella città di Sebha, in Libia. Scorrono un paio di mesi attorno a casa, giocando a pallone e attendendo istruzioni per la tappa seguente. Arrivati a Tripoli gli amici scoprono di trovarsi in Libia e si accorgono della scomparsa della coppia, dileguatasi coi soldi e le speranze. Imprigionati in una casa della città, dopo qualche tempo riescono a fuggire ognuno per conto suo. Coulibaly trova lavoro in un ristorante per migranti come lavapiatti presso alcuni nigerini di lingua hausa. Non ha nessun desiderio di tentare di attraversare il mare e, aiutato da un ‘passeur’ egiziano a cui ha versato 130 euro, raggiunge l’Algeria. Dopo qualche peripezia raggiunge la periferia della capitale dove lavora per un paio d’anni come manovale. Decide infine di cercare lavoro ad Algeri e impara il mestiere di imbianchino.

Coulibaly rimane in Algeria dal 2016 fino all’anno in corso. Stanco di nascondersi alla vista dei poliziotti e militari che deportano i migranti, è il pensiero d’aver tradito la fiducia di sua madre Aicha, che lo spinge a prendere la decisione di tornare a casa. Tramite un amico incontra un’associazione umanitaria che aiuta i migranti a fare la strada di ritorno. Sul cammino di Tamanrasset è fermato e derubato da alcuni militari algerini di quanto aveva messo da parte per rimborsare quanto sottratto a suo tempo alla madre. Gli hanno portato via i suoi 300 euro e la somma che l’associazione aveva offerto per il viaggio. Arrivato a Tamanraset trova alcuni nigerini coi quali può conversare nella stessa lingua imparata a Tripoli e passare per un originario del loro stesso Paese. Lo portano con loro fino alla città di Tahoua al nord del Niger. Coulibaly, per continuare il viaggio fino a Niamey, si trova costretto a vendere alcune preziose paia di scarpe che aveva comprate in Algeria e messe da parte per la madre e la sorella maggiore. Ottiene i soldi sufficienti per pagarsi il biglietto fino alla capitale del Paese e chiede aiuto per continuare il viaggio a ritroso fino ad Abidjan, la capitale economica della Costa d’Avorio. L’aveva abbandonata da sette anni, ancora bambino.

Le frontiere da attraversare per raggiungere il suo Paese sono chiuse a causa del recente colpo di stato nel vicino Burkina Faso. Dovrà pagare un triciclo che trasporti i suoi bagagli, nei quali ha intasato scarpe, vestiti e sette anni della sua vita, da una parte all’altra della frontiera. Dice di aver portato tutte queste mercanzie per farsi perdonare da sua madre che l’aspetta, con la coscienza di averle procurato angosce e sofferenze per la sua nascosta partenza. Coulibaly, partito a tredici anni torna più che ventenne a casa e dice di non rimpiangere nulla del vissuto, a parte il furto iniziale. Sa leggere ma non scrivere e dice che, dopo un tempo di riposo, cercherà lavoro come imbianchino e andrà a scuola per imparare a scrivere la sua storia. Afferma di essere contento perché ancora vivo dopo quanto vissuto. Una metà delle sue borse contengono scarpe per ogni misura e occasione. Giura che le ha portate per andare lontano.


     Mauro Armanino, Niamey, 30 gennaio 2022


sabato, gennaio 29

IN UNA BIBLIOTECA CHE NON CONOSCO...del Prof. GIULIO MARRA


Giulio Marra, professore ordinario di Lingua e Letteratura Inglese all'Università Ca' Foscari di Venezia dal 1981 al 2010. Dal 1987 al 1994, e dal 2002 al 2008 è stato direttore del Dipartimento di Studi Europei e Post-coloniali.

Nel 1995 fonda e dirige la rivista letteraria Il Tolomeo che pubblica inediti, interviste, recensioni di ciò che viene pubblicato e tradotto in Italia nel settore anglofono e francofono (Africa, Canada, Australia, India, Caraibi, Nuova Zelanda, Irlanda, Scozia).

Nel 1999 in collaborazione con le università di Bologna, Lecce, Macerata, Milano, Padova, Pisa, Roma, Siena, Torino, Trento, Udine, Venezia, Vercelli contribuisce a fondare l'AISLI, (Associazione Italiana per lo Studio delle Letterature in inglese), della quale ricopre l'incarico di Presidente dal 2001 al 2006. AISLI è divenuta nel 2010 l'AISCLI (Associazione Italiana di Studi sulle Culture e Letterature di lingua inglese). 

Da molti anni è promotore di messe in scena di opere teatrali contemporanee (scelta dei testi e traduzioni inedite) presso il Teatro Goldoni di Venezia, il Teatro Universitario Giovanni Poli ed altri teatri. Fra le opere vanno ricordate: Baby Blues, Il caso Farhadi, Una linea nella sabbia, Joe Beef, Whylah Falls, Il villaggio degli idioti, Jessica, Office Hours.

§§§§§

È la storia di un incontro tra un sopravvissuto e un bambino morto nel disastro del Vajont. Il sopravvissuto ha vissuto una vita sportiva ma sempre segnata dal tragico episodio. Vita sportiva e ricordo si mescolano costantemente. Il bambino non può rispondere alle domande o ai racconti del sopravvissuto, in realtà il fratello maggiore. 

Chi scrive ascolta il loro dialogo e si limita a fornire la struttura del loro incontro. L’immagine scelta è quella di un libro intonso, chiuso dal fango, trovato tra le macerie, che non riesce ad essere aperto in un dialogo tra i due protagonisti: in altri termini la prima e l’ultima copertina, tra l’inizio di una vita e la fine di una vita, che i due fratelli avrebbero potuto vivere e condividere. Immagino che il sopravvissuto abbia trovato un libro prezioso sul luogo della scomparsa biblioteca, come nella storia del villaggio di Guaca raccontata alla fine. 

Le citazioni hanno la funzione di creare e di restituire il senso e il valore della comunità. La voce narrante si mescola a quella del sopravvissuto.

A memoria

Vorrei lasciare 

mura piene di felicità

Di voci, di canti

D’assordanti cantilene

E di lacrime, che si srotolano 

Come disegni di un arazzo 

di gigli e rose

E di risa come ali d’uccelli

Alle finestre del cielo, 

Mura che parlano con altra voce

Che ridono con altre risa,

Mura desolate e solitarie

disegni della memoria

Esse ora sono,

Vorrei che non si sentisse

Che il tempo è passato

lasciando il segno

Indelebile 

Dell’addio,

Vorrei che l’oblio non fosse

Una dimensione della mente,

Vorrei che l’uomo e le sue arti

Servissero all’eternità,

Come giocolieri in un circo

lanciano aste e cerchi

Senza mai cadere,

Così cadono i sogni 

in ragnatele, sospese

fra terra e aria,

Vorrei che non si dimenticassero le parole

dette tra queste mura

Canti e preghiere, fruscii di sillabe

Storie che forgiano il cuore,

Folate di vento tra rami d’autunno 

Solo queste io sento 

Andare e venire,

Mentre i quieti sogni d’aracne

Incorniciano gli angoli

Di mondi circolari,

nelle luci spente del tramonto

usciremo in punta di piedi

con parole già spese

e nessuno saprà che siamo vissuti qua

tutti, senza la pena

di rincorrere la felicità,

che la vita vi è passata fata morgana

d’ombre e luci, ormai

per magia le foglie rinsecchite corrono 

come un tempo alle porte e alle finestre

per chiedere armistizi 

all’effimero, 

oasi di verde e fiamme,

nessuno risponde all’appello

ma le mura,

Ritte e ferme come inconcussi

Testimoni agitano nel silenzio

Ombre del tempo che fu.

IN UNA BIBLIOTECA CHE NON CONOSCO

“Mi senti? Mi senti? Mi sei vicino?”. Mi guardai intorno, cercando la provenienza di quel flebile sussurro. “Vicino?” mormorai tra me e me. Pensai che un bambino mi stesse chiamando, di nascosto. Succedeva così ogni volta che mi avvicinavo a quell’angolo di casa. “Ehi, tu… mi senti?” e ogni volta avevo un sobbalzo. “Mi senti?”. Feci attenzione. La flebile voce sembrava provenire da un libro azzurrognolo, del tutto intonso, rimasto tra le macerie della mia piccola biblioteca. Lo vidi. Lo raccolsi. Lo tenni tra le mani. Ma chi era quella voce, che ogni giorno mi aveva cercato? Eh, si, perché ogni volta che sentivo quella voce succedeva qualcosa dentro di me. Potenza della voce. L’anima reagisce ai luoghi dove passa, a un luogo che non ho mai dimenticato, a un luogo dal quale mi chiedo perché mi sono discostato, a un luogo che ho perso e sentito per tanto tempo lontano. Percorriamolo dunque quel luogo. Dall’inizio alla fine. Sulle ali ambrate della nostalgia, di una lenta nostalgia, di nessun colore e di tutti i colori, di nessun mezzo e di tutti i mezzi, di nessun ordine e di tutti gli ordini. Ci avvicineremo con passo incerto?

 Faremo come Astolfo che cerca

Il senno di Orlando sulla Luna?

mercoledì, gennaio 26

IN MEMORIA DI AURELIA GREGORI 82120 AUSCHWITZ di Giulio Marra

Da Aurelia ad Aurelia. Da una madre alla sua neonata 

In memoria di Aurelia Gregori 82120 Auschwitz



Testo del prof. Giulio Marra

1 -

Una storia fatta di tante storie, una storia di tanti giorni, miei, tuoi, di chiunque abbia camminato in questo mondo. Mi colpì un’idea che farfugliava nel profondo mare, al quale stavo dinanzi, e venne a galla, piano piano, in silenzio. Una storia? No, non una storia. Una trama in cui intrappolare qualche essere umano? No. E cosa rimane? Attimi, pensieri. Luoghi, sentimenti. Soprattutto un’idea, un’idea come eri tu. Eri ancora idea, un seme che deve prendere forma e ha in sé ogni forma. Costretta nel tempo e nello spazio lungo un filo spinato, sceglievo di non guardare mai le betulle che sporgevano oltre le mura, la mia e la tua anima non avrebbero potuto reggere, pensavo. Pensai di parlarti come parlai bambina, un giorno, al mio aquilone. Come se l’aquilone adesso fossi tu. Hai bisogno anche tu della mia mano? E io di sentirmi viva. “Dove andare?” mi chiese l’aquilone, frustato dal vento, e io gli risposi come ce l’avessi ancora in mano la corda che lo teneva legato:

Perché non t’innalzi

Da solo nell’aria

Senza l’aiuto delle mie mani?

Sei un’illusione lassù

immobile nel vento

Che mi passa davanti agli occhi?

L’ombra di una nuvola?

Il coreografo delle aeree correnti

In un concerto di nubi?

Non parlarmi

non sorridermi

non rispondermi

per dirmi cosa

dovrei fare

tu hai bisogno della mia mano, 

affidi la libertà, illusione?, a uno spago

per mantenerti in volo e così, mai

scendere a toccare terra e acqua

sostanze ora pesanti sul mio cuore…

Ma poi vidi una bambina

Che scalciava nell’aria

Un’immagine riflessa

Di tempo addietro

Che rideva e correva

Nell’erba ventilata e spariva

In uno specchio evanescente.  

LETTERA DA UN PADRE AI FIGLI di RENATA RUSCA ZARGAR


Torino, 16 luglio 2021

Cari Carlo e Giuditta,
ho deciso di scrivervi questa lettera per parlare di alcune cose che mi sono successe ma, forse, anche per metterle bene in chiaro a me stesso.
Come sapete, qualche settimana fa, io e vostra madre abbiamo deciso di fare finalmente un viaggio tanto a lungo programmato e atteso: andare a visitare Venezia. L’obiettivo principale, però, per vostra madre, era di recarsi alla Basilica di Sant’Antonio di Padova, al cui santo, in famiglia, tutti voi siete particolarmente devoti.  
Così, dopo alcune ore di automobile, trascorse chiacchierando piacevolmente, siamo giunti a Padova e ci siamo diretti subito alla Basilica.
Là dentro, nella pace e nella frescura del luogo, tanta gente - venuta da tutta Italia, mi hanno detto, ma anche dall’estero, Germania, Francia, ecc. - usava appoggiare le mani a un marmo nero con la scritta “Corpus S. Antoniis” e pregare intensamente. Qualcuno piangeva addirittura!  
Intorno erano esposti i quadretti votivi, i cuori con le medaglie d’oro, le foto di incidenti con macchine sfasciate…
Non essendo impegnato a pregare, mi sono attardato a leggere qualche ringraziamento: una mamma che era riuscita ad avere un bimbo sano nonostante facesse la chemioterapia, qualcuno che, finalmente, aveva trovato lavoro, chi si era salvato dal terremoto del Molise, chi aveva recuperato il sonno dopo anni di insonnia… Insomma, innumerevoli testimonianze di fede e di gratitudine. Ma una in particolare mi ha stupito, e ancora non riesco a togliermela dalla mente: la foto di un giovane sulla trentina sopravvissuto a un incidente che aveva ridotto l’auto in poltiglia. Ed era rimasto illeso!
Tutti quei ricordi (o forse era l’atmosfera) mi lasciavano perplesso. “Casualità.” mi dicevo. Ma ognuno di essi trasudava del dolore dell’uomo che si appoggia alla speranza, che crede, supplica e ringrazia.  
Anche vostra madre pregava come gli altri, con lo sguardo lontano da me - riflettevo - forse, dal resto del mondo.
Dopo tanti anni, finalmente, l’avevo accompagnata a visitare quella chiesa, a compiere quella gita rimandata ogni volta perché c’era qualcosa di più urgente da fare: prima voi eravate piccoli, poi io ho avuto dei problemi con il lavoro, infine mia madre non stava bene…  Anche quei pochi viaggi che abbiamo fatto erano sempre motivati da esigenze di lavoro oppure dal cambiare aria, andare in montagna o al mare, quando voi non eravate stati bene durante l’inverno, come quella volta della pertosse, ad esempio, che non smettevate più di tossire! Insomma, il sospirato momento del Santo non veniva mai! Ma vostra madre Andreina è sempre stata fervente cattolica come, del resto, la nonna, la zia e tanti altri parenti della sua famiglia. E, in particolare, sono fedeli di Sant’Antonio, tant’è vero che, nel nostro giardino, c’è una piccola statua del santo davanti alla quale ella tiene sempre piantine fiorite di stagione: ciclamini, ortensie, margherite, crisantemi, primule...
Io, invece, fin da piccolo, sono stato rigorosamente educato all’ateismo: “La religione è l’oppio dei popoli” mi ripeteva sempre mio padre, senza mai dimenticare di rammentarmi tutte le occasioni in cui la Chiesa non aveva saputo aiutare chi avesse di meno. Poi, mi sono impegnato nella politica, ho costruito la mia vita, seguito i miei ideali…
Infine, ho incontrato Andreina e abbiamo deciso di sposarci.
Ebbene, Andreina era là, inginocchiata davanti alla tomba del santo: dai suoi occhi uscivano delle lacrime e io mi guardavo intorno un po’ smarrito.
Già, allora non ci eravamo sposati in Chiesa perché io proprio non ce la facevo. Non credevo in Dio, era inutile insistere, sarebbe stato un tradimento dei miei principi e, nonostante le pressioni di tutta la sua famiglia, la madre, il padre, le zie, le cugine, ella aveva accettato di sposarmi in Comune.
Quanto tempo è passato! Il nostro è stato un buon matrimonio, abbiamo condiviso tutto quanto è arrivato, il bello e il brutto, abbiamo lavorato insieme per il vostro futuro, per la casa che sognavamo, abbiamo assistito i parenti anziani miei e suoi…
Ora voi siete adulti, tu, Carlo, lavori e tu, Giuditta, frequenti la facoltà di medicina all’università: siete bravi ragazzi, non ci avete dato mai motivo di preoccupazioni gravi a parte, naturalmente, le tonsille, il morbillo, ecc.
E allora, mi chiedevo in quel momento, perché Andreina stava là inginocchiata a piangere?
Comunque, infine, siamo usciti dalla chiesa, abbiamo girato un po’ per Padova (proprio una bella città!) e quindi siamo ripartiti.
L’auto correva sull’autostrada: ormai Padova e il turbamento a essa connesso erano lontani, il nostro bell’itinerario sarebbe continuato. Venezia, finalmente, ci aspettava davvero! Sarebbe stato un secondo viaggio di nozze.
Eppure, quell’immagine dell’automobile spappolata, a dir la verità, era ancora nei miei pensieri e mi metteva paura. Avevamo le cinture di sicurezza? Sì, e le gomme erano a posto, l’auto era stata revisionata prima di partire. Forse, sto invecchiando, mi dicevo.
Poi, quel camion.
Correva all’impazzata e mi stava dietro, vicinissimo, quasi a toccarmi. Lampeggiava, suonava, il conducente era ammattito? Accelerava ancora e lo vedevo nello specchietto retrovisore: stava per tamponarci. Avevo accelerato bruscamente anch’io per allontanarmi, la mia fronte gocciolava di sudore, lui aveva allora iniziato il sorpasso e mi stringeva sulla destra. Era a un centimetro dalla mia fiancata e aveva sterzato ancora violentemente a destra. Addio, era finita, la nostra macchina sarebbe diventata come quella della foto in chiesa ma Sant’Antonio non sarebbe intervenuto, io non ci credevo, miei cari figli, non vi avrei rivisti più…
Con una brusca frenata, per una frazione di secondo, ero riuscito a evitare l’urto! Il camion aveva continuato la sua corsa pazza e si era allontanato velocemente. Mi tremavano le mani e avevo dovuto fermarmi un po’ a lato della strada per riprendermi. (Pensate che il giorno seguente ho letto sul giornale che quel camion si era capottato poche ore dopo da qualche parte e che l’autista era ubriaco fradicio!)
Il fatto è che ero rimasto troppo colpito da tutti quei ricordi nella chiesa, da vostra madre che piangeva (ma perché?) e, poi, gli anni giovanili sono passati e, da un po’ di tempo, ho cominciato ad avere dei dubbi. Forse un Dio esiste, forse qualcuno avrà creato un mondo così bello e perfetto, forse l’uomo non è una creatura figlia del caso o del big bang… Chi lo sa! 
Ma soprattutto ho cominciato a rendermi conto che, probabilmente, vostra madre deve aver sofferto molto a vivere con me senza la forma di matrimonio che la sua fede le richiedeva, che, forse, era quello il senso del suo pianto.
Non so, non gliel’ho chiesto, ma è certo che nella nostra vita insieme abbiamo rispettato i miei principi prima dei suoi. E lei non me l’ha fatto pesare, in tanti anni, neppure una volta.
Come avrà fatto, allora, mi sono chiesto, a convincere i suoi parenti ad accettare il matrimonio in Comune? Quanto coraggio ha dimostrato e fiducia in me!
E io, in tanto tempo, non me ne sono mai reso conto.
Dunque, ho preso la mia decisione: la sposerò in Chiesa.
Vi sembra strano? Ma no, forse, un piccolo miracolo a me Sant’Antonio l’ha fatto davvero: il miracolo di provare a mettermi nei panni di un’altra persona e di capire quanto abbia sacrificato per me.
Sapete, mi sto preparando seriamente all’evento, sto andando a scuola di catechismo da un prete mio amico che conosce i miei dubbi e le mie incertezze.
Sarà lui a sposarci e voi sarete insieme a noi, a festeggiare la grande gioia di vostra madre ma soprattutto mia, che la vedrò compiutamente felice.
Mi raccomando, però, quando stasera glielo dirò, non voglio vedervi piangere!
Con tanto bene, vostro padre Anselmo.

RENATA RUSCA ZARGAR



27 gennaio per non dimenticare di ANNA MONTELLA


 

martedì, gennaio 25

Impressioni di lettura di ALESSANDRA GIUSTI per STORIE GIROVAGHE

 


Impressioni di lettura di Alessandra Giusti per STORIE GIROVAGHE

Ho letto con piacere “Storie girovaghe” dell’amica Danila. Una lettura scorrevole, gradevole, abbellita da disegni dell’autrice stessa e da altre belle immagini. Il genere racconto (o romanzo breve) è nelle mie corde e ritengo che lo possa essere in quelle di molti lettori. Io ho seguito l’ordine dell’impaginazione, ma avrei potuto tranquillamente leggere aprendo il volume a caso di volta in volta. I racconti sono infatti vari, gli argomenti e gli avvenimenti narrati, di fantasia o ispirati alla realtà, non sono legati cronologicamente tra di loro e consentono di spaziare liberamente da una pagina all’altra. Chiunque in questo bel libro potrà trovare riferimenti alla propria vita e ai propri interessi e pensieri; i racconti narrati, anzi, danno voce a pensieri che sentiamo nostri e che magari non siamo riusciti finora ad esprimere in modo adeguato. È questa secondo me la forza di questa pubblicazione, che non annoia mai il lettore. Riferimenti storici, letterari, scientifici, psicologici, sociologici e di quotidianità che scivolano via senza pesare, coinvolgendo chi legge, che si trova alla fine con il suo bagaglio arricchito senza essersene nemmeno reso conto, se non alla fine, quando un: “Bello!” esce spontaneo dal cuore. Grazie Danila! Se proprio dovessi soffermarmi su una in particolare di queste belle storie (leggendo mi è tornata alla memoria una canzone di quand’ero bambina: “Le piccole storie, che girano per il mondo…”) lo farei su “L’uscita di Carla”, rischiando però inevitabilmente di far torto alle altre. Ma un torto “buono”, una piccola preferenza che nulla vuole togliere al tutto. Sono un’appassionata lettrice e al termine di un libro, da sempre, ho l‘abitudine di dire a me stessa “Lo rileggerò”, oppure “Non lo leggerò più”. Rileggerò certamente “Storie girovaghe”!

Alessandra Giusti


domenica, gennaio 23

L'EUROPA COSì COME SI VEDE DAL SAHEL di P. MAURO ARMANINO



L’Europa così come si vede dal Sahel

Ben vero che tanti continuano a morire per cercare di raggiungerla. L’anno scorso, secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, sono periti nel mondo circa 5 300 migranti. Una buona parte di questi erano in viaggio verso l’Europa. Le rotte dell’Atlantico, del Mediterraneo, dei Balcani e di altre frontiere meno note, sono diventate il luogo emblematico della Grande Difesa del continente rispetto al diritto innato di mobilità umana. Cercare orizzonti nuovi di vita non solo non è un crimine ma è ciò che da sempre gli umani hanno cercato di fare. La stabilità era l’eccezione e la migrazione la regola. L’Europa questo lo sa,  perché in un tempo non troppo lontano della storia è stata il continente più ‘nomade’ di tutti.
L’Eldorado non ha terminato di sedurre chi vede nell’Europa un baluardo per la ‘barbarie’. Essa si manifesta altrove con indigenza, dittature, colpi di stato, carestie, guerre e tradimento delle promesse delle indipendenze degli anni ’60. L’Europa si presenta come affluente e influente, riparo contro gli abusi sui diritti umani e terra d’asilo per un certo numero di persone che hanno perso ogni speranza di futuro. Buon numero di migrazioni sono per così dire di ‘ritorno’ nel senso che arrivano parte dei popoli che, a suo tempo, erano stati preda della colonizzazione. Sappiamo che la storia non è mai a senso unico e che, malgrado i tentativi di cancellarne le tracce, è alquanto ostinata. Ad ognuno il suo turno, verrebbe da dire.
Poi c’è l’Europa vista come insaziabile detentrice di potere. Su una parte consistente delle risorse del Sahel, sulle sue politiche economiche e sul tipo di regimi che lo governano, sulle frontiere che essa, l’Europa, ha esteso nel profondo della storia e della geografia, sulle scelte educative e soprattutto sull’immaginario culturale. L’Europa arrogante che pensa di trovarsi ancora al centro del mondo per deciderne le sorti. Un’Europa, vista dal Sahel, come naturale seguito del processo di ricolonizzazione che si attua col consenso, spesso comprato, delle élites locali, tutt’altro che passive in queste operazioni di depossessione delle classi più vulnerabili del popolo. L’Europa che sfrutta, espropria e in seguito si propone di aiutare a chi a rubato.
Ciò che il Sahel conosce meglio dell’Europa è il suo volto umanitario. Centinaia di Organizzazioni Non Governative Internazionali, globali, delocalizzate, nazionalizzate, perpetuate, inventate, comprate, vendute e comunque presenti, sono sul terreno. Aiutano e si affannano a lenire sofferenze, a palliare a crisi endemiche o urgenze impellenti. Accompagnano lo Stato assente nella gestione di carestie, epidemie, catastrofi naturali o prodotte dall’incuria. Dettano modi, tempi, tabelle e permettono ad una fetta delle popolazione di sopravvivere . Creano modelli di società e di gestione del ‘capitale umano’ e cercano di utilizzare al meglio le ‘persone- risorsa’, pagano profumatamente l’affitto di immobili i cui proprietari sono spesso uomini politici o affiliati al partito. Fabbricano  corsi e ricorsi per ‘rafforzare le capacità’ del popolo.
C’è, infine, l’Europa che fa sorridere il Sahel perché appare vulnerabile come mai. Impaurita dalla sua potenza perduta e dei virus che scivolano a piacimento e che Lei cerca di imporre come qualcosa di inedito nell’Africa. Il Sahel sorride quando ascolta il ‘vecchio ‘ continente affermare i principi di democrazia e libertà e poi mettere i propri cittadini sotto chiave. Sorride di compatimento nell’osservare pesi e misure diverse nell’imporre diritti umani e guerre umanitarie per esportare l’unico modello di democrazia possibile. Sorride il Sahel quando sente il rumore provocato dai ‘Mirage’ francesi nel cielo e vede passare le colonne di militari e assume che ognuno, in fondo, cerca solo il proprio interesse particolare e nazionale. E sorride, infine, la sabbia, al pensiero del prossimo arrivo dei nuovi migranti europei che cercheranno nel Sahel ciò che hanno smarrito a casa loro.


   Mauro Armanino, Niamey, 23 gennaio 2022

venerdì, gennaio 21

L’ARTE TERAPIA: Trasformare il dolore per eliminarlo - di ZARINA ZARGAR & CHIARA MASSOBRIO - Co-Autore e Supervisor ANTONINO LA TONA

 

L’ARTE TERAPIA: 
Trasformare il dolore per eliminarlo

Articolo pubblicato sul sito qui sopraL’ARTE TERAPIA: Trasformare il dolore per eliminarlo - 21 Gennaio 2022  benessereemozioniPsicologia

Autori: Zarina Zargar & Chiara Massobrio

Co-autore e Supervisor: Antonino La Tona

Ormai ci siamo quasi abituati, molte attività che facevano parte della nostra vita quotidiana hanno subito un’esclusione o sono state diminuite di frequenza. Soprattutto le attività sociali, che riguardano lo scambio e il contatto con il nostro prossimo sono diventate vietate o comunque fonte di preoccupazione.

In questa situazione di limitazione, è importante riuscire a focalizzarsi su ciò che di positivo si può ancora fare e tenere bene a mente che noi esseri umani disponiamo di una formidabile capacità di adattamento, proprio quella che ci ha portati a essere sovrani del regno vegetale e animale.

Allora, perché non rispolverare vecchie abilità o addirittura scoprire di essere bravi in qualcosa e appassionarsi a ciò che non si era mai sperimentato prima?

Uno spunto utile ci arriva dall’arte terapia, ovvero l’attività artistica utilizzata con finalità terapeutiche e ricreative. Ovviamente per essere arte terapeuta occorre un titolo specifico, ma per essere allievi o semplicemente dare libero sfogo alla propria creatività non è necessaria alcuna competenza particolare. Altra cosa davvero importante: per creare un’opera d’arte in grado di esprimere se stessi e far impiegare il tempo a disposizione in maniera più piacevole non sono necessari materiali particolari, dispendio economico e ambienti affollati. È qualcosa che si può fare in qualunque momento della giornata standosene tranquillamente immersi nei comfort della propria casa.

L’arte terapia è una realtà affermata ormai da tempo e che ha ricevuto conferme relative alla propria influenza benefica addirittura dalle neuroscienze (Hass-Cohen, Carr 2008).  Sembra avere la capacità di agire sulla zona limbica, sul sistema motorio e sulle aree corticali che con esso comunicano  offrendo a chi la pratica nuovi feedback corporei e visivi in grado di produrre modificazioni  psicofisiologiche (Hass-Choen, Carr 2008).

Si tratta di una pratica che può inserirsi agevolmente all’interno dei più diversi percorsi e approcci terapeutici, rivelandosi una risorsa ricca e adattabile.

In clinica può essere applicata in numerosissimi campi quali il trattamento di disturbi comportamentali, emotivi, cognitivi e neurologici, arrivando ad aiutare persone di tutte le età anche con deterioramenti severi (Chancellor et al. 2013), o con storie di traumi e violenze (Schouten et al. 2014).

L’utilizzo dell’arte in terapia sembra essere molto efficace in età evolutiva. Bambini e ragazzi, se inseriti in un contesto protetto, riescono spesso ad evocare ed esprimere contenuti ed eventi altrimenti difficili da raggiungere e svelare (Waller, 2006). La riflessione, unita all’analisi cognitiva ed emotiva, che passa prevalentemente attraverso la verbalizzazione, può cedere il passo a mezzi espressivi più vicini al mondo infantile, abbondantemente fantasioso e ricco di immagini. Le parole si trasformano in linee, colori, in segni impressi su un materiale, nella scelta di un certo tipo di manipolazione.

In tutto ciò il terapeuta può essere chiamato a partecipare attivamente, cogliendo l’occasione di costruire un vero e proprio linguaggio creativo e sensoriale con il paziente, unico e irripetibile.

Il presupposto da cui parte l’arte utilizzata come terapia è proprio questo: l’azione creativa come strada alternativa per raggiungere uno spazio “altro” che risiede al di là delle parole, il quale favorisce l’emergere di contenuti non del tutto elaborati e coscienti.  L’emersione è di per sè terapeutica e la riscoperta della sensorialità ha la capacità di curare e placare l’attività mentale.

A qualunque età concedersi di fluire all’interno di un atto creativo può diventare un ottimo esercizio introspettivo e liberatorio, nonché uno strumento attraverso il quale indirizzare, convertire, trasformare stati emotivi intensi e soverchianti.

A questo proposito, tra le infinite tecniche che è possibile adoperare, l’uso puro del colore, al di là delle forme e della riproduzione di soggetti concreti o astratti, può di per se’ essere sufficiente a promuovere l’avvicinarsi, l’esplorare e l’agire sulla sfera emotiva (Withrow).

Non servono grandi abilità tecniche, è sufficiente la disponibilità a perdersi all’interno di ciò che si sta facendo, lasciandosi trasportare da quello che accade in corso d’opera.

Allora anche tutti noi possiamo tornare indietro nel tempo e ridiventare quei bambini che si illuminavano di gioia con soltanto un foglio e dei colori in mano. 

Tra l’altro abbiamo a disposizione innumerevoli fonti di ispirazione grazie anche al web che ci racconta del riciclo creativo (a basso costo e impatto ambientale), delle nuove forme di arte precedentemente impensabili, della bellezza di poter trasformare qualcosa di sé in qualcosa di nuovo.

Arte non è solo trasferire colori dalla tavolozza alla tela. Arte è scrivere, cantare, recitare e inventare, raccontare di sé, coltivare il proprio mondo interiore, riuscire a condividerlo senza una modalità prestabilita. Esistono innumerevoli modi per farlo e non basterebbe nemmeno tutto lo spazio del web per scrivere un elenco completo. 

La bellezza risiede proprio in questo: non c’è giusto e non c’è sbagliato, c’è solo qualcosa che va trasformato.

Si tratta di un’attività esente da rischi e effetti collaterali. Al massimo può capitare di sporcarsi un po’ le mani o disegnare un sorriso autentico dove questo non c’era. Provare per credere, non resta altro da fare!

CREARE!

Bibliografia:

Chancellor B., Duncan A., Chatterjee A. (2013). Art Therapy for Alzheimer’s Disease and Other Dementias. Journal of Alzheimer’s Disease 39, 1-11.

Hass-Cohen N., Carr R. (2008). Art Therapy and Clinical Neuroscience. Jessica Kingsley Publishers.

Schouten K. A., Niet G. J., Knipscheer J.W., Kleber R. J., Hutschemaekers G. J. M. (2014). The Effectiveness of Art Therapy in the Treatment of Traumatized Adults: A Systematic Review on Art Therapy and Trauma. Trauma, Violence & Abuse, 1-9.

Waller D. (2006). Art Thrapy for Children: How It Leads to Change. Clinical Child Psychology and Psychiatry, 11-127.

Withrow R. (2004). The Use of Color in Art Therapy. Journal of HUMANISTIC COUNSELING, EDUCATION AND DEVELOPMENT, volume 43.

CREARE!


CARO SINDACO DI VENERIANO di RENATA RUSCA ZARGAR

Villaggio indiano

CARO SINDACO DI VENERIANO


Questo racconto è stato scritto nel 2003, anche se è perfettamente attuale. È stato, in quel tempo, scelto dallo scrittore Giulio Mozzi per essere inserito nel Volume “Il lavoro appeso a un filo”, 2004
Arci Nuova Associazione - Padova - (arcipadova.org)

Lo spot denominato “Grazie” sta andando sullo schermo. L’omino consumatore acquista qualcosa e tutti per strada lo ringraziano perché mette in moto l’economia. Le multinazionali Nestlé, Coca Cola, Dal Monte, Shell, De Beers e tante altre, sorridono dai loro enormi palazzi con condiscendente amore.
Salvatore spegne il televisore: anch’egli ha tante cose da comprare e sua figlia minore lo tormenta con richieste continue: il telefonino, i Cd, le audio-cassette, gli occhiali firmati (e mica come quelli comprati per tre euro dai marocchini che ha lui!)…
L’altra figlia, invece, fresca di diploma, cerca lavoro ma non le è capitato ancora nulla di buono, se non fare la stagione negli stabilimenti balneari o andare a raccogliere, in qualche grande azienda della provincia, i pomodori e la frutta.
Per fortuna lui il lavoro ce l’ha da vent’anni e, anche se non è uno di quegli impieghi da maniche bianche, lui ne è contento, il padrone lo stima e lui, in tanti anni, è mancato solo quella volta che si è rotto la gamba, salvo andarci pochi giorni dopo, con il gesso.
-  Giuseppe non può fare a meno di me. - aveva risposto allora alla moglie che gli raccomandava di stare a casa a riposarsi - Io sono il capoturno, io solo so tutti i segreti del lavoro e cosa fare se qualche macchina si inceppa.
Così, la famiglia, tre anni prima, aveva deciso di “accendere un mutuo”, come si dice in banca, andarsene dai bassi di Napoli, dove non si respira proprio e dove non voleva più che vivessero le sue figlie, e comprare una piccola casupola in un villaggio a pochi chilometri da Napoli, Veneriano, un po’ fuori dal traffico cittadino, immerso nel verde.
Ogni mattina egli percorre in motorino i pochi chilometri per andare in fabbrica ed è bello tornare poi, la sera, e scivolare improvvisamente nella quiete della campagna. La casetta di quattro stanze, con un orticello intorno, non è costata molto perché era piuttosto vecchia e la banca gli ha concesso, appunto, un mutuo ventennale per pagarla. - Vedrai, ce la faremo. - egli aveva rassicurato la moglie, timorosa del passo che andavano a compiere - tu potrai tenere un po’ di verdura nell’orto, allevare galline e conigli, vendere qualcosa… Nostra figlia più grande troverà pure un lavoro stabile prima o poi, e intanto potrà darti una mano. Certo, faremo un po’ di economia, ma vale bene la pena di essere padroni della propria casa e, quando andrò in pensione e saremo soli perché le nostre figlie saranno sposate, sarà bello stare qui, insieme, sedere nel giardino a prendere il fresco, mangiare i frutti della nostra terra… Quando poi verranno i nipotini a trovarci, potranno giocare nel nostro piccolo giardino, respirare aria buona, liberi, lontani dai pericoli delle macchine… Chi sarà più felice di noi?
È ovvio che, in questa situazione, le richieste della figlia minore non possono essere soddisfatte completamente, ma è molto meglio così, considera sempre Salvatore, bisogna pensare al futuro, non vivere scioccamente alla giornata!  In ogni caso, un suo amico gli ha regalato un telefonino che non usa più ed egli l’ha dato subito a Marina, sua figlia. Lei ha sbuffato un po’ perché lo voleva nuovo, ma poi l’ha preso e ha iniziato a usarlo. Anche lei deve capire che la casa un domani sarà sua e di sua sorella e che, nel frattempo, possono vivere in modo un po’ più umano!
Intanto, la domenica e ogni momento libero, Salvatore si è dato da fare a sistemare le stanze, cambiare i tubi dell’acqua, tinteggiare, aggiustare. E la casetta è diventata sempre più carina e piacevole, anche se modesta.  Napoli con il suo rumore, la puzza, la confusione è ormai lontana.
Tempo prima, Salvatore aveva letto la storia di una signora sfortunata. L’aveva trovata in un trafiletto su di un giornale del nord che qualcuno gli aveva dato per fasciare le uova delle galline che sua moglie alleva dietro la casa e porta al mercato a Napoli. Pare che facesse la segretaria da venti anni presso una scuola di musica di Savona e che la scuola si fosse accorpata con un’altra, sempre di Savona. Allora le avevano chiesto, per motivi forse fiscali non meglio chiariti, di essere inquadrata con un contratto annuale, e non più a tempo indeterminato, nella nuova amministrazione. La signora, naturalmente, si era fidata, sicura anche del legame di amicizia che la legava da tanti anni agli insegnanti e al resto del personale. Ma, trascorso l’anno, era stata licenziata! Le avevano addotto, come scusa, che non era esperta nelle nuove tecnologie, che ci voleva qualcuno più moderno e adatto a una grande scuola, Polo musicale l’avevano chiamato, che aveva progetti di divenire addirittura Conservatorio!  Piangendo, scriveva sempre l’articolista, la signora aveva risposto che, se gliel’avessero chiesto, avrebbe fatto un corso di computer e avrebbe imparato.  Ormai, a quarantanove anni, dove avrebbe trovato un altro lavoro?  E, anche se suo marito fortunatamente portava uno stipendio a casa, ella aveva una persona anziana da assistere e quei soldi le servivano proprio! Ma non c’era stato nulla da fare: la scuola, legalmente, era perfettamente in regola.
“Che strane cose succedono anche al nord!- aveva concluso Salvatore tra sé e sé- Credevo che solo qui al sud esistessero problemi di lavoro e, invece, tutto il mondo è paese. Meno male che io sono tranquillo, ho il mio posto e il padrone non mi lascerebbe mai a casa!”  

- Senti Salvatore, - gli aveva detto un giorno Giuseppe, detto Pino, il padrone - tu sei un brav’uomo, ci conosciamo da tanti anni e io ti rispetto. Però, non mi ci sento più in questo paese. Da quando io e mia moglie ci siamo separati, i miei figli non mi guardano neanche più in faccia…
- Non devi prendertela, vedrai che poi tutto si aggiusterà, loro capiranno che stanno sbagliando… - aveva interrotto subito Salvatore.
- Sì, ma intanto io sto qui come un papero, mia moglie non mi vuole vedere e i figli neanche. Eppure non so cosa ho fatto di male! Ho sempre lavorato, portato i soldi a casa… Va bene, ormai è andata così. Ma io non mi ci vedo più qui e allora ho deciso di andarmene.
- Come andartene? E dove?
- Mi ha detto Shri, il nostro nuovo operaio, che, nel suo paese, la manodopera costa molto meno, che se qui paghi duemila euro, tra stipendio e contributi, per un operaio, là ne paghi, al massimo, due o trecento e, quindi, avrei deciso di trasferirmi là.
- In India? Ma poi là che te ne fai delle chiusure per valigie che produciamo? A loro servono?
- Ma naturalmente le spedisco ai soliti nostri acquirenti. La spesa della spedizione sarà, ovviamente, molto inferiore alla differenza di salario che risparmierò! Anzi, potrò sicuramente essere più concorrenziale e ampliare il mio mercato.
- E qui? Chi rimarrà qui?
- Chiuderò la fabbrica, venderò il capannone, i macchinari, e ne acquisterò di nuovi, tanto c’era bisogno di un rimodernamento. Insomma, cambierò tutto.
- Hai già deciso!
- Sì, è già un po’ che ci penso, e non è stata una decisione facile.
- Andare a vivere in un paese così lontano! Così diverso!
- Oggi non è più come una volta, il mondo è piccolo. Shri mi ha detto che lui mi aiuterà ad ambientarmi, che là sarò accolto come un principe, il paese sarà una nuova famiglia per me… e poi viaggerò, verrò ogni tanto a vedere cosa fanno i miei figli, se gli sarà passata la rabbia, e, un domani, anche per loro sarà meglio, potrò lasciargli qualcosa di più.
- E… io cosa farò?
- Questo è appunto uno dei motivi per cui ho pensato molto a questa decisione. Il pensiero di lasciarti a casa, dopo tanti anni, mi sembrava brutto. Ma poi mi sono detto che tu sei così bravo, preciso, puntuale, volonteroso, un altro lavoro lo trovi subito.  Non ti propongo neppure di venire laggiù, tu la famiglia ce l’hai, una brava moglie, due brave figlie… e poi ve ne state bene, nella vostra casetta…-
Salvatore era rimasto di stucco e non gli era venuto in mente niente altro da obiettare. E poi era stato già tutto deciso, che farci?
Nel giro di un paio di mesi, la fabbrica avrebbe chiuso e già stava riducendo il lavoro per trasferire i macchinari che Pino aveva venduto e per preparare il trasloco di ciò che rimaneva.
La sera, non aveva ancora parlato con nessuno, stava incartando le uova in un vecchio giornale, come il solito, e un titolo l’aveva colpito: “Ho ucciso per i miei bambini”. Senza farsi notare, quasi dovesse nascondere anch’egli un delitto, aveva letto l’articolo.
“Si è risolto con la confessione dell’assassino, il giallo dell’omicidio di Francesca Borgo, la donna trovata strangolata il 30 novembre scorso nella campagna dei dintorni di Torino. Il corpo della vittima, trentacinque anni, benestante, madre di tre bimbi di nove, sette e quattro anni, era stato ritrovato nudo in un campo e il ritrovamento aveva dato origine a mille illazioni e sospetti. L’altra notte l’arresto dell’omicida, un operaio di quarantacinque anni, che ha spiegato agli investigatori di aver ammazzato la donna per un grande bisogno di soldi. ‘Quella mattina - ha detto l’uomo che si chiama Alfio Buzone, lavora a Torino in una fabbrica di sacchetti di plastica ed è incensurato - ho deciso di fare una rapina. Il mio stipendio, infatti, non basta a far fronte a tutte le spese, ho tre figlie di quindici, tredici e dodici anni, mia moglie è casalinga e, nonostante le nostre economie, non ce la facciamo proprio. Così sono uscito di casa e mi sono recato al parcheggio del centro commerciale. Mi sono messo a cercare l’auto giusta, quella che rivelasse buone condizioni economiche del proprietario. E l’ho trovata: una BMW station wagon. Quando la proprietaria ha fatto ritorno alla vettura, l’ho minacciata e l’ho costretta a entrare in macchina insieme a me. L’auto ha preso la via della campagna e pensavo che avrei legato e abbandonato la donna, dopo averle portato via tutto quello che aveva con sé. Purtroppo, però, mi sono accorto che quella era la madre di una compagna di scuola di una delle mie figlie, quella di tredici anni. Ho pensato, quindi, che mi avrebbe accusato e riconosciuto.’ Così l’operaio, sempre secondo la sua testimonianza, è stato costretto a strangolare la donna. Dopo averle preso il portafoglio con carta di credito e bancomat, l’orologio Rolex, il cellulare, l’ha spogliata per inscenare un delitto passionale. Gli inquirenti sono arrivati all’operaio di Torino perché aveva poi tentato di prelevare del denaro con la tessera bancomat, come è risultato dalla telecamera della Banca. Pare che la famiglia Buzone avesse da poco comprato un appartamentino in un grande condominio e che avesse acceso un mutuo per pagarlo. La vittima, invece, lavorava in una grande casa editrice di Milano e si trovava a Torino per assistere la madre, convalescente per un’operazione agli occhi.”
Gocce di sudore scendono dal viso di Salvatore.
- Cos’hai, non ti senti bene? - gli domanda la moglie.
- No, no, sto benissimo. - risponde lui e frettolosamente straccia la pagina del giornale e la getta nel fuoco.

Nel villaggio di Rampur, non molto lontano da Delhi, è festa grande: sta per arrivare un uomo, dall’Italia addirittura, un benefattore! La maggior parte degli abitanti di Rampur non è mai uscita dal villaggio, un semplice agglomerato di piccole costruzioni in pietra affacciate su di una strada polverosa, e quindi non ha mai visto uno straniero ed è molto curiosa di osservare come sia.  Così, oggi, sono tutti lì, sulla strada arida. Hanno lasciato il lavoro nei campi, con il Sirpanch, una specie di sindaco, in prima fila con la sua bella collana di fiori al collo. Egli ha in mano altre due collane: una per lo straniero e una per Shri, il loro concittadino che lo porta lì. Lo straniero viene per impiantare una fabbrica, per dar lavoro a molti di loro! A Rampur lavoro non ce n’è, tanti vanno a cercare fortuna a Delhi e spesso finiscono a vivere, con il loro giaciglio di stracci, per terra, perché anche a Delhi non è facile trovare una qualsiasi occupazione. Shri è emigrato in Francia tanti anni fa, poi si è trasferito in Italia e ora torna con un ricco europeo (tutti gli europei sono ricchi) per dirigere la sua fabbrica.
Uomini che hanno sistemato al meglio il loro longhi, la gonnellina di cotone annodata in vita, per fare bella figura, donne nei loro sari colorati un po’ consunti, bambini quasi nudi di tutte le età, si metteranno in fila davanti a lui per essere assunti. Prima ci vorranno dei muratori per costruire il capannone (le donne e i bambini dai cinque o sei anni in su potranno fare i manovali), poi serviranno gli operai (e Shri ha già scritto nella lettera in cui annunciava questa enorme fortuna che verrà loro insegnato cosa dovranno fare) e, infine, sarà necessario chi porterà il prodotto della fabbrica a Delhi, per essere inviato in Europa.  
Insomma, la vita misera di questo villaggio cambierà. Fino ad ora, ogni famiglia ha potuto solo coltivare poca verdura e frutta a forza di braccia e di mani e il monsone, qualche volta, ha distrutto le coltivazioni, costringendo la gente alla fame, alle malattie, alla morte. Qui non c’è neppure una scuola, né un ospedale, e il medico viene nel villaggio vicino solo una volta la settimana…
Ora tutto questo finirà: il benessere crescerà i bimbi che stanno nascendo, la strada, fangosa e allagata con le piogge del monsone e polverosa durante la siccità, sarà asfaltata come a Delhi e gli uomini non saranno più costretti a emigrare.
E tutto per merito di Shri, il loro cittadino onorario!

Caro Sindaco di Veneriano,
ti scrivo perché non so più a chi altro rivolgermi.
Abito da pochi anni nella tua città in quella casetta un po’ fuori che io ho dipinto tutta di rosa ho fatto il mutuo per pagarla ma ormai non ho più lavoro e la banca si prenderà la nostra casa.
Lavoravo in una piccola fabbrica che produceva chiusure per valige a Napoli ma il padrone se né andato in India perché ha detto che la gli operai gli costano meno.
Che vuoi che faccia, faccio parte di tutti quelli che sono sfortunati non so neppure andare a rubare e se rubo io che sono un poveraccio non avrò tanti grandi avvocati a difendermi né i privilegi delle alte cariche dello Stato…
Ora mi incateno davanti al comune con la lettera in bocca come un cane, tale e quale io mi sento anzi no tanti cani fanno una vita da pascià con le loro scatolette ed i loro cappottini. Io sono un cane randagio che nessuno nemmeno il canile vuole più. Ho cercato un altro lavoro ma ho quarantacinque anni e non mi prendono, non ho un mestiere in mano e come apprendista prendono solo ragazzi e li pagano quasi niente. Sono andato a raccogliere le arance e mi hanno dato 500 euro per un mese di lavoro come si può vivere? In estate sono andato a fare le pulizie ed il guardiano in uno stabilimento balneare e poi in autunno sono rimasto di nuovo a casa. Che posso fare?
Mia figlia fa la terza superiore e non potrà più andare a scuola, avete dato i buoni scuola a chi manda i figli alla scuola privata e forse non ne ha tanto bisogno se sceglie di pagare una bella rata mensile. Perché non lo date a tutti il buono? Questa sarebbe davvero una conquista di libertà tutti quelli che studiano abbiano il buono e se lo spendano dove vogliono!
Un’altra pubblicità alla tivù diceva, non sono sicuro di ricordarlo bene le tre “i” inglese, informatica, la terza non me la ricordo più, forse era impresa… Ma chi ce l’ha l’impresa?
Ho cercato anche di vendere un rene ma forse non ho trovato le persone giuste. Se nemmeno tu sindaco mi ascolterai il prossimo passo sarà il suicidio, non voglio fare come quell’uomo che ha ucciso una donna per rubarle i soldi quelli sono dei mostri io non voglio fare male a nessuno.
Scusami gli errori di questa lettera ma sono andato poco a scuola e tanto tempo fa e sono già passati tanti anni da quando ho aiutato le mie figlie a imparare a leggere e scrivere. Ora le figlie sono grandi e i loro studi io non li capisco più, Ho iniziato a lavorare a quindici anni con mio padre che faceva il manovale poi a venticinque ho trovato quel lavoro che mi ha dato tante soddisfazioni e adesso?
Dimmi tu Sindaco cosa devo fare
Ambrosio Salvatore

RENATA RUSCA ZARGAR