Volendo anticipare due poemetti conviviali dedicati a Psiche, ho estrapolato da un precedente articolo di Roberto Vittorio Di Pietro, una sua interessante esposizione su Pascoli, che meglio lo fa conoscere, e desidero riproporvela. L'articolo completo lo troverete in questa stessa sede, al seguente link:
(Pascoli chiuse questa sua esistenza terrena nel 1912)
“A distanza di oltre un secolo durante il quale è fulmineamente sopravvenuta
un’inopinata evoluzione tecnologica che, forse più di ogni altra rivoluzione
precedente, specie per le giovani o giovanissime generazioni ha comportato e
continua a determinare una svolta ‘filosofica’ radicale nel modo di concepire i
‘valori esistenziali’ in genere, in che misura residuale può essere oggigiorno
davvero compresa, assimilata e apprezzata, non solo l’opera (del resto molto
meno ”lineare” di quanto nelle scuole si sia schematicamente voluto lasciar
supporre), ma la stessa particolare forma mentis di un eccelso, venerabile
Maestro di autentica “poesia per la vita”, quale giustamente aspirava ad essere
– e, nonostante tutto, indubbiamente rimane – il grande romagnolo Giovanni
Placido Agostino Pascoli?” Forse che la mitezza e connaturale ritrosia di un
Pascoli-Fanciullino oggigiorno non susciterebbero, purtroppo, quantomeno
divertito stupore nella maggior parte di noi Tecnologi/Tecnicisti/Tecnocrati
del ventunesimo secolo, convinti possessori di un miglior sapere progredito e
di sofisticati strumenti multimediali teoricamente atti a garantire una
continua, rapida, immediata comunicazione interpersonale? Quindi, in un nuovo
clima culturale oggi così strutturato, in cui, spesso (almeno a quanto ci viene
garantito dagli esperti “sondaggisti”…) nemmeno l’elemento semplicemente
denotativo risulta più aperto ad una corretta lettura, sventurato lui, Giovanni
Placido Agostino Pascoli, se fra noi – non saputi accademici, ma comuni “fruitori
di massa” — venisse a riproporsi con la sua ambiziosa poesia simbolista,
tutt’altro che lineare al di là di certe ingannevoli apparenze, perlopiù solo
superficialmente “facile”, intessuta com’è di sottili metafore e allusioni
occulte, di insospettabili geometrie pluridirezionali affidate ad un
fonosimbolismo di raffinatissima fattura! Fin dalla mia adolescenza ho
apprezzato, anzi oserei dire visceralmente amato il Pascoli. Credo che già
allora di lui mi colpisse, e intimamente mi commuovesse, una singolare
facoltà/volontà dell’umano sentire: del sapere e voler cogliere (‘vedere e
udire, altro non deve il poeta’, per usare una sua espressione) ogni
‘misteriosa’ voce, così nel proprio intimo, così nella natura delle piccole
cose terrestri come nel vasto firmamento stellato, con animo indagatore vigile,
aperto al dolore come alle semplici gioie del vivere quotidiano, lucido ma in
ogni caso come ferito da una visionaria nostalgia di fondo: quasi trafitto
dalla sicura presenza di una superiore harmonia mundi (e perché doverla credere
un’illusione? un sogno impossibile?…) ovunque percepibile nell’aria e
nelle cose, e tuttavia sempre sfuggente, per umano destino tragicamente
inafferrabile su questo nostro ‘atomo opaco del male’. Una rara forma di drammatica
interiorità, direi; e, perciò, tutt’altro che inquadrabile, né tanto meno
liquidabile, secondo i ben noti cliché ai quali, a scuola, si era in genere
indotti a voler troppo semplicisticamente ricondurre la figura di questo poeta
‘fanciullino’ – chiaramente a scapito di un’autentica comprensione, se non
della sua arte (ma anch’essa, salvo in determinati ambienti accademici, a mio
parere troppo sommariamente analizzata), della sua spiritualità a dir poco
composita. “La civetta” (il secondo dei due importanti conviviali intitolati
“Poemi di Psyche” e dal Pascoli fra loro non a caso
accostati ma idealmente contrapposti – ma quanti cosiddetti ”ammiratori” del
grande Giovanni Pascoli davvero li hanno letti? O davvero li hanno capiti?) ho
cercato di stimolare la migliore curiosità del lettore orientandola verso una
tematica speculativa a mio giudizio di peso fondamentale nella pur variegata
vena poetico-filosofica pascoliana. Ebbene, si tratta di una profonda intima
lacerazione spirituale dovuta a sue ricorrenti meditazioni di ordine
squisitamente religioso-metafisico sul mistero dell’aldilà: un preciso dilemma
inerente alle alternative sorti future dell’anima individuale dopo il trapasso,
come tale sicuramente individuato in nuce da
saggisti competenti (penso a Rinaldo Froldi, in particolare), ma alle conseguenze
profondamente ansiogene del quale, perlomeno secondo quanto mi è stato
possibile appurare, la critica non ha forse ritenuto di dover concedere spazio
di maggiore approfondimento (forse riallacciando questo specifico nucleo
tematico al più noto orientamento speculativo pascoliano solitamente definito
”cosmico”?… di cui non costituirebbe pertanto che un’implicita propaggine
secondaria, di interesse relativamente scarso?) Per comprenderne la portata
credo che occorra scinderlo in due diversi quesiti, di cui, per il Pascoli, il
secondo è senza dubbio quello decisivo. Anzitutto: “Sarà più attendibile la
versione filosofica di stampo ‘pagano’ (ma non solo) secondo cui, dopo la morte
fisica, l’anima individuale sarebbe destinata a dissolversi nello spazio,
scomparire e confondersi quindi con l’universale Anima Mundi?” O magari la
versione platonico-cristiana che garantirebbe la sopravvivenza dell’anima
individuale come distinta entità spirituale nell’oltretomba?” E, secondo
quesito, determinante: “Ma quale delle due versioni io, Giovanni Pascoli,
davvero credo sia di per sé più rassicurante e desiderabile in definitiva? Per
il mio equilibrio interiore, per il mio attuale benessere psicologico, ah
quanto vorrei potermi decidere una volta per tutte! Quanta angoscia, quanta
sofferenza indicibile mi costa non dico sapere, ma nemmeno volere, optare
rassegnatamente per una meta ultraterrena piuttosto che per l’altra!”
Mi è talvolta capitato di sentirmi dire in giro, e –
purtroppo – da parte di persone provviste perlomeno di un diploma di scuola
superiore: “Oh Pascoli? Mi piaceva molto!…Ricordo ancora a memoria quella sua
bella poesia…com’era? quella dei ‘cipressetti in duplice filar’…e naturalmente
anche quella della cavallina storna…oppure l’altra che fa ‘San Lorenzo, a che
tante facelle?’…Stupendo davvero! ” O, viceversa: “Che poeta melenso,
lamentoso… Pascoli. Non mi è mai andato giù. Ho sempre istintivamente preferito
le liriche di Leopardi…tipo il garzoncello scherzoso…o quella che dice
‘l’albero a cui tendevi la pargoletta mano…” Solo un esempio, certo dei più
estremi e raggelanti, eppure in qualche modo indice di una cosiddetta “cultura
residuale” , molto più clamorosamente confusa e diffusa di quanto non è dato
credere possibile. Ma, senza arrivare a tanto, né cadere tanto in basso, che
sia un “adoooro!!!” o “detesssto!” questo o quell’altro autore, anche se
affermazioni fatte da chi le idee giuste e chiare in materia le possiede –
occorre che si tratti sempre di entusiasmi o rifiuti espressi con precisa
cognizione di causa: non si rende giustizia a nessun poeta, a nessuno scrittore
in genere, se l’opinione personale che ce ne siamo fatti dipende dal fatto di
avere maggiore dimestichezza soltanto con alcuni particolari aspetti della sua
opera ad esclusione di altri che pur sempre le appartengono e ne sono parte
integrante, anche se, per ragioni varie (programmi scolastici
prestabiliti?…pigrizia mentale che ci induce a non voler andare oltre per conto
nostro? Magari gusti personali preponderanti, da voler piacevolmente
assecondare?…) preferiamo conservare di un certo autore un determinato nostro
giudizio divenuto definitivo e inamovibile. E di quanti giudizi superficiali,
quindi del tutto inadeguati, ci accontentiamo! specie nel caso di scrittori la
cui opera ci sembra lì per lì troppo complessa, o troppo diversificata, o
semplicemente troppo estesa per affrontarsi con impegno nella sua interezza?
per meritare più di qualche lettura condotta ‘a campione’?
E Pascoli? Forse che la sua opera, vasta e multiforme
(fosse solo quella, ripeto, che solitamente viene fatta conoscere agli
studenti!), non pretende altrettanta volontà di attenta lettura e analisi da
parte di chiunque voglia renderle giustizia? Solo dopo essersi presi la briga
di vagliarla in prima persona con la lente in pugno, e solo dopo avere al tempo
stesso voluto verificare in quali e quante direzioni la critica più autorevole
ha responsabilmente ritenuto di doverla scandagliare, solo così, credo, si
potrà stabilire per quali effettive ragioni è proprio il caso di tributare non
solo rispetto, ma ammirazione incondizionata, a un Poeta che tanto più può
dirsi tale quanto più problematico si rivela nella sua composita psicologia:
nella sua giustamente, naturalmente sfaccettata umanità.
Roberto Vittorio Di Pietro
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