Funzione dello sperimentalismo nella
poetica pascoliana di Roberto Vittorio Di Pietro
( una conferenza riproposta in
nuce )
In poesia, la
scrittura sperimentale può ritenersi riconducibile a tre categorie di massima:
l. sperimentalismo di un primo tipo: interventi innovativi rivolti alla
struttura del testo (modalità di versificazione più duttili rispetto agli
istituti metrici della tradizione);
2. sperimentalismo di un secondo tipo: innovazione degli strumenti linguistici
(scelte lessicali inconsuete rispetto alle norme della lingua poetica
tradizionale, commistione di generi, invenzione di stilemi personali sotto
forma di costrutti sintattico-grammaticali caratterizzanti);
3. sperimentalismo di un terzo tipo: rinnovamento in profondità del discorso
poetico in quanto veicolo di una determinata “ visione del mondo “. Su questa
base di natura “filosofica”, in buona parte anche connessa alla temperie
storico-sociale ai cui stimoli contingenti l’arte genuina non può né desidera
sottrarsi, si sviluppano le cosiddette correnti letterarie; in questo ambito
poeti diversi risultano più o meno convenzionalmente accomunabili, pur restando
ben distinti nella loro individuale specificità — o nella loro singolare
progettualità, si direbbe. (Benedetto Croce, con altre parole, amava
sottolineare quest’ultimo aspetto.)
E’ evidente
che i primi due tipi di innovazione riguardano la forma del testo poetico, i
suoi connotati esteriori; anche se – occorrerebbe riflettere su questo dato di
fatto – non vi è artista genuino e memorabile per il quale non siano stati,
dopotutto, gli impulsi innovativi del terzo tipo ad influire decisivamente
sugli orientamenti sperimentalistici a livello formale. Il Pascoli, poeta
profondamente motivato da una propria filosofia esistenziale, appartiene senza
dubbio alla categoria degli sperimentalisti del terzo tipo, indotti ad agire
anche sugli altri due versanti della scrittura in funzione di un determinato
pensiero-messaggio da affidarsi con potenziata incisività ai fantasiosi
strumenti dell’arte.
L’uso pascoliano del vernacolo di Castelvecchio rispecchia alcuni elementi di
quello che qui abbiamo chiamato sperimentalismo del secondo tipo. Nel contesto
del mio ampio studio dedicato alla funzione del fonosimbolismo nella scrittura
poetica, vengono citati sufficienti esempi significativi di varianti introdotte
qua e là dal Pascoli nella struttura del verso inteso come unità
metrico-ritmica. Tali modelli si trovano perlopiù analizzati sotto la voce
anisosillabismo nella prima sezione di quel saggio, e ai medesimi mi limito a
rimandarvi. In questa prospettiva, però, dopo avervi ricordato che
l’anisosillabismo era in realtà fenomeno consueto nella poesia delle origini e
che, come tale, potrebbe considerarsi semmai un recupero più che una vera e
propria innovazione (ma quale artista non attinse al preesistente con propositi
innovativi?), desidererei farvi osservare in che modo l’uso che ne fa il
Pascoli costituisca un progresso verso la modernità rispetto allo
sperimentalismo carducciano – già un passo preliminare, quello, di sicura
rilevanza per il nostro.
Come parametro di confronto possiamo assumere, ad esempio, una famosa lirica di
Carducci intitolata “Alla stazione in una mattina d’autunno”. Quel componimento
vistosamente privo di rime, costituito da quartine anisosillabiche (quattro
versi di struttura metrica non uniforme fra loro: due doppi quinari, un
novenario, un decasillabo) sembrerebbe improntato a una flessibilità
strutturale già prossima alle consuetudini della poesia più moderna; così di
primo acchito; anche se poi, esaminando il testo più attentamente, ci si
accorge che nel rapporto fra le quartine stesse si delinea un preciso schema
simmetrico coerentemente rispettato dall’inizio alla fine della lirica.
Simmetrie liberamente suggerite dalla creatività del poeta? No, non ancora. Non
nel caso del Carducci. Prefiggendosi di ampliare e perfezionare i tentativi
sporadici che soprattutto Gabriello Chiabrera, nel Seicento, aveva già
intrapreso (del resto seguito un secolo dopo da altri minori come Giovanni
Fantoni e Paolo Rolli), Carducci non fa altro che ricalcare in questa sua
lirica il modello della strofe alcaica latina, riproducendo con buona
approssimazione, mediante una combinazione di versi italiani tradizionali, una
misura sillabica e un’accentazione grammaticale paragonabili alla sequenza
ritmico-quantitativa dei versi antichi. Altrove si cimenta con la quartina
della strofe saffica, resa in italiano con tre endecasillabi e un quinario; o
con la strofe alcmania, un distico costituito da un esametro dattilico e da un
tetrametro dattilico, che Carducci riprende in italiano allineando un
settenario e un novenario, o un novenario e un settenario. (Tipici i primi due
versi di Sogno d’estate: “Fra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre
sonanti/chinòmmisi il capo fra il sonno in riva di Scamandro…”) E Pascoli?
Certo non meno ferrato del Carducci sotto il profilo filologico, si discosta da
quest’ultimo poiché, assecondando le proprie diverse inclinazioni di artista
consapevole, sceglie di svincolarsi da quei modelli pur sempre troppo rigidi
privilegiati dal maestro. Li gradisce e li usa anche lui, occasionalmente, quei
metri barbari già abilmente coniati sui ritmi della classicità antica (oltre,
beninteso, ai soliti metri della versificazione italica tradizionale che il
nostro mantiene, ad esempio, in regolari strutture di soli endecasillabi in
terza rima, ecc.); ma, laddove li accoglie, tende ad assoggettarli a
posizionamenti più flessibili o, in altre parole, a risistemarli in
collocazioni più libere nell’ambito di nuove strutture di volta in volta
creativamente plasmate in base alle sue personali esigenze espressive.
Che cos’è allora che progettualmente si
sceglie Pascoli per questa via autonoma? In definitiva una propria disciplina
poetica. E perché parlo di disciplina? Perché le metodiche simmetrie
strutturali non vengono ancora accantonate: quelle conservano un loro valore
estetico progettuale anche nell’ambito dello sperimentalismo del primo tipo.
Ma, è questo il punto, diventano sempre più spesso varianti formali
contingenti, non più rigorosamente riferibili a prototipi precostituiti ed
obbligati. Qui le multiformi soluzioni stilistiche mutano in stretto rapporto
alle intime sollecitazioni emotive occasionali; eppure, a ben vedere, appaiono
parimenti ispirate ad un disegno unitario da perseguire in ogni caso. E’ questo
il principio etico/estetico essenzialmente implicito nel termine progettualità.
Passando dai versi di Myricae, a quelli dei Primi Poemetti, e dei Nuovi
Poemetti, o dei Poemi Conviviali (interessante — lo rilevavo già nel mio saggio
critico “Poeti e uomini a confronto” — la quasi coincidenza cronologica fra
questi poemetti e Myricae), o dei Poemi Italici di cui fa parte Paulo Ucello,
un vero gioiello non solo per il tono commosso nella raffigurazione del
protagonista, ma per l’abilità tecnico-filologica con cui il poeta aderisce
allo spirito e al linguaggio dell’epoca che vuole rievocare — ebbene, non fosse
che in questo arco di componimenti, osserverete quanta disparità di lessico,
quale varietà di taglio formale, quale versatilità del poetare nel meticoloso
adeguamento della forma ai contenuti. Opere tutte che, pur nella loro spiccata
diversificazione, rimangono inconfondibilmente attribuibili al medesimo
uomo-artista grazie alla puntuale presenza di analoghi stilemi – ossia di
procedimenti espressivi talmente caratteristici da rivelare in ogni caso la
mano di un unico autore. E soprattutto opere dalle quali l’anima di un solo
uomo pensante e senziente emerge sempre uguale a se stessa: un’anima
coerentemente guidata da un proprio credo filosofico: ora propensa a piangerne,
ora a gioirne, ora a meditare ed interrogarsi, conscia delle misteriose
ambiguità di cui è intessuto il nostro umano vivere e della necessità di
muoversi fra quegli enigmi esistenziali anche nell’ambito della poesia
destinata ad esprimerli. Un’anima in ogni caso alle prese con una particolare
Weltanschauung — visione del mondo. Sono sicuro che Sanguineti (mi riferisco al
suo intervento pubblico di circa un anno fa) abbia ragione di attribuire la
complessiva disgregazione del discorso poetico contemporaneo alla perdita di
questo genere di valore-guida. Quanto al peso specifico dell’ambiguità nella
poetica pascoliana, del resto in linea con i paradigmi del movimento simbolista
europeo, ricorderemo che, secondo il critico e poeta inglese contemporaneo
William Empson (autore di un celebre testo di critica letteraria già caro al
prof. Getto, peraltro grande estimatore del Pascoli), almeno sette sarebbero i
“tipi di ambiguità” che contraddistinguono il tessuto della poesia. Da questo
punto di vista, una lirica pascoliana come Digitale Purpurea (Primi Poemetti),
mi sembra meritevole di attenta analisi. Ma ve ne segnalo l’impianto
strutturale anche perché, insieme con altri testi in cui figurano inserti più o
meno estesi di dialogato dal sapore quasi teatrale (cfr. i Nuovi Poemetti in
particolare), questo componimento ci dà un’idea del debito non indifferente
verso il nostro da parte di un poeta italiano altrettanto abilmente innovativo,
Guido Gozzano: anch’egli uno sperimentalista del terzo tipo, cioè provvisto di
un’ampia progettualità artistica – e oggi, in prospettiva, punta di un iceberg
che nettamente emerge fra le onde di un crepuscolarismo cui diedero vita i
tantissimi epigoni pascoliani. Andiamo perciò a rileggerci Digitale Purpurea e
vedremo con quale mirabile sottigliezza procede il Pascoli per potersi
approssimare all’indicibile, e per dare voce enigmatica al rimosso: due filoni
importanti della sua indagine di ordine psicologico, questi, anche secondo le
osservazioni che figurano in un ottimo saggio — “Introduzione alla Lingua
Poetica Italiana”, Carocci Editore, Roma – di Luca Serianni, valentissimo
filologo contemporaneo, del quale poi vi dirò.
Mettiamo a fuoco con maggior precisione
il concetto di sperimentalismo: una parola dal significato controverso, questa,
che si è andata caricando di valenze sospette, se non del tutto negative, anche
a causa della sterilità intrinseca di alcune forme cervellotiche di scrittura
perseguite dalle prime Avanguardie del Novecento in particolare; e però già
propugnate, come si sa, con dichiarati diversi propositi di contestazione non
solo letteraria. Cadute le giustificazioni ideologiche di tempo in tempo più o
meno comprensibili, si può dire che perdurino fra noi forme di espressione
artistica che sembrerebbero voler denunciare ormai soltanto una sorta di
disfattismo masochistico dell’intellettuale. Per spiegarmi meglio mi rifarei ad
una interessante valutazione di Aldous Huxley, il quale (e in un saggio datato
1926!) già accusava la cinematografia americana di screditare incautamente la
civiltà occidentale raffigurandone sullo schermo, e in modo hollywoodianamente
iperrealistico, niente altro se non i peggiori risvolti: aspetti che, pur essendo
purtroppo anch’essi presenti a latere, non dovrebbero essere sottolineati come
i soli criteri di misura. Questo fenomeno di autodenigrazione agirebbe in
definitiva – specie nei confronti di popoli extraeuropei più arretrati ed
ignari — a scapito del buon nome della nostra cultura in genere, e delle
innegabili secolari conquiste che essa giustamente vanta in ogni campo dello
scibile umano…Così sosteneva Huxley; e quel suo giudizio, per logica
concatenazione di idee, induce a voler meditare sull’esito similmente nefasto
ed autolesionistico di certe bizzarre esperienze d’arte dure a morire anche sul
nostro continente ormai; le quali, proponendosi di volta in volta come fedele
rispecchiamento sempre più aggiornato di un imbarbarimento universale dato per
dilagante e inarrestabile, si votano in realtà anche ad un proprio implicito
tracollo in quel contesto: la sconfitta essendo determinata da un compiacimento
che, in quanto oltraggio alla cultura di appartenenza, sa di paradossale
rinuncia volontaria anche all’autostima da parte dell’artista. Di pari passo,
tramandandosi da un’avanguardia letteraria all’altra con spirito sempre più
involutivo nel senso suddetto, la stessa parola “sperimentalismo” tende
purtroppo a denotare oggi come oggi quasi esclusivamente un insieme di
soluzioni tecnicistiche “d’effetto”, operate a capriccio in superficie: in
altri termini, suggerisce soprattutto un fenomeno di arbitraria manipolazione
degli aspetti esteriori dell’espressione artistica, della pura veste formale
considerata come variabile indipendente. E la poesia si presta in special modo
a questo genere di interpretazione, perlomeno da che un’accanita caccia al
vocabolo più originale – al nudo significante in sé, contro ogni istanza
semantica della parola — si è andata costituendo come vero e proprio totem
della modernità. Fino a che punto è invece errata, ingiustamente riduttiva,
questa accezione ormai pressoché univoca del termine “sperimentalismo”?
Torniamo per un attimo a Carducci. Da quanto si era detto poc’anzi, sembrava quasi che volessimo ridurre il suo genere di sperimentalismo ad una patina monodimensionale. No. Troppo spesso si liquida questo poeta come tronfio cattedratico perlopiù intento a dare prova della sua dottrina anche in qualità di versificatore. Ma è solo così? La sua personale visione del mondo potrebbe forse giudicarsi ai giorni nostri meno coinvolgente, meno commovente, meno “umanamente” vicina rispetto a quella di un Pascoli, eppure esiste; e informa tutta la sua opera, e ne traspare anche quando lo sperimentalismo del primo tipo sembrerebbe prendergli la mano. Propendo a credere che gli interventi carducciani sulla forma rispecchino tutt’altro che le semplici velleità di un erudito desideroso di mostrarsi tale al più alto livello; li direi piuttosto frutto dell’amore istintivo per quella versificazione greco-latina al cui fascino estetico un vero umanista pari suo non riusciva a restare insensibile. Intendo quel fascino ritmico-musicale che si esercitava attraverso una lettura rigorosamente metrica dei testi classici dell’antichità: lettura in altro modo ritenuta dai docenti liceali ed universitari assolutamente inaccettabile, anzi impensabile. E, dopotutto, l’impulso emulativo non è forse il primo motore per ogni artista? A mio parere, l’estetica carducciana può quindi reputarsi innervata in forti motivazioni affettive in questo senso. Ma se le ragioni ultime del suo orientamento sono pur sempre congetture non meglio verificabili, difficilmente si potrebbero avanzare teorie opinabili nel caso dello sperimentalismo pascoliano. Questo lo si può tranquillamente affermare seguendo un processo di dimostrazione per assurdo. Sappiamo, cioè, con sicurezza – e a scuola non ce lo avevano forse ribadito ad nauseam, fino a renderci l’argomento persino antipatico? – che l’elemento centrale nella poesia del Pascoli è il “cuore”, ossia quel sentimento traboccante che le sue liriche quasi ovunque rivelano: un genuino travaglio interiore purtroppo sovente frainteso, dai critici meno avveduti equiparato ad una sorta di querulo sentimentalismo femmineo. (Per questo luogo comune, un parallelo con la fortuna critica di Federico Chopin mi è sempre venuto spontaneo.) Ebbene, dicevo, questa semplice base di partenza, sulla quale a stento negheremmo di trovarci concordi, in qualche modo ci permette di escludere a priori che i vari esperimenti formali cari al Pascoli non fossero sempre intimamente legati a particolari necessità espressive ben lontane da qualunque eventuale tentazione di esibizionismo accademico-intellettualistico. Chissà però se, mancando il piglio di un battistrada determinato come Carducci nell’aprire nuovi sbocchi alle modalità di versificazione, il nostro si sarebbe sentito autorizzato ad innovare la forma poetica con altrettanto coraggio? E chissà fino a che punto altri, dopo di lui – e non penso solo a Gozzano, ma direi un po’ a tutti quanti i maggiori poeti italiani fino ai giorni nostri: quelli autentici, quelli essenziali in quanto animati da qualche progettualità comprensiva di un’intrinseca eticità da voler trasmettere (e nel concetto di eticità non farei rientrare soltanto i messaggi cosiddetti positivi, ma anche quelli di matrice leopardiano-montaliana che, trascendendo gli stereotipi del solipsismo lirico-confessionale, spronano il lettore a ragionare in molteplici direzioni sulle umane cose) – quanti altri di questi poeti, dico, avrebbero osato tentare percorsi sempre meno soggetti a canoni di scrittura via via isteriliti nel tempo? Chissà. L’ultima silloge poetica di Mario Luzi è intitolata “Parlate” – non verbo, sostantivo. Curioso titolo, ma calzante poiché rispecchia il taglio volutamente “discorsivo” che caratterizza l’insieme di queste liriche. Vi invito a volerla esaminare con questa particolare consapevolezza. Se Gozzano guardava a Pascoli, questo ultimo Luzi non mi pare possa dirsi estraneo a certe evoluzioni stilistiche presenti nell’aria – quantomeno la migliore aria di casa nostra — da Pascoli in poi.
Torniamo per un attimo a Carducci. Da quanto si era detto poc’anzi, sembrava quasi che volessimo ridurre il suo genere di sperimentalismo ad una patina monodimensionale. No. Troppo spesso si liquida questo poeta come tronfio cattedratico perlopiù intento a dare prova della sua dottrina anche in qualità di versificatore. Ma è solo così? La sua personale visione del mondo potrebbe forse giudicarsi ai giorni nostri meno coinvolgente, meno commovente, meno “umanamente” vicina rispetto a quella di un Pascoli, eppure esiste; e informa tutta la sua opera, e ne traspare anche quando lo sperimentalismo del primo tipo sembrerebbe prendergli la mano. Propendo a credere che gli interventi carducciani sulla forma rispecchino tutt’altro che le semplici velleità di un erudito desideroso di mostrarsi tale al più alto livello; li direi piuttosto frutto dell’amore istintivo per quella versificazione greco-latina al cui fascino estetico un vero umanista pari suo non riusciva a restare insensibile. Intendo quel fascino ritmico-musicale che si esercitava attraverso una lettura rigorosamente metrica dei testi classici dell’antichità: lettura in altro modo ritenuta dai docenti liceali ed universitari assolutamente inaccettabile, anzi impensabile. E, dopotutto, l’impulso emulativo non è forse il primo motore per ogni artista? A mio parere, l’estetica carducciana può quindi reputarsi innervata in forti motivazioni affettive in questo senso. Ma se le ragioni ultime del suo orientamento sono pur sempre congetture non meglio verificabili, difficilmente si potrebbero avanzare teorie opinabili nel caso dello sperimentalismo pascoliano. Questo lo si può tranquillamente affermare seguendo un processo di dimostrazione per assurdo. Sappiamo, cioè, con sicurezza – e a scuola non ce lo avevano forse ribadito ad nauseam, fino a renderci l’argomento persino antipatico? – che l’elemento centrale nella poesia del Pascoli è il “cuore”, ossia quel sentimento traboccante che le sue liriche quasi ovunque rivelano: un genuino travaglio interiore purtroppo sovente frainteso, dai critici meno avveduti equiparato ad una sorta di querulo sentimentalismo femmineo. (Per questo luogo comune, un parallelo con la fortuna critica di Federico Chopin mi è sempre venuto spontaneo.) Ebbene, dicevo, questa semplice base di partenza, sulla quale a stento negheremmo di trovarci concordi, in qualche modo ci permette di escludere a priori che i vari esperimenti formali cari al Pascoli non fossero sempre intimamente legati a particolari necessità espressive ben lontane da qualunque eventuale tentazione di esibizionismo accademico-intellettualistico. Chissà però se, mancando il piglio di un battistrada determinato come Carducci nell’aprire nuovi sbocchi alle modalità di versificazione, il nostro si sarebbe sentito autorizzato ad innovare la forma poetica con altrettanto coraggio? E chissà fino a che punto altri, dopo di lui – e non penso solo a Gozzano, ma direi un po’ a tutti quanti i maggiori poeti italiani fino ai giorni nostri: quelli autentici, quelli essenziali in quanto animati da qualche progettualità comprensiva di un’intrinseca eticità da voler trasmettere (e nel concetto di eticità non farei rientrare soltanto i messaggi cosiddetti positivi, ma anche quelli di matrice leopardiano-montaliana che, trascendendo gli stereotipi del solipsismo lirico-confessionale, spronano il lettore a ragionare in molteplici direzioni sulle umane cose) – quanti altri di questi poeti, dico, avrebbero osato tentare percorsi sempre meno soggetti a canoni di scrittura via via isteriliti nel tempo? Chissà. L’ultima silloge poetica di Mario Luzi è intitolata “Parlate” – non verbo, sostantivo. Curioso titolo, ma calzante poiché rispecchia il taglio volutamente “discorsivo” che caratterizza l’insieme di queste liriche. Vi invito a volerla esaminare con questa particolare consapevolezza. Se Gozzano guardava a Pascoli, questo ultimo Luzi non mi pare possa dirsi estraneo a certe evoluzioni stilistiche presenti nell’aria – quantomeno la migliore aria di casa nostra — da Pascoli in poi.
Tornando al taglio complessivamente
“leggero” dei Nuovi Poemetti, è indubbio che la relativa significanza poetica
si ridurrebbe notevolmente qualora non la si inscrivesse nel corpus pascoliano
integralmente visualizzato. Le delimitazioni, per quanto necessarie a scopo di
analisi, penalizzano purtroppo la comprensione della progettualità di uno
scrittore; la quale, quando esiste — ed è imponente come in questo caso — si
traduce in uno sforzo creativo concettualmente unitario pur nelle sue
caleidoscopiche raffigurazioni. Di qui un’indispensabile visione globale
dell’opera (di cui giustamente parla anche il famoso scrittore austriaco Arthur
Schnitzler, elencandola fra gli strumenti essenziali di ogni buon critico
letterario) che ogni autore oggetto di critica, specie se così impegnato, ha il
sacrosanto diritto di rivendicare. E tuttavia piena giustizia al Pascoli poeta
non può essere resa solo in questo modo; né soltanto inquadrandone l’opera nel
preciso contesto storico-letterario da cui essa trae la sua linfa, come di
norma va sempre fatto. In questo caso, non basta — no. Lo sperimentalismo del
nostro dovendosi considerare l’esito maturo di un lungo processo evolutivo
all’interno della lingua poetica italiana, è un fenomeno che andrebbe studiato
anche e forse soprattutto in questa prospettiva molto meno circoscritta. Cioè,
attraverso le ricerche filologiche più serie, occorrerebbe verificare quanti e
quali siano stati con precisione i percorsi anteriori e in che cosa sia
consistito di volta in volta il superamento delle singole tappe. Quindi noi,
non solo da critici portati a voler comprendere le specificità dello
sperimentalismo letterario pascoliano – ma da critici “pro domo nostra”, per
così dire, ossia da potenziali creatori di nuova poesia, auspicabilmente
desiderosi di conoscere fino in fondo il già realizzato nel tempo e con quali
risultati — non dovremmo esimerci dal ricorrere anche a questo genere di
sussidio documentale. Penso, in particolare, che il già menzionato saggio di
Luca Serianni (accademico della Crusca, docente di storia della lingua italiana
presso l’ateneo La Sapienza di Roma, direttore della rivista Studi Linguistici
Italiani…) possa ritenersi un prezioso vademecum. Ve lo consiglio vivamente; e,
se lo consulterete, a pag. 41 di quel libro vorrei che non vi sfuggisse il
brano in cui il saggista ricorda le significative “professioni di fede”
enunciate da tre distinte grandi voci poetiche italiane fra Ottocento e
Novecento: Carducci, D’annunzio e, appunto, Pascoli. Possiamo però leggerla già
subito, in diretta e nella sua compiutezza, la professione di fede del nostro,
come a lui piacque elaborarla metaforicamente in una lunga lirica – “La Poesia”
– di carattere metapoetico, essendo poesia che riflette su se stessa: in questo
caso sui valori umani che essa intende perseguire, e che qui ci vengono
illustrati in frangenti esistenziali variamente rappresentativi in rapporto,
diremmo, alla seria progettualità di uno sperimentalista sorretto da una chiara
coscienza della propria impresa. Alla luce delle finalità etiche delineateci
dall’autore in questa sorta di testamento spirituale, io credo si possa anche
ravvisare meglio la funzione di quei “Nuovi Poemetti” che altrimenti, come
suggerivo, rischierebbero di essere scambiati per semplici divertissements:
futili “poesiole” non proprio all’altezza di un gigante come il nostro.
“Cantando”: così, con il gerundio di un
verbo determinante nel fare poesia, Pascoli conclude questa sua prismatica
poiesis. E a me, per associazione istintiva, non so se arbitraria, quel modo
infinitivo richiama una progettualità in itinere ispirata ad un’altra visione
del mondo, senza dubbio molto diversa, lontana anni luce da quella del nostro
“fanciullino” romagnolo, ma stranamente bisognosa di esprimersi in termini
quasi analoghi e con paragonabile passione. Penso a Così parlò Zarathustra,
dove il Nietzsche filosofo-poeta fa dire al protagonista del suo celebre poema:
“Cantare, cantare è la mia convalescenza…e voi vorreste farne una canzone da
organetto?” Entrambi gli scrittori, a modo loro, sembrano suggerire una
medesima cosa: che la vera poesia è voce che sgorga dallo spirito della vita e
in esso rifluisce; che questo genere di poesia, di là da ogni eventuale
apparenza contraria, non è mai semplice motivetto orecchiabile, e in ogni caso
rifiuta di farsi considerare canto fine a se stesso. E tuttavia quella musica
(elemento dionisiaco-passionale) scaturisce per il poeta da un dettato
interiore che, purtroppo, per estrinsecarsi, deve scendere a patti con la
parola, strumento di natura apollinea, difficilmente costretto a combaciare con
l’irrazionale, o meglio il metarazionale, insito nelle emozioni – difficilmente
senza qualche scarto, qualche incidente di percorso. Il destino del
poeta-musico è quindi un cammino accidentato, arduo come quello che si snoda
lungo sentieri di montagna scivolosi e perennemente in salita. Chiuderemo
questo incontro ricordando perciò una notissima lirica in cui Pascoli ci parla
con il cuore non solo di questo faticoso salire, ma anche dell’umiltà con la
quale è sempre necessario intraprendere qualunque “missione”: e che il nostro
guardi fiduciosamente alla propria arte come a una missione, ce lo indicano con
una metafora emblematica proprio i versi conclusivi di quest’altra celeberrima
lirica che vi invito a rileggere: “La Piccozza”. Dopo di che non
dimentichiamoci di questo duplice messaggio etico – disciplina, mai facile, e
doverosa modestia — che anche qui ci viene rivolto sulle ali del “belcanto”
pascoliano a voce spiegata: un “poetar cantando”, Il suo, che può dirsi musica
vera in quanto entità ritmico-sonora non meramente virtuosistica, ma intessuta
di pensiero passato al vaglio dei più profondi, sublimi sentimenti: ovvero una
scelta estetica abbracciata con sofferta consapevolezza — tutt’altro, per
l’appunto, che una vuota “canzone da organetto”. In un’epoca come la nostra,
beato chi riesce ancora a comprenderle queste grandi lezioni! E a farne tesoro.
Roberto Vittorio Di Pietro
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