POETANDO

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mercoledì, febbraio 1

Funzione dello sperimentalismo nella poetica pascoliana (una conferenza riproposta in nuce) di Roberto Vittorio Di Pietro

Funzione dello sperimentalismo nella poetica pascoliana di Roberto Vittorio Di Pietro 
( una conferenza riproposta in nuce )

In poesia, la scrittura sperimentale può ritenersi riconducibile a tre categorie di massima:
l. sperimentalismo di un primo tipo: interventi innovativi rivolti alla struttura del testo (modalità di versificazione più duttili rispetto agli istituti metrici della tradizione);
2. sperimentalismo di un secondo tipo: innovazione degli strumenti linguistici (scelte lessicali inconsuete rispetto alle norme della lingua poetica tradizionale, commistione di generi, invenzione di stilemi personali sotto forma di costrutti sintattico-grammaticali caratterizzanti);
3. sperimentalismo di un terzo tipo: rinnovamento in profondità del discorso poetico in quanto veicolo di una determinata “ visione del mondo “. Su questa base di natura “filosofica”, in buona parte anche connessa alla temperie storico-sociale ai cui stimoli contingenti l’arte genuina non può né desidera sottrarsi, si sviluppano le cosiddette correnti letterarie; in questo ambito poeti diversi risultano più o meno convenzionalmente accomunabili, pur restando ben distinti nella loro individuale specificità — o nella loro singolare progettualità, si direbbe. (Benedetto Croce, con altre parole, amava sottolineare quest’ultimo aspetto.)

E’ evidente che i primi due tipi di innovazione riguardano la forma del testo poetico, i suoi connotati esteriori; anche se – occorrerebbe riflettere su questo dato di fatto – non vi è artista genuino e memorabile per il quale non siano stati, dopotutto, gli impulsi innovativi del terzo tipo ad influire decisivamente sugli orientamenti sperimentalistici a livello formale. Il Pascoli, poeta profondamente motivato da una propria filosofia esistenziale, appartiene senza dubbio alla categoria degli sperimentalisti del terzo tipo, indotti ad agire anche sugli altri due versanti della scrittura in funzione di un determinato pensiero-messaggio da affidarsi con potenziata incisività ai fantasiosi strumenti dell’arte.
L’uso pascoliano del vernacolo di Castelvecchio rispecchia alcuni elementi di quello che qui abbiamo chiamato sperimentalismo del secondo tipo. Nel contesto del mio ampio studio dedicato alla funzione del fonosimbolismo nella scrittura poetica, vengono citati sufficienti esempi significativi di varianti introdotte qua e là dal Pascoli nella struttura del verso inteso come unità metrico-ritmica. Tali modelli si trovano perlopiù analizzati sotto la voce anisosillabismo nella prima sezione di quel saggio, e ai medesimi mi limito a rimandarvi. In questa prospettiva, però, dopo avervi ricordato che l’anisosillabismo era in realtà fenomeno consueto nella poesia delle origini e che, come tale, potrebbe considerarsi semmai un recupero più che una vera e propria innovazione (ma quale artista non attinse al preesistente con propositi innovativi?), desidererei farvi osservare in che modo l’uso che ne fa il Pascoli costituisca un progresso verso la modernità rispetto allo sperimentalismo carducciano – già un passo preliminare, quello, di sicura rilevanza per il nostro.
Come parametro di confronto possiamo assumere, ad esempio, una famosa lirica di Carducci intitolata “Alla stazione in una mattina d’autunno”. Quel componimento vistosamente privo di rime, costituito da quartine anisosillabiche (quattro versi di struttura metrica non uniforme fra loro: due doppi quinari, un novenario, un decasillabo) sembrerebbe improntato a una flessibilità strutturale già prossima alle consuetudini della poesia più moderna; così di primo acchito; anche se poi, esaminando il testo più attentamente, ci si accorge che nel rapporto fra le quartine stesse si delinea un preciso schema simmetrico coerentemente rispettato dall’inizio alla fine della lirica. Simmetrie liberamente suggerite dalla creatività del poeta? No, non ancora. Non nel caso del Carducci. Prefiggendosi di ampliare e perfezionare i tentativi sporadici che soprattutto Gabriello Chiabrera, nel Seicento, aveva già intrapreso (del resto seguito un secolo dopo da altri minori come Giovanni Fantoni e Paolo Rolli), Carducci non fa altro che ricalcare in questa sua lirica il modello della strofe alcaica latina, riproducendo con buona approssimazione, mediante una combinazione di versi italiani tradizionali, una misura sillabica e un’accentazione grammaticale paragonabili alla sequenza ritmico-quantitativa dei versi antichi. Altrove si cimenta con la quartina della strofe saffica, resa in italiano con tre endecasillabi e un quinario; o con la strofe alcmania, un distico costituito da un esametro dattilico e da un tetrametro dattilico, che Carducci riprende in italiano allineando un settenario e un novenario, o un novenario e un settenario. (Tipici i primi due versi di Sogno d’estate: “Fra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti/chinòmmisi il capo fra il sonno in riva di Scamandro…”) E Pascoli? Certo non meno ferrato del Carducci sotto il profilo filologico, si discosta da quest’ultimo poiché, assecondando le proprie diverse inclinazioni di artista consapevole, sceglie di svincolarsi da quei modelli pur sempre troppo rigidi privilegiati dal maestro. Li gradisce e li usa anche lui, occasionalmente, quei metri barbari già abilmente coniati sui ritmi della classicità antica (oltre, beninteso, ai soliti metri della versificazione italica tradizionale che il nostro mantiene, ad esempio, in regolari strutture di soli endecasillabi in terza rima, ecc.); ma, laddove li accoglie, tende ad assoggettarli a posizionamenti più flessibili o, in altre parole, a risistemarli in collocazioni più libere nell’ambito di nuove strutture di volta in volta creativamente plasmate in base alle sue personali esigenze espressive.

Che cos’è allora che progettualmente si sceglie Pascoli per questa via autonoma? In definitiva una propria disciplina poetica. E perché parlo di disciplina? Perché le metodiche simmetrie strutturali non vengono ancora accantonate: quelle conservano un loro valore estetico progettuale anche nell’ambito dello sperimentalismo del primo tipo. Ma, è questo il punto, diventano sempre più spesso varianti formali contingenti, non più rigorosamente riferibili a prototipi precostituiti ed obbligati. Qui le multiformi soluzioni stilistiche mutano in stretto rapporto alle intime sollecitazioni emotive occasionali; eppure, a ben vedere, appaiono parimenti ispirate ad un disegno unitario da perseguire in ogni caso. E’ questo il principio etico/estetico essenzialmente implicito nel termine progettualità. Passando dai versi di Myricae, a quelli dei Primi Poemetti, e dei Nuovi Poemetti, o dei Poemi Conviviali (interessante — lo rilevavo già nel mio saggio critico “Poeti e uomini a confronto” — la quasi coincidenza cronologica fra questi poemetti e Myricae), o dei Poemi Italici di cui fa parte Paulo Ucello, un vero gioiello non solo per il tono commosso nella raffigurazione del protagonista, ma per l’abilità tecnico-filologica con cui il poeta aderisce allo spirito e al linguaggio dell’epoca che vuole rievocare — ebbene, non fosse che in questo arco di componimenti, osserverete quanta disparità di lessico, quale varietà di taglio formale, quale versatilità del poetare nel meticoloso adeguamento della forma ai contenuti. Opere tutte che, pur nella loro spiccata diversificazione, rimangono inconfondibilmente attribuibili al medesimo uomo-artista grazie alla puntuale presenza di analoghi stilemi – ossia di procedimenti espressivi talmente caratteristici da rivelare in ogni caso la mano di un unico autore. E soprattutto opere dalle quali l’anima di un solo uomo pensante e senziente emerge sempre uguale a se stessa: un’anima coerentemente guidata da un proprio credo filosofico: ora propensa a piangerne, ora a gioirne, ora a meditare ed interrogarsi, conscia delle misteriose ambiguità di cui è intessuto il nostro umano vivere e della necessità di muoversi fra quegli enigmi esistenziali anche nell’ambito della poesia destinata ad esprimerli. Un’anima in ogni caso alle prese con una particolare Weltanschauung — visione del mondo. Sono sicuro che Sanguineti (mi riferisco al suo intervento pubblico di circa un anno fa) abbia ragione di attribuire la complessiva disgregazione del discorso poetico contemporaneo alla perdita di questo genere di valore-guida. Quanto al peso specifico dell’ambiguità nella poetica pascoliana, del resto in linea con i paradigmi del movimento simbolista europeo, ricorderemo che, secondo il critico e poeta inglese contemporaneo William Empson (autore di un celebre testo di critica letteraria già caro al prof. Getto, peraltro grande estimatore del Pascoli), almeno sette sarebbero i “tipi di ambiguità” che contraddistinguono il tessuto della poesia. Da questo punto di vista, una lirica pascoliana come Digitale Purpurea (Primi Poemetti), mi sembra meritevole di attenta analisi. Ma ve ne segnalo l’impianto strutturale anche perché, insieme con altri testi in cui figurano inserti più o meno estesi di dialogato dal sapore quasi teatrale (cfr. i Nuovi Poemetti in particolare), questo componimento ci dà un’idea del debito non indifferente verso il nostro da parte di un poeta italiano altrettanto abilmente innovativo, Guido Gozzano: anch’egli uno sperimentalista del terzo tipo, cioè provvisto di un’ampia progettualità artistica – e oggi, in prospettiva, punta di un iceberg che nettamente emerge fra le onde di un crepuscolarismo cui diedero vita i tantissimi epigoni pascoliani. Andiamo perciò a rileggerci Digitale Purpurea e vedremo con quale mirabile sottigliezza procede il Pascoli per potersi approssimare all’indicibile, e per dare voce enigmatica al rimosso: due filoni importanti della sua indagine di ordine psicologico, questi, anche secondo le osservazioni che figurano in un ottimo saggio — “Introduzione alla Lingua Poetica Italiana”, Carocci Editore, Roma – di Luca Serianni, valentissimo filologo contemporaneo, del quale poi vi dirò.
Mettiamo a fuoco con maggior precisione il concetto di sperimentalismo: una parola dal significato controverso, questa, che si è andata caricando di valenze sospette, se non del tutto negative, anche a causa della sterilità intrinseca di alcune forme cervellotiche di scrittura perseguite dalle prime Avanguardie del Novecento in particolare; e però già propugnate, come si sa, con dichiarati diversi propositi di contestazione non solo letteraria. Cadute le giustificazioni ideologiche di tempo in tempo più o meno comprensibili, si può dire che perdurino fra noi forme di espressione artistica che sembrerebbero voler denunciare ormai soltanto una sorta di disfattismo masochistico dell’intellettuale. Per spiegarmi meglio mi rifarei ad una interessante valutazione di Aldous Huxley, il quale (e in un saggio datato 1926!) già accusava la cinematografia americana di screditare incautamente la civiltà occidentale raffigurandone sullo schermo, e in modo hollywoodianamente iperrealistico, niente altro se non i peggiori risvolti: aspetti che, pur essendo purtroppo anch’essi presenti a latere, non dovrebbero essere sottolineati come i soli criteri di misura. Questo fenomeno di autodenigrazione agirebbe in definitiva – specie nei confronti di popoli extraeuropei più arretrati ed ignari — a scapito del buon nome della nostra cultura in genere, e delle innegabili secolari conquiste che essa giustamente vanta in ogni campo dello scibile umano…Così sosteneva Huxley; e quel suo giudizio, per logica concatenazione di idee, induce a voler meditare sull’esito similmente nefasto ed autolesionistico di certe bizzarre esperienze d’arte dure a morire anche sul nostro continente ormai; le quali, proponendosi di volta in volta come fedele rispecchiamento sempre più aggiornato di un imbarbarimento universale dato per dilagante e inarrestabile, si votano in realtà anche ad un proprio implicito tracollo in quel contesto: la sconfitta essendo determinata da un compiacimento che, in quanto oltraggio alla cultura di appartenenza, sa di paradossale rinuncia volontaria anche all’autostima da parte dell’artista. Di pari passo, tramandandosi da un’avanguardia letteraria all’altra con spirito sempre più involutivo nel senso suddetto, la stessa parola “sperimentalismo” tende purtroppo a denotare oggi come oggi quasi esclusivamente un insieme di soluzioni tecnicistiche “d’effetto”, operate a capriccio in superficie: in altri termini, suggerisce soprattutto un fenomeno di arbitraria manipolazione degli aspetti esteriori dell’espressione artistica, della pura veste formale considerata come variabile indipendente. E la poesia si presta in special modo a questo genere di interpretazione, perlomeno da che un’accanita caccia al vocabolo più originale – al nudo significante in sé, contro ogni istanza semantica della parola — si è andata costituendo come vero e proprio totem della modernità. Fino a che punto è invece errata, ingiustamente riduttiva, questa accezione ormai pressoché univoca del termine “sperimentalismo”?
Torniamo per un attimo a Carducci. Da quanto si era detto poc’anzi, sembrava quasi che volessimo ridurre il suo genere di sperimentalismo ad una patina monodimensionale. No. Troppo spesso si liquida questo poeta come tronfio cattedratico perlopiù intento a dare prova della sua dottrina anche in qualità di versificatore. Ma è solo così? La sua personale visione del mondo potrebbe forse giudicarsi ai giorni nostri meno coinvolgente, meno commovente, meno “umanamente” vicina rispetto a quella di un Pascoli, eppure esiste; e informa tutta la sua opera, e ne traspare anche quando lo sperimentalismo del primo tipo sembrerebbe prendergli la mano. Propendo a credere che gli interventi carducciani sulla forma rispecchino tutt’altro che le semplici velleità di un erudito desideroso di mostrarsi tale al più alto livello; li direi piuttosto frutto dell’amore istintivo per quella versificazione greco-latina al cui fascino estetico un vero umanista pari suo non riusciva a restare insensibile. Intendo quel fascino ritmico-musicale che si esercitava attraverso una lettura rigorosamente metrica dei testi classici dell’antichità: lettura in altro modo ritenuta dai docenti liceali ed universitari assolutamente inaccettabile, anzi impensabile. E, dopotutto, l’impulso emulativo non è forse il primo motore per ogni artista? A mio parere, l’estetica carducciana può quindi reputarsi innervata in forti motivazioni affettive in questo senso. Ma se le ragioni ultime del suo orientamento sono pur sempre congetture non meglio verificabili, difficilmente si potrebbero avanzare teorie opinabili nel caso dello sperimentalismo pascoliano. Questo lo si può tranquillamente affermare seguendo un processo di dimostrazione per assurdo. Sappiamo, cioè, con sicurezza – e a scuola non ce lo avevano forse ribadito ad nauseam, fino a renderci l’argomento persino antipatico? – che l’elemento centrale nella poesia del Pascoli è il “cuore”, ossia quel sentimento traboccante che le sue liriche quasi ovunque rivelano: un genuino travaglio interiore purtroppo sovente frainteso, dai critici meno avveduti equiparato ad una sorta di querulo sentimentalismo femmineo. (Per questo luogo comune, un parallelo con la fortuna critica di Federico Chopin mi è sempre venuto spontaneo.) Ebbene, dicevo, questa semplice base di partenza, sulla quale a stento negheremmo di trovarci concordi, in qualche modo ci permette di escludere a priori che i vari esperimenti formali cari al Pascoli non fossero sempre intimamente legati a particolari necessità espressive ben lontane da qualunque eventuale tentazione di esibizionismo accademico-intellettualistico. Chissà però se, mancando il piglio di un battistrada determinato come Carducci nell’aprire nuovi sbocchi alle modalità di versificazione, il nostro si sarebbe sentito autorizzato ad innovare la forma poetica con altrettanto coraggio? E chissà fino a che punto altri, dopo di lui – e non penso solo a Gozzano, ma direi un po’ a tutti quanti i maggiori poeti italiani fino ai giorni nostri: quelli autentici, quelli essenziali in quanto animati da qualche progettualità comprensiva di un’intrinseca eticità da voler trasmettere (e nel concetto di eticità non farei rientrare soltanto i messaggi cosiddetti positivi, ma anche quelli di matrice leopardiano-montaliana che, trascendendo gli stereotipi del solipsismo lirico-confessionale, spronano il lettore a ragionare in molteplici direzioni sulle umane cose) – quanti altri di questi poeti, dico, avrebbero osato tentare percorsi sempre meno soggetti a canoni di scrittura via via isteriliti nel tempo? Chissà. L’ultima silloge poetica di Mario Luzi è intitolata “Parlate” – non verbo, sostantivo. Curioso titolo, ma calzante poiché rispecchia il taglio volutamente “discorsivo” che caratterizza l’insieme di queste liriche. Vi invito a volerla esaminare con questa particolare consapevolezza. Se Gozzano guardava a Pascoli, questo ultimo Luzi non mi pare possa dirsi estraneo a certe evoluzioni stilistiche presenti nell’aria – quantomeno la migliore aria di casa nostra — da Pascoli in poi.
Tornando al taglio complessivamente “leggero” dei Nuovi Poemetti, è indubbio che la relativa significanza poetica si ridurrebbe notevolmente qualora non la si inscrivesse nel corpus pascoliano integralmente visualizzato. Le delimitazioni, per quanto necessarie a scopo di analisi, penalizzano purtroppo la comprensione della progettualità di uno scrittore; la quale, quando esiste — ed è imponente come in questo caso — si traduce in uno sforzo creativo concettualmente unitario pur nelle sue caleidoscopiche raffigurazioni. Di qui un’indispensabile visione globale dell’opera (di cui giustamente parla anche il famoso scrittore austriaco Arthur Schnitzler, elencandola fra gli strumenti essenziali di ogni buon critico letterario) che ogni autore oggetto di critica, specie se così impegnato, ha il sacrosanto diritto di rivendicare. E tuttavia piena giustizia al Pascoli poeta non può essere resa solo in questo modo; né soltanto inquadrandone l’opera nel preciso contesto storico-letterario da cui essa trae la sua linfa, come di norma va sempre fatto. In questo caso, non basta — no. Lo sperimentalismo del nostro dovendosi considerare l’esito maturo di un lungo processo evolutivo all’interno della lingua poetica italiana, è un fenomeno che andrebbe studiato anche e forse soprattutto in questa prospettiva molto meno circoscritta. Cioè, attraverso le ricerche filologiche più serie, occorrerebbe verificare quanti e quali siano stati con precisione i percorsi anteriori e in che cosa sia consistito di volta in volta il superamento delle singole tappe. Quindi noi, non solo da critici portati a voler comprendere le specificità dello sperimentalismo letterario pascoliano – ma da critici “pro domo nostra”, per così dire, ossia da potenziali creatori di nuova poesia, auspicabilmente desiderosi di conoscere fino in fondo il già realizzato nel tempo e con quali risultati — non dovremmo esimerci dal ricorrere anche a questo genere di sussidio documentale. Penso, in particolare, che il già menzionato saggio di Luca Serianni (accademico della Crusca, docente di storia della lingua italiana presso l’ateneo La Sapienza di Roma, direttore della rivista Studi Linguistici Italiani…) possa ritenersi un prezioso vademecum. Ve lo consiglio vivamente; e, se lo consulterete, a pag. 41 di quel libro vorrei che non vi sfuggisse il brano in cui il saggista ricorda le significative “professioni di fede” enunciate da tre distinte grandi voci poetiche italiane fra Ottocento e Novecento: Carducci, D’annunzio e, appunto, Pascoli. Possiamo però leggerla già subito, in diretta e nella sua compiutezza, la professione di fede del nostro, come a lui piacque elaborarla metaforicamente in una lunga lirica – “La Poesia” – di carattere metapoetico, essendo poesia che riflette su se stessa: in questo caso sui valori umani che essa intende perseguire, e che qui ci vengono illustrati in frangenti esistenziali variamente rappresentativi in rapporto, diremmo, alla seria progettualità di uno sperimentalista sorretto da una chiara coscienza della propria impresa. Alla luce delle finalità etiche delineateci dall’autore in questa sorta di testamento spirituale, io credo si possa anche ravvisare meglio la funzione di quei “Nuovi Poemetti” che altrimenti, come suggerivo, rischierebbero di essere scambiati per semplici divertissements: futili “poesiole” non proprio all’altezza di un gigante come il nostro.
“Cantando”: così, con il gerundio di un verbo determinante nel fare poesia, Pascoli conclude questa sua prismatica poiesis. E a me, per associazione istintiva, non so se arbitraria, quel modo infinitivo richiama una progettualità in itinere ispirata ad un’altra visione del mondo, senza dubbio molto diversa, lontana anni luce da quella del nostro “fanciullino” romagnolo, ma stranamente bisognosa di esprimersi in termini quasi analoghi e con paragonabile passione. Penso a Così parlò Zarathustra, dove il Nietzsche filosofo-poeta fa dire al protagonista del suo celebre poema: “Cantare, cantare è la mia convalescenza…e voi vorreste farne una canzone da organetto?” Entrambi gli scrittori, a modo loro, sembrano suggerire una medesima cosa: che la vera poesia è voce che sgorga dallo spirito della vita e in esso rifluisce; che questo genere di poesia, di là da ogni eventuale apparenza contraria, non è mai semplice motivetto orecchiabile, e in ogni caso rifiuta di farsi considerare canto fine a se stesso. E tuttavia quella musica (elemento dionisiaco-passionale) scaturisce per il poeta da un dettato interiore che, purtroppo, per estrinsecarsi, deve scendere a patti con la parola, strumento di natura apollinea, difficilmente costretto a combaciare con l’irrazionale, o meglio il metarazionale, insito nelle emozioni – difficilmente senza qualche scarto, qualche incidente di percorso. Il destino del poeta-musico è quindi un cammino accidentato, arduo come quello che si snoda lungo sentieri di montagna scivolosi e perennemente in salita. Chiuderemo questo incontro ricordando perciò una notissima lirica in cui Pascoli ci parla con il cuore non solo di questo faticoso salire, ma anche dell’umiltà con la quale è sempre necessario intraprendere qualunque “missione”: e che il nostro guardi fiduciosamente alla propria arte come a una missione, ce lo indicano con una metafora emblematica proprio i versi conclusivi di quest’altra celeberrima lirica che vi invito a rileggere: “La Piccozza”. Dopo di che non dimentichiamoci di questo duplice messaggio etico – disciplina, mai facile, e doverosa modestia — che anche qui ci viene rivolto sulle ali del “belcanto” pascoliano a voce spiegata: un “poetar cantando”, Il suo, che può dirsi musica vera in quanto entità ritmico-sonora non meramente virtuosistica, ma intessuta di pensiero passato al vaglio dei più profondi, sublimi sentimenti: ovvero una scelta estetica abbracciata con sofferta consapevolezza — tutt’altro, per l’appunto, che una vuota “canzone da organetto”. In un’epoca come la nostra, beato chi riesce ancora a comprenderle queste grandi lezioni! E a farne tesoro.
   
Roberto Vittorio Di Pietro


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