POETI E
UOMINI A CONFRONTO
(Una
lezione riproposta in nuce)
Roberto Di Pietro
Premessa. Il tema “la donna e la guerra” --
individuato dal Centro Studi P.A.N.I.S. di Torino come fulcro di tutte le
iniziative in programma per il 2000-1 – costituiva un presupposto in qualche
misura vincolante nella scelta di liriche italiane da destinarsi soprattutto ad
uno studio tecnico-strutturale della forma poetica e delle relative
pertinenze fonosimboliche, secondo gli obiettivi didattici specificatamente
assegnati al sottoscritto.
Nel tentativo di conciliare i
requisiti, mi orientavo verso due celebri componimenti di poeti coevi – “Alexandros”
di Giovanni Pascoli (1855-1912) e “Consolazione” di Gabriele D’Annunzio
(1863-1938) – atti a consentire sia un’analisi metrico-ritmica del verso endecasillabo
in particolare, nonché un opportuno raffronto fra i differenti usi stilistici
di tale metro nei rispettivi contesti, sia
la verifica collegiale di determinati assunti
filosofico-psicologico-letterari genericamente inquadrabili nella suddetta
tematica dell’anno.
* *
*
ALEXANDROS
(Poemetto
pubblicato nel febbraio 1895; inserito in “Poemi Conviviali” nel 1904)
(Metro: terzine
incatenate, rimanti secondo lo schema ABA, BCB, ecc.)
I.
-- Giungemmo: è il
Fine. O sacro Araldo, squilla!
Non altra terra se
non là, nell’aria,
quella che in mezzo
del brocchier vi brilla,
o Pezetèri: errante e
solitaria
terra, inaccessa.
Dall’ultima sponda
vedete là, mistofori
di Caria,
l’ultimo fiume Oceano
senz’onda.
O venuti dall’Haemo e
dal Carmelo,
ecco, la terra sfuma
e si profonda
dentro la notte
fulgida del cielo.
II.
Fiumane che passai! Voi
la foresta
immota nella chiara
acqua portate,
portate il cupo
mormorìo, che resta.
Montagne che varcai!
Dopo varcate,
sì grande spazio su
di voi non pare,
che maggior prima non
lo invidiate.
Azzurri, come il
cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era
miglior pensiero
ristare, non guardare
oltre, sognare:
il sogno è l’infinita
ombra del Vero.
III
Oh! Più felice,
quanto più cammino
m’era d’innanzi;
quanto più cimenti,
quanto più dubbi,
quanto più destino!
Ad Isso, quando divampava ai venti
notturno il campo con
le mille schiere,
e i carri oscuri e
gli infiniti armenti.
A Pella! Quando nelle lunghe sere
inseguivamo, o mio
Capo di toro,
il sole; il sole che
tra selve nere,
sempre più lungi,
ardea come un tesoro.
IV
Figlio d’Amynta! Io
non sapea di meta
allor che mossi. Un nomo di tra le are
intonava Timotheo,
l’auleta:
soffio possente d’un
fatale andare,
oltre la morte; e m’è
nel cuor, presente
come in conchiglia
murmure di mare.
O squillo acuto, o
spirito possente,
che passi in alto e
gridi, che ti segua!
ma questo è il Fine,
è l’Oceano, il Niente…
E il canto passo ed
oltre noi dilegua. –
V
E così piange, poi
che giunse anelo:
piange dall’occhio
nero come morte;
piange dall’occhio
azzurro come cielo.
Ché si fa sempre
(tale è la sua sorte)
nell’occhio nero lo
sperar, più vano;
nell’occhio azzurro
il desiar, più forte.
Egli ode belve
fremere lontano,
egli ode forze
incognite, incessanti,
passargli a fronte
nell’immenso piano,
come trotto di mandre
d’elefanti.
VI
In tanto nell’Epiro
aspra e montana
filano le sue vergini
sorelle
pel dolce Assente la
milesia lana.
A tarda notte, tra le
industri ancelle,
torcono il fuso con
le ceree dita;
e il vento passa e
passano le stelle.
Olympiàs in un sogno
smarrita
ascolta il lungo
favellìo d’un fonte,
ascolta nella cava
ombra infinita
le grandi quercie
bisbigliar sul monte.
(G. Pascoli)
La silloge da cui è tratta la
lirica “Alexandros” comprende venti componimenti di varia lunghezza,
scritti dal Pascoli a partire dal 1892, alcuni dei quali furono pubblicati su
“Convito”, nota rivista letteraria dell’epoca, diretta da Adolfo De Bosis. Per questa raccolta, nel cui titolo già risuona il ricordo dei
poemi che, presso gli antichi, venivano cantati durante i banchetti, il poeta
si ispira quasi esclusivamente alla Grecia classica, mentre i “Carmina” latini
(un ideale complemento) si rifanno a quella romana e alle vicende
paleocristiane. Infatti, secondo le intenzioni dell’autore, i “Conviviali”
vogliono rappresentare una storia ideale del mondo classico: vi si traccia la
parabola della civiltà greca a partire dai tempi epici immortalati da Omero
fino all’ascesa di Alessandro il Macedone; e di lì, attraverso la rievocazione
della gloria e della decadenza di Roma (Tiberio), si giunge al
presentimento delle imminenti invasioni barbariche (Gog e Magog) e
infine ai primi albori della rivelazione cristiana (La Buona Novella: In
Oriente; In Occidente) che il poeta sente non solo come messaggio di
fraternità e di pace, ma anche come coscienza dell’incerto dramma del vivere.
In effetti, nella sua particolare dimensione simbolistica, anche quando canta
l’armonia dell’anima greca (Solon) in una luce di bellezza e di eroismo
(Odisseo, Achille), la poesia del Pascoli non manca di cogliere un senso di
effimero atemporale e ineluttabile nei destini dell’uomo. Del resto l’autore
medesimo, nella prefazione a questa sua opera, oltre ad aderire esplicitamente
ai programmi del “Convito” -- “salvare qualche cosa bella e ideale dalla
torbida onda di volgarità che ricopre ormai tutta la terra di Leonardo…e
Michelangelo” -- definiva il D’Annunzio “fratello maggiore e minore”,
riconoscendo così anche la propria affinità spirituale con l’inquieta atmosfera
del Decadentismo.
L’analisi contenutistica esulando dagli scopi
eminentemente “tecnici” di queste mie lezioni, suggerirei agli iscritti di
avvalersi, all’uopo, della ben nota opera critica di
Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, intitolata “Dal testo alla storia, dalla storia
al testo” (Volume III, Tomo Secondo/a), attualmente in uso presso i licei
italiani. Tuttavia, a beneficio di chi
questo libro di testo non lo conoscesse e non riuscisse a procurarselo, ne
ricaverò alcuni passi significativi di commento al poemetto in esame,
integrandoli con alcune mie osservazioni collaterali, o ulteriori notizie anche
bibliografiche.
Il limite e il nulla. Delle sei sezioni che compongono “Alexandros”,
le prime quattro sono occupate dal discorso di Alessandro alle sue truppe. L’eroe ha conquistato tutto ciò che era
possibile conquistare, ha visto e sperimentato tutto il visibile e lo
sperimentabile, ed ora è giunto ai confini della terra, sulle rive dell’Oceano:
non vi è più nulla da conquistare se non la luna, che però splende sospesa
nell’aria, remota e inaccessibile.
Dinanzi agli occhi del conquistatore si stendono le acque dell’Oceano,
ferme e senza onde. Già questo carattere
della realtà spaziale sembra caricarsi di segreti sensi simbolici, come tutti i
particolari del poemetto, che evocano intorno a sé un’atmosfera suggestiva ma
spesso cifrata, inafferrabile: l’oceano immobile, senza vita, a differenza del
mare, sembra proporsi come immagine del nulla che si stende al di là
dell’estremo limite raggiungibile dalla conoscenza umana. L’eroe si trova in una zona indistinta, dove
la terra sfuma e si confonde con il cielo notturno. La terra è il campo dell’esperienza sensibile
e della conoscenza razionale, ma non ha confini precisi, al suo estremo limite
si perde nell’indefinito, nell’oscurità di un mistero che, non essendo
penetrabile dall’uomo nonostante la sua inesausta ricerca, si trasforma nel
nulla. L’immagine sarà ripresa nella quinta e sesta sezione.
Il sogno e il vero. Nella seconda sezione, Alessandro si volge al
passato, a tracciare come un bilancio della sua esperienza esistenziale, a
rievocare il cammino compiuto prima di giungere a quel punto conclusivo. “Fiumane”
e “montagne” segnano il limite al sogno, l’ostacolo che alimenta l’illusione,
che imprime la spinta a procedere oltre nella ricerca. Con la fiumana si collega l’immagine della
foresta che si specchia nell’acqua e che rimane immutata mentre il fiume
scorre; e ad essa si affianca quella equivalente del “cupo mormorìo, che resta.”
Sono due immagini fortemente suggestive, ma anche enigmatiche. Non è facile coglierne il significato
simbolico [n.d.r. non a caso, preciserei, poiché il simbolo in quanto tale non
è mai suscettibile di una completa decodificazione], ma probabilmente vi si
possono scorgere legami con il tema dominante di tutta la poesia:
l’irraggiungibilità del sogno. L’acqua che scorre via può essere vista come
simbolo della ricerca inesausta, del protendersi incessante verso l’oggetto del
sogno, verso la sua realizzazione; l’immagine immobile della foresta e quella
del mormorio perdurante possono invece alludere al fatto che è preferibile
rinunciare all’avventura conoscitiva -- che approda solo alla sconfitta e al
nulla, in quanto la meta è inafferrabile – e limitarsi a sognare: infatti
l’immagine riflessa della foresta è un’apparenza illusoria, e può quindi
simboleggiare l’illusione. La conferma sembra venire dall’immagine successiva
delle “montagne”, il cui significato simbolico è esplicitato dal poeta
stesso, per bocca del suo eroe. Al di
qua degli ostacoli che impediscono la vista, il sogno può evocare spazi
infiniti di là da essi; ma, una volta raggiunta la cima, ciò che si può vedere
è deludente: non è quell’infinito che il sogno vagheggiava. Ne deriva che è sempre
preferibile fermarsi al di qua dell’ostacolo: limitarsi al “sogno” che è
stimolato da quella barriera medesima, anziché volerla varcare alla ricerca del
“Vero”. Se il “vero” è limitato e
deludente, il “sogno” lo ingrandisce all’infinito (anche se è un’”ombra”,
qualcosa di inconsistente). Il Pascoli riprende qui, evidentemente, motivi
leopardiani. Un chiaro rimando intertestuale, quasi una diretta citazione,
sembra il particolare dei monti “azzurri”: essi richiamano un passo
analogo delle “Ricordanze”, dove le montagne costituiscono l’ostacolo
alla vista che suscita l’immaginazione (“Quei monti azzurri,/che di qua
scopro, e che varcare un giorno/io mi pensava, arcani mondi, arcana/ felicità
fingendo al viver mio!”); ma nel motivo leopardiano Pascoli introduce una
sensibilità più morbida e inquieta, tipicamente decadente: il “sogno” non è
solo l’indefinito dell’immaginazione, ma è “ombra”, è l’abbandonarsi voluttuoso
ad una zona oscura del reale, che attrae e inghiotte.
* Raccomanderei in ogni caso di consultare,
parallelamente, le copiose e illuminanti pagine che Mario Pazzaglia
(Letteratura Italiana, Volume Terzo: l’Ottocento – Zanichelli) dedica al
concetto di infinito-indefinito nella filosofia di Giacomo Leopardi, come pure
l’analisi strutturale che lo stesso autore offre della lirica leopardiana “L’infinito”.
Ci basti intanto la parola diretta di Leopardi, citata da un appunto istruttivo
del suo “Zibaldone”: “Veniamo all’inclinazione dell’uomo all’infinito.
Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà
immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui
le cose reali non sono. Considerando la
tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa
faccia una della sue principali occupazioni della immaginazione del
piacere. E stante la detta proprietà di
questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistono, e
figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare
nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la
speranza, le illusioni, ecc. perciò non
è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggiore del bene, 2. che la
felicità non possa consistere se non nella immaginazione e nelle illusioni.”
L’inseguimento del sole e la rievocazione del
passato. Nella terza sezione
viene ripreso il concetto già espresso nella seconda: “era miglior
pensiero/ristare, non guardare oltre, sognare”, non affrontare l’avventura
della ricerca. Alessandro, riandando col ricordo al passato, vede ora
chiaramente come la felicità fosse nell’attendere la vita, quando la vita era
ancora tutta da vivere, con le sue fatiche, le sue prove, i suoi dubbi.. Lo slancio giovanile del sogno si compendia nell’inseguimento
del sole al tramonto, che “ardea come un tesoro”: racchiudendo in sé tutte le mete vagheggiate
dal desiderio. Ma, nelle lunghe cavalcate durante le sere estive, il sole che
si allontana sempre più e appare irraggiungibile, sembra un presagio
dell’inevitabile scacco cui è destinata la ricerca. E le “selve nere”
tra cui si profila il disco del sole sfuggente, sembrano caricarsi di un
significato lugubre: alludere alla morte come l’unico “vero” cui si approda con
certezza, una volta bruciato il “sogno” nell’azione.
Il flauto sacro. Nella quarta sezione si delinea il momento in
cui il cammino della ricerca era iniziato: è un’evocazione nostalgica che nasce
dalla delusione presente, dal confronto con la realtà, dalla consapevolezza
dello scacco. Il “nomo” [inno]
che intonava “Timotheo, l’auleta” [suonatore di flauto] era come un
messaggio arcano: spingeva il giovane Alessandro alla ricerca come la voce
irresistibile di un destino già segnato che lo obbligava a seguire il suo
percorso, anche se la meta era allora ignota. Quella voce è sempre rimasta
segretamente presente in lui, e anche ora che il viaggio è terminato, egli la
sente passare in alto; ma ormai gli è impossibile seguire quel misterioso
invito, deve confrontarsi con un confine insuperabile oltre il quale vi è solo
il nulla. Anche il suono del flauto si
carica di echi simbolici. Come suggeriscono Giorgio Bàrberi Squarotti e Stefano
Jacomuzzi, esso può rappresentare l’arte che spinge ad una conoscenza ultima
delle cose: l’uomo di alto valore
spirituale è indotto ad una ricerca incessante, ma non può superare i propri
limiti, a un certo punto deve fatalmente arrestarsi, insoddisfatto e
angosciato.
L’auscultazione del
mistero. Terminato il discorso
di Alessandro alle sue truppe, nella quinta sezione prende la parola il poeta:
se nel pianto dell’eroe sottolinea lo sconforto della delusione, al tempo
stesso ci dice che il desiderio non scompare, anzi si esaspera perché
inappagato (“nell’occhio azzurro il desiar, più forte”). Ma dinanzi ad Alessandro, come già delineato
nella prima sezione, c’è ora l’enigma insuperabile, che si presenta come un
brulicare di rumori misteriosi nel buio, come un urgere di forze “incognite,
incessanti” che restano oscure e indefinite. Si raffronti questa situazione
con quella, omologa, che il Pascoli raffigura nell’ “Assiuolo” e in “Suor
Virginia”, dove parimenti l’ignoto parla attraverso rumori indistinti che,
nell’ombra, assumono il valore di arcani messaggi indecifrabili. Si tratta in effetti di un topos della
poesia pascoliana, spesso sospesa sulla soglia che divide il reale da un “di
là”. E come già nelle due liriche
segnalate, anche qui l’oscurità si carica di un senso della fine, suggerito da
quell’occhio “nero come morte”, in cui “lo sperar” si fa “più vano”.
Così la sconfitta esistenziale nella ricerca di una conoscenza totale del
“vero”, si risolve emblematicamente in uno sprofondare nel nulla.
Il “nido” e la figura
materna. Nell’ultima sezione, a
questo scacco esistenziale si contrappone quella che, al Pascoli, sembra essere
l’unica alternativa possibile: anziché consumarsi in un’avventura fallimentare,
sarebbe “miglior pensiero” restarsene nei limiti accoglienti, tiepidi e
protettivi del “nido”, qui evocato dalle “vergini sorelle” che filano la
lana per il “dolce Assente”, e ancor più dall’immagine della madre
Olympiàs, che smarrita nei propri sogni vespertini, si lascia cullare dal
mormorio di una fonte e dal bisbigliare delle “grandi” querce. [N.d.r.
Un aggettivo, quest’ultimo, che si direbbe quasi pleonastico ma che, a mio
giudizio, risulta non a caso caricato di simbolicità antitetica: a ben pensarci, si è in fondo portati a
contrapporre idealmente la solidità materiale di quelle “grandi” querce
all’assai più fragile “grandezza” delle conquiste del figlio deluso. Quanto
alla “cava ombra infinita” in cui l’anziana donna sosta, a rigor di
logica la si può associare alla precedente raffigurazione del “sogno” come
“infinita ombra” della realtà. Ma
ecco che il termine “ombra” ricompare per affacciarsi anche in questo finale
dai contorni peraltro idilliaci. Che
cosa se ne può eventualmente desumere? Le indicazioni che ritengo utile
fornirvi qui di seguito potrebbero suggerire, per via indiretta, un’ipotesi
interpretativa piuttosto attendibile.]
* Sulla tematica pascoliana del
“nido”, consiglierei anzitutto di consultare (a p.261-4 dello stesso testo
succitato) l’analisi semiotica che della poesia “X Agosto” redige Angelo
Marchese; come pure un interessante saggio di Bàrberi Squarotti (“Simboli e
strutture della poesia del Pascoli”, D’Anna, Messina-Firenze 1966), in cui, fra
l’altro, si legge: “E’ quella della madre, una presenza continua, ossessiva.
Come centro del nido, la madre è autentico compendio di tutti i legami
viscerali del sangue, in una tipica situazione della società italiana e
borghese.” E, più avanti, ecco un nesso significativo: “Discende da questa
centralità del personaggio materno nel discorso pascoliano del “nido”…quella
tentazione dell’annullamento, del suicidio, che proprio in colloqui con la
madre [n.d.r. la quale, non a caso, interviene per trattenere il figlio “Zvanì”
con rimproveri e ammonimenti dissuasivi: si ricordi “La Voce”]
puntualizzano l’estrema irrazionalità degli impulsi affettivi del Pascoli
insieme con la precarietà delle ragioni dell’esistenza nell’ambito di una
società ridotta alla sua cellula primordiale.” In realtà, quindi, quel “nido”
familiare ha valenze ambigue: senza dubbio è un “rifugio” gradito, ma al tempo
stesso risulta carico di tensioni oscure, sotterraneamente distruttive, che non
sfuggono alla coscienza del poeta medesimo, che suscitano in lui occasionali
insofferenze, moti repressi di ribellione, “biasimevoli” bisogni di fuga e
infine, dati gli intimi sensi di colpa, desideri di evasione definitiva nell’autoannullamento
fisico.
Si mediti, per giunta, su quanto
scrive il Pazzaglia (ibidem, p. 121) riguardo alla tematica del “nido”
considerata in stretto rapporto con le vicende personali del Pascoli: “Il
‘nido’ (è sintomatica l’immagine animale, che stabilisce una congruenza
uomo/natura) è il nucleo della famiglia, chiuso gelosamente, nella propria
autonomia totale, a ogni reale espansione (e anche motivazione) sul piano
storico e sociale. Al costituirsi di
questo mito contribuirono molti fattori biografici: il precoce distacco dalla
madre per il collegio, la morte del padre, figura di sicurezza economica e di
protezione, che scatena la dispersione della famiglia; e anche l’esperienza di
una società ostile contro cui il nido domestico appare l’unica difesa; come lo
è in un universo inconoscibile e inquietante.
Esso divenne così emblema da opporre a quello di un cosmo diseredato;
gli affetti, che solo nel ‘nido’ possono essere veramente esercitati, sono
l’unico modo di opporsi alla morte che vanifica ogni cosa; e a una società dove
fatale apparve al Pascoli il dominio della violenza, dell’ingiustizia, del
male. Questa idea così limitatrice,
oltre che pessimistica, del sociale, ridotto ai soli legami affettivi del
sangue, spiega, secondo i recenti interpreti, anche l’idea di un’autarchia del
‘nido’ sul piano economico oltre che sociale.
Sul piano biografico, il ‘nido’ significa per Pascoli il sacrificio a un
passato irrevocabile e a una sorta di sacerdozio mortuario di tre giovani
esistenze (Ida, Maria, Giovanni). Nell’ambito di un ‘nido’ così ricostruito, ma
privo dell’intima giustificazione del primo, e soprattutto di avvenire
riproduttivo al suo interno, si propone un’assunzione-confusione dei ruoli;
cosicché prima Ida e poi Maria sono sorella, figlia, madre, e rappresentano nel
contempo la donna, la femminilità; con un eros sublimato ma deviante
(analogamente Giovanni assume tutte le corrispondenti figure maschili assenti,
e per giunta concepisce come sacerdozio, inteso a fare ancora vivere i suoi
morti, la poesia). Quando nel 1895, Ida
rompe questo circolo innaturale, sposandosi, il Pascoli piomba nella
disperazione, per poi ricostituire quella sorta di morboso incantesimo con la
sorella rimasta, ma con l’idea ormai chiara della precarietà di esso.
[Il corsivo è nostro] Anche in questo
caso si può parlare di una nevrosi che cela un reale timore davanti alla vita;
il ‘nido’ diviene la difesa opposta all’aggressione della società esterna, il
luogo della non-scelta e della responsabilità elusa. Di un futuro giustificato
sul passato, su una perduta certezza d’infanzia. […] Ma [nell’ambito del nido]
l’immagine dell’eros negato si traduce in un’idea del sesso fatta di
attrazione e di ripulsa: quasi una mancata crescita, un indugio all’età
adolescenziale – un processo che la psicanalisi ha illustrato nella
compenetrazione ambigua di eros e thanatos (impulso vitale e
impulso di morte) sfociante in varie forme di rimozione e di sublimazione.” Si
consideri questo dato concreto, trasmigrato e trasfigurato nell’arte: “…la madre
che nella lirica ‘I due fanciulli’ va a sincerarsi, con la lampada in
mano, che i figlioletti dormano rappacificati e sereni, è parificata
analogicamente, alla fine della lirica, con la Morte, anch’essa rappresentata
con la lampada accesa.” In proposito aggiungerei, che per naturale sviluppo
metalettico, questa stessa immagine tende ad attribuire al “nido” la
significativa duplice connotazione di culla protetta e di temuto
sepolcro.
Beninteso, per quanto calzanti questi dati psicanalitici
possano essere, ci si guardi dal farne strumento di indagine sommaria e
arbitraria dell’incommensurabile profondità del genio creativo pascoliano. Né
si dimentichi la ben più articolata problematica culturale che l’uomo Pascoli,
in quanto artista, condivide con tutta una civiltà. L’abbandono, ad esempio, delle certezze
offerte dalle scienze positive e il conseguente rifugio in una dimensione
irrazionalistica, mentre definiscono l’infrangersi di un’idea secolare di
armonia del mondo e di razionalità del reale, sanciscono l’inquietudine della
cultura di fine Ottocento, riconducibile ad un’ampia crisi storica e
conoscitiva alla quale il nostro è tutt’altro che estraneo.
E tuttavia, tenendo conto delle multiformi valutazioni e
constatazioni che qui si è ritenuto in ogni caso utile segnalare (come pure
sulla scorta della sconfinata saggistica di alta qualità che non solo in Italia
si è prodotta sulla poesia del Pascoli, e che vi inviterei a voler verificare
il più possibile per poterne anche trarre conclusioni autonome, pur sempre
consigliabili ed auspicabili), proviamo a riguardarci la chiusa del poemetto:
facciamolo, magari, con un minimo di questa maggiore consapevolezza acquisita.
Se la critica è giustamente
concorde nel sostenere che dietro la maschera di Alexandros, come del resto
quella di ogni altro protagonista antico che figura nei “Poemi Conviviali”, il
soggetto lirico è pur sempre l’anima del Pascoli, con il suo “oscuro tumulto” e
con le stesse tematiche più “soggettive” di “Myricae”, dei “Poemetti”,
dei “Canti di Castelvecchio”, ebbene come non sospettare anche nell’excipit
di questa lirica (da taluni un po’ troppo disinvoltamente liquidato
come “enigmatico”) una vaga traccia di quelle intime conflittualità e
insofferenze alle quali più sopra si accennava? Intorno allo spazio tranquillo
ma segregato del focolare di Olympiàs – dove, per le fantomatiche vestali,
anche il tempo parrebbe ruotare monotono e inarrestabile come il loro “fuso”
stretto fra “ceree dita” (e soltanto candide di purezza? o forse
pallide, smorte, queste operose dita? Curioso trovarle qualificate esattamente
come, da D’Annunzio in “Consolazione”, le vecchie falangi di un’“ava”
defunta) -- sembrano in qualche modo aleggiare, furtivi, anche i sospiri
nostalgici dell’uomo Giovanni (“e il vento passa e passano le stelle”):
gli inconfessabili dubbi di questo devoto figlio-fratello circa la validità
categorica di forti legami sanguinei che, per quanto teneri e confortevoli,
possono essere talvolta anche duramente privativi: per lui materia di sublime
poesia sicuramente sì, e ciò nondimeno causa di non poche rinunce esistenziali
e di soffocati rimpianti. Il cuore
ovattato del “nido” può dirsi rassicurante, ma emana il calore paradossale di
un “sogno” felice che, col passare delle stagioni fugaci come il vento e come
gli astri nel cielo, di giorno in giorno tristemente brucia e spegne la “vera”
vita.
* * *
CONSOLAZIONE
(da “Poema
paradisiaco” – 1893)
(Metro: quartine
di endecasillabi rimanti secondo lo schema ABBA)
Non pianger più.
Torna il diletto figlio
a la tua casa. E’ stanco di mentire.
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il
volto è quasi un giglio.
Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancora per noi
qualche sentiero.
Ti dirò come sia
dolce il mistero
che vela certe cose
del passato.
Ancora qualche rosa è
ne’ rosai,
ancora qualche timida
erba odora;
ne l’abbandono il
caro luogo ancora
sorriderà, se tu
sorriderai.
Ti dirò come sia
dolce il sorriso
Di certe cose che
l’oblio afflisse.
Che proveresti tu, se
ti fiorisse
La terra sotto i
piedi, all’improvviso?
Tanto accadrà, ben
che non sia d’aprile.
Usciamo. Non coprirti il capo. E’ un lento
Sol di settembre; e
ancor non vedo argento
Su ‘l tuo capo, e la
riga è ancor sottile.
Perché ti neghi con
lo sguardo stanco?
La madre fa quel che
il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda
un po’ di sole,
un po’ di sole su
quel viso bianco.
Bisogna che tu sia
forte; bisogna
Che tu non pensi a le
cattive cose…
Se noi andiamo verso
quelle rose,
io parlo piano,
l’anima tua sogna.
Sogna, sogna, mia
cara anima! Tutto,
tutto sarà come al
tempo lontano.
Io metterò ne la tua
pura mano
Tutto il mio
cuore. Nulla è ancor distrutto.
Sogna, sogna! Io
vivrò de la tua vita:
in una vita semplice
e profonda
io rivivrò. La lieve ostia che monda
io la riceverò da le
tue dita.
Sogna, ché il tempo
di sognare è giunto!
Io parlo. Di’:
l’anima tua m’intende?
Vedi? Ne l’aria
fluttua e s’accende
quasi il fantasma
d’un april defunto.
Settembre (di’:
l’anima tua m’ascolta?)
ha ne l’odore suo,
nel suo pallore,
non so, quasi l’odore
ed il pallore
di qualche primavera
dissepolta.
Sogniamo, poi ch’è
tempo di sognare;
sorridiamo. E’ la nostra primavera,
questa. A casa, più tardi, verso sera,
vo’ riaprire il
cembalo e sonare.
Quanto ha dormito, il
cembalo! Mancava
allora,
qualche corda; qualche corda
ancora manca. E l’ebano ricorda
le lunghe dita ceree
de l’ava.
Mentre che fra le
tende scolorate
vagherà qualche odore
delicato,
(m’odi tu?) qualche
cosa come un fiato
debole di viole un
po’ passate,
sonerò qualche
vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai
nobile, anche un poco
triste; e il suono
sarà velato, fioco,
quasi venisse da
quell’altra stanza.
Poi per te sola vo’
comporre un canto
che ti raccolga come
in una cuna,
sopra un antico
metro, ma con una
grazia che sia vaga e
negletta alquanto.
Tutto sarà come al
tempo lontano.
L’anima sarà semplice
com’era;
e a te verrà, quando
vorrai, leggera
come vien l’acqua al
cavo della mano.
(G. D’Annunzio)
Durante gli anni cosiddetti della
“chimera” del “piacere” (1882-89), il genio precocemente fertile di Gabriele
D’Annunzio, presto imbevuto d’ideale bellezza e di sereno naturalismo
panteistico, s’intorbida di artificiose raffinatezze e di incontenibile
carnalità. La poesia accompagna questo
decadimento con madrigali peraltro squisiti (“Intermezzo di rime”, 1883)
che trasfigurano nella malìa del sogno, del suono e del senso le età passate e
le passioni presenti (“Isaotta Guttadauro” e le “Elegie romane”).
Ma di questo periodo interessano il racconto di “Giovanni Episcopo”
(personaggio abulico che, soggiogato dall’altrui volontà, sprofonda
nell’abbrutimento) e specialmente la trilogia dei “Romanzi della Rosa”, che
oltre a “Il Piacere” (‘89), ampio affresco di un estetismo ormai
dilagante in mezza Europa, comprende “L’innocente” (’91: con la bontà
fiacca del protagonista Tullio Hermil) e “Il trionfo della morte” (’93:
in cui Giorgio Aurispa invano tenta di superare il dramma di un amore
infelicemente vissuto): tre espressioni dello sforzo impotente contro la
sensualità incarnata nella donna tentatrice, “la fatale nemica”. Un inopinato
infiacchimento del corpo e dello spirito, una crisi radicale in atto, suscita
nel giovane D’Annunzio un profondo, seppur transitorio,
bisogno di rigenerazione. Del resto, nel contesto de “Il Piacere” – senza dubbio un grande romanzo moderno che, a
dispetto di ogni caduta retorica che gli si possa attribuire, rivela con
straordinaria finezza un’effettiva sincera
volontà di autoanalisi da parte dell’autore (il protagonista Andrea Sperelli è
palesemente una sua controfigura), per molti versi paragonabile ad un intimo
bisogno confessionale non dissimile, quale si profila nel “Diario di un
Seduttore” di Soren Kierkegaard – mi sembrano caratterizzanti, veramente
tipiche della personalità umana del nostro, le alterne oscillazioni fra il
cinico desiderio di possesso carnale/psichico della donna, e la presa di
coscienza della colpevolezza insita in quel dongiovannismo radicato e
insuperabile.
Sicché, ripudiata provvisoriamente una lascivia divenuta ossessiva,
e con essa quella smania divorante di rinnovate “battaglie”, di spossanti
quanto inappaganti tenzoni amorose, di eterne “guerre di conquista” che essa
tipicamente comporta, il poeta avverte un improvviso, struggente desiderio di ritorno
alle origini: un’intensa nostalgia quasi regressiva di grembo materno, di
infanzia sacrificata forse troppo in fretta e troppo sconsideratamente sui
giacigli impuri di Afrodite. Il “guerriero” Gabriele, a soli trent’anni d’età
già stanco e interiormente esacerbato, vuole tornare a stringersi alla mano
amorevole della madre per poterne ricevere in dono “la lieve ostia, che
monda”. Nel ripensare a lei con
rimpianto (e di riflesso anche alla sorella, cui si rivolge -- nella poesia “Il
buon messaggio” -- per impetrare
solidarietà) compone alcune delle più delicate liriche del “Poema
paradisiaco”. Il recupero dell’innocenza infantile attraverso il ritorno
alle cose semplici e agli affetti familiari, è senz’altro il tema predominante
della silloge, anche se in essa non mancano atmosfere e immagini sottilmente
estetizzanti (languori di fiori appassiti, di statue corrose dal tempo, ecc.),
che risentono del Decadentismo francese in particolare.
Rispetto ad “Alexandros”,
“Consolazione” è una lirica assai più facilmente accessibile per la sua
immediatezza semantica: la casa natia con il tepore del giardino dei ricordi
disposto a rifiorire in un sole autunnale che sa di “qualche primavera dissepolta”,
la presenza sempre affidabile di un amore limpido, sincero e dolce
come il tintinnio di un avito clavicembalo riaperto, costituiscono il grande
balsamo vivificante di cui la Donna-Madre – integra divinità lunare, dignitosa
e compassionevole, in implicito contrasto con la maliarda Ecate, signora dei
trivi -- si configura al poeta come privilegiata depositaria e sicura
dispensatrice. Il figlio pudicamente finge di volerla “consolare”, mentre in
realtà – con sufficiente chiarezza ce lo rivela -- è da lei che implora
conforto e perdono. E pur sempre parecchio “angelicata” la percepiamo, anche
quest’altra “bianca” figura materna, il cui volto “è quasi un
giglio”: come Olympiàs, anch’essa, fra le pur naturali angosce per il suo
“bambino” irrequieto e ramingo, chissà rimasta a coltivarsi “saggiamente”, in
disparte, qualche migliore sogno sconosciuto? In quest’altro “nido”
circoscritto e senza luce del giorno che vi penetri, svigorita, o forse
paradossalmente sbiadita come le “tende”, nei recessi della sua
“luminosa” spiritualità. Può darsi; ci è consentito crederlo, perché al “buon
figlio” piace idealizzarla così: “Sogna, sogna, mia cara anima!…/!Io
vivrò de la tua vita: /in una vita semplice e profonda /io rivivrò”; “sogna,”
insiste, “ché il tempo di sognare è giunto!”: ma nulla vieta di
immaginarcela anch’essa, “regina” di fatto quanto l’altra, già abitualmente e
pericolosamente incline a sostentarsi in segreto con quell’assenzio ambiguo,
voluttuoso e venefico, che è “l’infinita ombra del Vero.”
Proposte di lavoro e di
riflessione (in attinenza al “tema dell’anno”):
- “Il sogno è l’infinita ombra del Vero”:
Leopardi, Pascoli e D’Annunzio si pongono analogamente – eppure con
spirito diverso -- di fronte a questa drammatica verità esistenziale. Quali le rispettive posizioni
ideologiche e reazioni psicologiche nell’arte come nella vita? Se il tema
vi ispira, illustrate mediante uno o più componimenti poetici il vostro
atteggiamento “filosofico” personale rispetto al binomio
realtà-illusione. Una selezione di
tali vostri elaborati verrà pubblicata in un’apposita antologia entro la
fine dell’anno in corso.
- Eraclito ed Empedocle concepivano il “polemos” (la
conflittualità in senso lato), ovvero il continuo alternarsi dell’amore e
dell’odio, come base motrice dei fenomeni naturali e delle cose umane in
genere. In assenza di tali contrasti, essi ipotizzavano una stasi
mortifera, senza proficui sbocchi possibili. Ritenete che questo concetto
di “guerra” inevitabile tra forze coesive e forze disgiuntive, ovunque
operanti intorno a noi, sia scorretto? Vi sembra in ogni caso sostenibile
che il sesso maschile sia da considerarsi esclusivo promotore riprovevole
di aggressioni, di scontri bellici, di umana inimicizia?
- In rapporto al tema “la donna e la guerra”, le due
liriche che abbiamo preso in esame sono state scelte in quanto: a) vi figurano
due “guerrieri” parimenti ambiziosi -- l’uno, Alessandro Magno
(“rivisitato” dal Pascoli con i connotati spirituali attribuitigli dalla
letteratura medievale nei Romans d’Alexandre), eroe assetato di
“conoscenza” tout court, l’altro, edonista insaziabile, avido di
“conoscenza carnale” ad oltranza; b) entrambi uomini pugnaci e, seppure
per vie fallimentari distinte, delusi dalla vanità delle loro aspettative
di diversa “conquista”; c) entrambi “figli” inquieti, frustrati e più o
meno nostalgici, idealmente contrapposti a sobrie figure “materne” dotate
di una “superiore” forma di saggezza ctonia che tenderebbe a rifuggire
dagli eccessi e, non di rado, a risolvere le proprie eventuali intime
aspirazioni evitando semplicemente di realizzarle. Non ritenete – ve lo chiedo con intenti
provocatori e con un invito alla riflessione per conto vostro – che si
tratti di un luogo comune ormai logoro e bisognoso di più obiettive
verifiche? Non vi sembra che questa
“tradizionale” necessità di idealizzare la donna fino a disincarnarla per
imprigionarla ad ogni costo nel ruolo puramente convenzionale di angelo
della pace e di diafano custode del focolare, lungi da un tributo alla
figura femminile sia invece stato, in fondo, una subdola forma di
maschilismo alla rovescia? Sotto una “falsa” professione d’amore, cioè,
un tentativo narcisistico del
maschio di proiettare in un’eterea controparte femminile le
caratteristiche ritenute più “nobili” nella propria natura umana per
poterle così impreziosire, magnificare, incorniciare, contemplare e
finalmente adorare in uno specchio di puro cristallo? Un ingannevole
“omaggio cavalleresco”, quindi, che in realtà costituisce un “fardello”
psicologico posto sulle fragili spalle femminili con la pretesa egoistica
ed unilaterale del maschio di vedere quel peso sempre retto senza
cedimenti? Con l’imposizione di sapersi mostrare sempre all’altezza del
compito, per non rischiare di tradire -- pena lo scandalo, il ripudio e il
disprezzo -- un’immagine, oltre che assurda, dopotutto nociva per ambo i
sessi? Per compiacere, in definitiva, le “sublimi fantasie” di un
uomo-infante dall’aria magari ipervirile ma, di là dalle apparenze,
penosamente insicuro e immaturo? E,
di riflesso, che dire del mito della virilità, l’altra faccia di una stessa
medaglia? Si mediti sulle
conseguenze e reazioni deleterie che ambedue questi “miti” inconsistenti e
fuorvianti purtroppo tuttora provocano, e non solo nelle società afflitte
da arretratezza culturale o autoritarismo politico.
- il fanciullino pascoliano e il superuomo
dannunziano sono stati definiti dalla critica due miti complementari. In
effetti, pur nascendo negli stessi anni (il romanzo Le vergini delle
rocce compare nel 1895, Il fanciullino nel 1897) appaiono
antitetici. Per citare Carlo
Salinari in proposito: “lì la lussuria e qui l’innocenza, lì la violenza e
qui la mansuetudine, lì il tono esaltato e qui la voce smorzata, lì gli
oggetti e i paesaggi più esotici e strani, qui gli oggetti e i paesaggi di
tutti i giorni, lì il lusso e qui la povertà, lì il dominio e qui la
sofferenza”. In realtà, a ben
vedere, essi hanno radici nello stesso terreno, sono risposte diverse ma
specularmene equivalenti ad analoghi problemi e traumi. Perché? Si
rifletta tenendo anche conto delle trasformazioni sociali ed economiche
sul finire del Secolo XIX; dei riflessi sui ceti medi; della crisi di una
nozione di “uomo” vagheggiata dalla civiltà borghese; della declassazione
degli intellettuali e del loro angoscioso smarrimento di fronte ad una
realtà moderna che sfugge alla comprensione e al controllo.
* *
*
ESERCITAZIONI “TECNICHE”
EFFETTUATE
Sulla base delle lezioni di metrica e fonosimbolismo già
impartite dal sottoscritto lo scorso anno, e riesposte più dettagliatamente
nella relativa dispensa (v. NOTA, in fondo al testo) da utilizzarsi come
continuo sussidio didattico, si procedeva:
1.
ad un’attenta analisi della struttura
(accenti metrici, accenti grammaticali, cesure, varianti ritmiche ecc.) degli endecasillabi, perlopiù
“canonici” in entrambe le liriche;
2.
ad una corretta lettura ad alta voce degli
stessi versi (rispetto fondamentale del numero delle sillabe metriche
volute dall’autore; concomitante necessità di non trascurare le pause di
espressività determinate sia dalla punteggiatura, sia dall’imprescindibile
valore semantico dei contenuti);
3.
al progressivo sviluppo, da parte degli iscritti, di
una sufficiente consapevolezza delle peculiarità fonosimboliche delle due
liriche, tale da favorire un più affinato apprezzamento della “poeticità
integrale” del testo (contenuto più forma) e quindi del valore
artistico complessivo dell’opera.
A) Verifiche “tecnico-stilistiche”
supplementari
Abbiamo appena esaminato insieme
due splendide liriche, anche se di impostazione alquanto diversa e,
soprattutto, poco rappresentative dei modi del poetare solitamente privilegiati
dall’uno come dall’atro autore. Da un
lato, un Pascoli che nei “Poemi Conviviali” (raccolti nel 1904, ma “Alexandros”
risale addirittura a nove anni prima) si affida a raffinati stilemi classicheggianti
la cui sontuosità ci appare in spiccato contrasto con le sue scelte lessicali e
formali caratteristiche quanto innovative, del resto già fissate, fin dal 1891,
con “Myricae”; dall’altro un D’Annunzio che, abbandonando momentaneamente quel
connaturale gusto per l’aulico, il ricercato e il difficile che ovunque emerge
in un percorso poetico degno della sua vita inimitabile (un precoce gusto già
evidente fin dall’esordio “carducciano” con le rime paganeggianti in metri
barbari di “Primo vere” -- nel 1879, a soli sedici anni! -- e con “Canto novo”,
datato 1882) ecco che nelle delicate liriche intimiste del “Poema
paradisiaco” (1893) ci regala versi di carattere “crepuscolare” per lui
senz’altro atipici: nella loro languida musicalità trasognata, davvero “tenui
come i teli/che fra due steli/tesse il ragno”.
Eppure, malgrado queste devianze
dalla rispettiva norma, forse che non si può effettivamente rintracciare qua e
là il distintivo indelebile, in ogni caso chiaramente riconoscibile, sia
dell’uno come dell’altro poeta? Quando in “Alcyone” (“Le stirpi canore”) D’Annunzio
si compiace di descriverci la natura dei suoi “carmi”, definendoli “pieghevoli
come i salici/ dello stagno”, si può dire che rivendichi una capacità
comune ad ogni autentico poeta: l’arte di saper plasmare variamente la forma in
funzione dei contenuti, senza che in questo adeguamento nulla vada perduto
della “unicità del tocco”, della “individualità” irriproducibile dello
scrittore.
B)
Proposta di lavoro in merito: sotto quali aspetti stilistici
(lessico, ritrovati retorici, immagini, atmosfera, ecc.) secondo voi permane in
ogni caso identificabile la “firma” personale dei due diversi artisti nelle
liriche studiate? Evidenziate per conto vostro i passi che, in questo senso, vi
sembrano rappresentativi.
NOTA: Le lezioni oggetto di tale ‘dispensa’
sono state raccolte in una pubblicazione a cura della Casa Editrice Helicon,
S.a.s., di Ponte a Poppi (AR) (www.edizionihelicon.com
– E.mail: edizionihelicon@edizionihelicon.com),
dal titolo “Fonosimbolismo e vocalità poetica” (novembre 2006),
attualmente reperibile presso tutte le
maggiori librerie d’Italia, oppure su richiesta da indirizzarsi all’editore
medesimo.
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