Ieri è stato pubblicato questo racconto storico di Tommaso Mondelli, su Rosebud, come da link diretto qui sopra. L'autore me lo ha rinviato con qualche aggiunta, e lo pubblico, così modificato, in questa sede.
Nuova
versione
SICILIA 1943
L'estate
di quell'anno era appena seguita alla primavera e l'asse italo-tedesco era
rimasto seduto sul proprio fondo schiena, in Europa e in Africa era stato perso
tutto. Gli anglo-americani avevano appena inghiottito la Libia, e ora erano a
due passi da casa nostra. Dove, l'intenzione di entrare senza chiedere il
permesso, era abbastanza scontata. L’estate, in quel momento, appariva molto
calda, e le stesse parole del Duce, su un giornale dell'isola erano in neretto
e categoriche: “Onori per chi combatte,
disprezzo per chi s'imbosca e piombo ai traditori di ogni rango e razza” e,
sembrava, volessero essere prese sul serio. La minaccia era un fatto interno al
paese dal capo dell'esecutivo. Il giornale chiudeva il discorso con una formale
rassicurazione al paese nel voler dire che, chi
si fosse apprestato a invadere il sacro suolo della Patria, avrebbe trovato
pronti dei valorosi difensori a spegnere quel sogno già in prima zampata, sul
bagnasciuga.
Era una giornata limpida e assolata d’inizio
luglio. Il comandante del reparto aveva disposto il raduno di ufficiali e
sottufficiali in una di quelle mattine, intorno alle dieci, in piena campagna
di grano mietuto, all'ombra di una quercia centenaria, sotto la quale era stata
collocata una tavola imbandita. Tenne un breve discorso sui nostri doveri verso
la patria e precisò di fare al meglio il nostro dovere per salvare la nostra
pelle. Alla fine incoraggiò un arrembaggio su pasticcini e bevande di buona
qualità. Sciolse l'adunata e si
allontanò col suo aiutante. Fu l'ultima volta che si fece vedere. Gli eserciti
anglo-americani erano già sbarcati da qualche giorno, e avevano quasi
consolidate le loro posizioni intorno al lido di Sciacca. A fermarli sul
bagnasciuga erano andati veramente in pochi e avevano sbagliato strada.
Un
fatto mi era apparso molto strano e mi fece riflettere. Un pomeriggio,
camminavo in un campo di grano mietuto dove, a una certa distanza, erano posti
allineati e legati i nostri muli. Da loro non ero molto distante, e badavo che
non ci fosse nulla d’irregolare. Un aereo da caccia col muso rosso fece un paio
di giri e poi se ne andò, senza aver sparato nemmeno un colpo, né a me e
neppure ai muli allineati, e certamente non per essere privo di munizioni.
Passò come per controllare, da padrone, e se tutto fosse in ordine e niente d’irregolare.
Solo
i tedeschi, ci fu dato di sapere, che avessero opposto una qualche inutile
resistenza alle forze Alleate. Il fatto stesso che ci vennero incontro con una
camionetta, in prima linea, invece che coi carri armati, dimostrava qualcosa di
sorprendente.
Sembrava
tutto ovvio e naturale, ed io provai la medesima sensazione vissuta quando, due
anni prima avevamo occupato la Jugoslavia nella primavera del 1941, così come
quella percepita durante la primavera del 1940 che precedette l'invasione della
Francia. L'atmosfera che vi regnava era di un’incolpevole indifferenza. La
guerra c'era ma non si vedeva. Si viveva l'incognita della sorpresa. Come dire,
per quell'occasione e in Sicilia: stiamo cambiando alleanza? Avanti un altro. I
tedeschi andavano e gli americani venivano. Una banale sostituzione. Cambiava
l'alleato o il padrone? In questi casi non si resta tanto a valutare chi sia il
migliore. Dato che non sei tu a scegliere.
Un paio di giorni dopo, ricevemmo l'ordine di
levare le tende dalla zona collinare del trapanese, dove eravamo dislocati da
qualche mese, e precisamente nel minuscolo Comune di Vita, già provenienti
dalle falde dell'agrigentino. Di un certo Alfano, ancora non si parlava. Ci
invitarono a prepararci per marce forzate, uomini e quadrupedi, sulle proprie
gambe. La partenza avvenne verso sera e ricordo di aver attraversato alcuni
abitati, tra cui quello di Castelvetrano. Lo raggiungemmo il mattino
successivo, per una pausa rancio e per governare gli animali. Vedemmo un
cavallo che correva libero e sbardato, con una mascella penzoloni, causata
forse da una ferita provocata dalla scheggia di una bomba. Poverino!
Verso
l'imbrunire riprendemmo la marcia poiché, con la luce del giorno, gli aerei da
caccia ci avrebbero notato e massacrato, se ne avessero avuto voglia o, forse,
ci avrebbero risparmiati? In quella zona di tedeschi non ce ne erano, penso
ancora cosa sarebbe potuto succedere: certamente con loro in un eventuale
incontro-scontro con gli alleati che ci stavano venendo incontro. Eravamo però
all'oscuro dei motivi di quel trasferimento, e del luogo verso cui ci stavamo
dirigendo, anche se si vociferava che avremmo dovuto passare per Montelepre,
Palermo, per poi imbarcarci a Termini Imerese, o raggiungere Messina e il continente,
non poteva essere che un’impesa molto azzardata. Se ti affrontano mentre
cammini sei spacciato, perché resti senza posizione a difesa.
A
notte fonda le strade di Palermo, come di altri centri abitati, erano assiepate
di gente che ci salutava, ci applaudiva con calore e ci supplicava di non
opporre resistenza, per non farci ammazzare inutilmente. Io stesso fui più
volte invitato a uscire dai ranghi per essere fornito di abiti civili, ma non
accolsi l'invito. Il reparto comprendeva una grande maggioranza di militari di
origine siciliana, i quali chiedevano il permesso di potersi allontanare un
attimo per salutare i famigliari, e raggiungermi subito dopo. Non li vidi mai
più tornare.
Durante
la tarda mattinata raggiungemmo la città di Bagheria e stavamo accostandoci a
un aranceto per preparare il rancio, però non ricordo di averlo consumato.
Eravamo
rimasti, il tenente, io e pochi militari a rifiutare il disprezzo del Duce per chi s'imbosca. Non ci imboscammo e
non eravamo intenzionati a fare gli eroi. Sul ciglio della strada si avvicinò
un civile per dirci: “Gli americani sono a Termini Imerese”. Erano già di
fronte a noi per fermarci con le buone o con le cattive. Al loro arrivo noi
eravamo già in piedi e con le mani in tasca. Eravamo veramente in pochi.
Avevamo raccolto dei volantini lanciati da un aereo alleato, da noi non visto,
che ci ingiunsero di non opporre resistenza perché, e in caso contrario, delle
conseguenze ne sarebbero stati ritenuti responsabili gli ufficiali. Potevamo
noi due e gli addetti alla cucina affrontare gli americani? Le munizioni non
sarebbero bastate che per pochi minuti di fuoco. Di lì a poco, si avvicinò una
Jeep con due militari americani a bordo, e noi li avremmo potuti anche fare
prigionieri, ma per quanto tempo? Non ci avrebbero nemmeno preso sul serio!
Loro sapevano già tutto di noi, ed erano venuti per dirci di pazientare, in
attesa di un mezzo di trasporto. Ci accodammo agli eventi per salvare la nostra
pelle, come ci era stato suggerito dal nostro comandante. Sarebbe poi finita
anche l'epoca di andare sempre a piedi nelle marce forzate.
Un
automezzo ci raggiunse e caricò tutti quanti, per essere condotti e alloggiati
in un vecchio campo abbandonato dai tedeschi in fuga, nei pressi di Agrigento.
Nel magazzino c'era del cibo che i tedeschi non fecero in tempo a portare via. Il rancio lo consumammo lì, con una
scatoletta di crauti e patate bollite in grasso di maiale. Una vera schifezza,
ma avevamo fame.
Dopo il 25 luglio di fecero uscire in fila
e a piedi fino a Porto Empedocle, dalla parte opposta di Agrigento, e ci fecero
salire su carrette del mare pwe sbarcarci a Biserta, distrutta, e ancora dopo
qualche giorno a Tunisi e ancora, dopo una settimana, ad Algeri in treno.
Il
seguito si trova nel mio libro:
“Settimane
bianche e crociere a costo zero di un ragazzo partito soldato.
Tommaso Mondelli
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