POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

mercoledì, febbraio 1

SICILIA 1943 di Tommaso Mondelli

https://rinabrundu.com/2017/01/31/sicilia-1943/

Ieri è stato pubblicato questo racconto storico di Tommaso Mondelli, su Rosebud, come da link diretto qui sopra. L'autore me lo ha rinviato con qualche aggiunta, e lo pubblico, così modificato, in questa sede.


Nuova versione
                                                   SICILIA 1943

L'estate di quell'anno era appena seguita alla primavera e l'asse italo-tedesco era rimasto seduto sul proprio fondo schiena, in Europa e in Africa era stato perso tutto. Gli anglo-americani avevano appena inghiottito la Libia, e ora erano a due passi da casa nostra. Dove, l'intenzione di entrare senza chiedere il permesso, era abbastanza scontata. L’estate, in quel momento, appariva molto calda, e le stesse parole del Duce, su un giornale dell'isola erano in neretto e categoriche: “Onori per chi combatte, disprezzo per chi s'imbosca e piombo ai traditori di ogni rango e razza” e, sembrava, volessero essere prese sul serio. La minaccia era un fatto interno al paese dal capo dell'esecutivo. Il giornale chiudeva il discorso con una formale rassicurazione al paese nel voler dire che, chi si fosse apprestato a invadere il sacro suolo della Patria, avrebbe trovato pronti dei valorosi difensori a spegnere quel sogno già in prima zampata, sul bagnasciuga.
  
 Era una giornata limpida e assolata d’inizio luglio. Il comandante del reparto aveva disposto il raduno di ufficiali e sottufficiali in una di quelle mattine, intorno alle dieci, in piena campagna di grano mietuto, all'ombra di una quercia centenaria, sotto la quale era stata collocata una tavola imbandita. Tenne un breve discorso sui nostri doveri verso la patria e precisò di fare al meglio il nostro dovere per salvare la nostra pelle. Alla fine incoraggiò un arrembaggio su pasticcini e bevande di buona qualità.  Sciolse l'adunata e si allontanò col suo aiutante. Fu l'ultima volta che si fece vedere. Gli eserciti anglo-americani erano già sbarcati da qualche giorno, e avevano quasi consolidate le loro posizioni intorno al lido di Sciacca. A fermarli sul bagnasciuga erano andati veramente in pochi e avevano sbagliato strada.

Un fatto mi era apparso molto strano e mi fece riflettere. Un pomeriggio, camminavo in un campo di grano mietuto dove, a una certa distanza, erano posti allineati e legati i nostri muli. Da loro non ero molto distante, e badavo che non ci fosse nulla d’irregolare. Un aereo da caccia col muso rosso fece un paio di giri e poi se ne andò, senza aver sparato nemmeno un colpo, né a me e neppure ai muli allineati, e certamente non per essere privo di munizioni. Passò come per controllare, da padrone, e se tutto fosse in ordine e niente d’irregolare.
Solo i tedeschi, ci fu dato di sapere, che avessero opposto una qualche inutile resistenza alle forze Alleate. Il fatto stesso che ci vennero incontro con una camionetta, in prima linea, invece che coi carri armati, dimostrava qualcosa di sorprendente.  
Sembrava tutto ovvio e naturale, ed io provai la medesima sensazione vissuta quando, due anni prima avevamo occupato la Jugoslavia nella primavera del 1941, così come quella percepita durante la primavera del 1940 che precedette l'invasione della Francia. L'atmosfera che vi regnava era di un’incolpevole indifferenza. La guerra c'era ma non si vedeva. Si viveva l'incognita della sorpresa. Come dire, per quell'occasione e in Sicilia: stiamo cambiando alleanza? Avanti un altro. I tedeschi andavano e gli americani venivano. Una banale sostituzione. Cambiava l'alleato o il padrone? In questi casi non si resta tanto a valutare chi sia il migliore. Dato che non sei tu a scegliere.

  Un paio di giorni dopo, ricevemmo l'ordine di levare le tende dalla zona collinare del trapanese, dove eravamo dislocati da qualche mese, e precisamente nel minuscolo Comune di Vita, già provenienti dalle falde dell'agrigentino. Di un certo Alfano, ancora non si parlava. Ci invitarono a prepararci per marce forzate, uomini e quadrupedi, sulle proprie gambe. La partenza avvenne verso sera e ricordo di aver attraversato alcuni abitati, tra cui quello di Castelvetrano. Lo raggiungemmo il mattino successivo, per una pausa rancio e per governare gli animali. Vedemmo un cavallo che correva libero e sbardato, con una mascella penzoloni, causata forse da una ferita provocata dalla scheggia di una bomba. Poverino!

Verso l'imbrunire riprendemmo la marcia poiché, con la luce del giorno, gli aerei da caccia ci avrebbero notato e massacrato, se ne avessero avuto voglia o, forse, ci avrebbero risparmiati? In quella zona di tedeschi non ce ne erano, penso ancora cosa sarebbe potuto succedere: certamente con loro in un eventuale incontro-scontro con gli alleati che ci stavano venendo incontro. Eravamo però all'oscuro dei motivi di quel trasferimento, e del luogo verso cui ci stavamo dirigendo, anche se si vociferava che avremmo dovuto passare per Montelepre, Palermo, per poi imbarcarci a Termini Imerese, o raggiungere Messina e il continente, non poteva essere che un’impesa molto azzardata. Se ti affrontano mentre cammini sei spacciato, perché resti senza posizione a difesa.
    
A notte fonda le strade di Palermo, come di altri centri abitati, erano assiepate di gente che ci salutava, ci applaudiva con calore e ci supplicava di non opporre resistenza, per non farci ammazzare inutilmente. Io stesso fui più volte invitato a uscire dai ranghi per essere fornito di abiti civili, ma non accolsi l'invito. Il reparto comprendeva una grande maggioranza di militari di origine siciliana, i quali chiedevano il permesso di potersi allontanare un attimo per salutare i famigliari, e raggiungermi subito dopo. Non li vidi mai più tornare.

Durante la tarda mattinata raggiungemmo la città di Bagheria e stavamo accostandoci a un aranceto per preparare il rancio, però non ricordo di averlo consumato.  
Eravamo rimasti, il tenente, io e pochi militari a rifiutare il disprezzo del Duce per chi s'imbosca. Non ci imboscammo e non eravamo intenzionati a fare gli eroi. Sul ciglio della strada si avvicinò un civile per dirci: “Gli americani sono a Termini Imerese”. Erano già di fronte a noi per fermarci con le buone o con le cattive. Al loro arrivo noi eravamo già in piedi e con le mani in tasca. Eravamo veramente in pochi. Avevamo raccolto dei volantini lanciati da un aereo alleato, da noi non visto, che ci ingiunsero di non opporre resistenza perché, e in caso contrario, delle conseguenze ne sarebbero stati ritenuti responsabili gli ufficiali. Potevamo noi due e gli addetti alla cucina affrontare gli americani? Le munizioni non sarebbero bastate che per pochi minuti di fuoco. Di lì a poco, si avvicinò una Jeep con due militari americani a bordo, e noi li avremmo potuti anche fare prigionieri, ma per quanto tempo? Non ci avrebbero nemmeno preso sul serio! Loro sapevano già tutto di noi, ed erano venuti per dirci di pazientare, in attesa di un mezzo di trasporto. Ci accodammo agli eventi per salvare la nostra pelle, come ci era stato suggerito dal nostro comandante. Sarebbe poi finita anche l'epoca di andare sempre a piedi nelle marce forzate.

Un automezzo ci raggiunse e caricò tutti quanti, per essere condotti e alloggiati in un vecchio campo abbandonato dai tedeschi in fuga, nei pressi di Agrigento. Nel magazzino c'era del cibo che i tedeschi non fecero in tempo a portare  via. Il rancio lo consumammo lì, con una scatoletta di crauti e patate bollite in grasso di maiale. Una vera schifezza, ma avevamo fame.
    Dopo il 25 luglio di fecero uscire in fila e a piedi fino a Porto Empedocle, dalla parte opposta di Agrigento, e ci fecero salire su carrette del mare pwe sbarcarci a Biserta, distrutta, e ancora dopo qualche giorno a Tunisi e ancora, dopo una settimana, ad Algeri in treno.

Il seguito si trova nel mio libro:
 “Settimane bianche e crociere a costo zero di un ragazzo partito soldato. 
                                                              
Tommaso Mondelli                                          



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