La
coccinella e il quadrifoglio
di Andrea Maia
PHANTAASIA non
IMAGINAATIO VERA di Roberto Di Pietro ha
un incipit folgorante, di
impostazione narrativa (a contrasto con gran parte dell’opera, di impostazione
dialogica): una apertura vivida, segnata dal raggio di sole che si insinua a
risvegliare la Bimba in consonanza con il sorgivo nascere di una da poco
avvertita sensualità (è un moderno Cappuccetto Rosso, come si vedrà). La scena
raggiunge la sua climax nel prorompere nella cameretta, accolti a braccia
spalancate, del tepore e della luce primaverile, per poi distendersi nella
ripresa narrativa della vestizione, che la protagonista compie con un abito preso
in prestito dalla sorella Arianna; e qui il lettore saputo, o che tale si
crede, percepisce come un brivido, che si replica poco dopo, quando viene a
conoscere che la Bimba si chiama Fedra (e gli risuona nel cuore il verso
raciniano la fille de Minos et de
Pasiphaé). “Cappuccetto Rosso rinarrato o ripresa del mito cretese?” si
chiede un po’ perplesso, e ricorda che tra le epigrafi una riguarda il
Minotauro. Subito dunque si rende conto della complessa problematicità, della
ricchezza e varietà di prospettive, della molteplicità delle interpretazioni
possibili dell’opera che sta cominciando a leggere.
Conclusa la lettura, colpiti dalle sottili acrobazie
(concettuali e poetiche, metriche e fattuali, liriche e drammatiche) e dalle
novità formali e di contenuti, potremmo forse discutere alcuni esiti
dell’opera, dichiararci incerti di fronte a pagine ardue, un po’ frastornati
dalla fitta, deliberata presenza “postmoderna” di citazioni ed allusioni (a
tutte le letterature occidentali ed anche oltre), ma certamente dovremo
elogiare l’insolito coraggio, l’abilità e l’originalità di questo Poeta Umanista
a tutto tondo. In un tempo di estenuati lirismi, di parti faticosi di
composizioni esili e striminzite, di autocontemplazioni frazionate, stese in
comodi aritmati “versi liberi”, merita indubbiamente il plauso del pubblico e
della critica uno scrittore che affronta la composizione di un ampio,
impegnativo poema, basato su un rispetto rigoroso della metrica (si alternano
in esso, come nell’Aminta del Tasso,
settenari ed endecasillabi di perfetta fattura), in cui mito ed attualità
cozzano fra loro mescolandosi, in cui alcuni archetipi della fiaba e della
letteratura classica vengono rivisti, riusati e rovesciati: un’opera di
difficile collocazione in un genere tradizionale, in quanto caratterizzata da
una complessa mescidanza di tonalità comiche e drammatiche, di realtà concrete
e astratti teoremi, di ironia e serietà, di sarcasmo ed umorismo, di tragedia e
farsa, e nella quale si prendono criticamente le distanze dai difetti, dalle
colpe, dalle follie, dalle plateali stupidità del nostro tempo dominato dalla
televisione e dai quiz, cioè dal vuoto culturale, con sullo sfondo una società
allo sbando, ricca di presunzione quanto povera di valori e qualità. E, a
questo punto, ci appare anche evidente come il concetto bachtiniano di
“carnevalizzazione letteraria” (e il “rovesciamento dei valori” che esso
comporta come strumento di verifica sul piano etico) sia stato magistralmente
adottato ed elaborato dall’autore.
Con scelta spregiudicata, Di Pietro
ha deciso di non tener quasi conto della variabile “lettore”. Quest’ultimo si
trova dunque lì per lì logicamente spiazzato, in difficoltà di immediato orientamento;
e solo alla fine (come premio di una costanza agevolata dalla musica dei versi,
dalla originalità delle invenzioni, dalla suggestione dei suoni accompagnata dalla
totale pienezza del senso) vedrà chiaramente collocarsi al loro posto, in un
quadro complessivo ben decifrabile, le tessere di un articolato mosaico poetico
in cui nemmeno una battuta risulta affidata al caso: un testo organico, che
l’autore stesso, in una nota, riconoscendone dunque la valenza enigmatica ed
ermetica, definisce giustamente un “puzzle giallo”.
Per una operazione del genere
occorreva una sapienza notevole di impronta tipicamente “postmoderna”; ed io mi
sento anzitutto di offrire all’autore l’omaggio della mia stupita e convinta
ammirazione.
Ma io sto scrivendo una postfazione
e do per scontato che i “miei” lettori abbiano già letto con attenzione sia il
testo sia le note (molto utili se non indispensabili, in questo caso, per la
loro stretta complementarità rispetto ai versi). Mi pongo dunque, con questi
lettori, una domanda, forse superflua, ma che la critica (per la sua
ineliminabile funzione di chiarimento, sistemazione e razionalizzazione) non
può evitare di porsi: a quale genere, a quale tipologia letteraria appartiene
l’opera che ho letto? La difficoltà di dare una risposta univoca a questa
domanda, se da un lato conferma la ricchezza e la complessità dell’opera
stessa, dall’altro ne indica la sostanza enigmatica e suggerisce che una certa
percentuale (più elevata del solito, in quanto un margine di mistero irrisolto
è tipico di ogni autentica poesia) di testo rimanga sottratta alla immediata
comprensione del lettore. (Ma, aggiungo, non sta forse qui il fascino di una suspense implicita nella trama di un
racconto che, fin dall’inizio, presenta dei richiami inconfondibilmente
”gialli”?) Una volta deciso di definire il libro “poema”, resterà ancora da
precisare il sottogenere: poema mitologico, pedagogico, metapoetico, filosofico,
tragicomico? Ognuno degli appellativi che ho appena usato si adatta ad aspetti
dell’opera, ma nessuno di essi ne definisce, esaurendola, la sostanza. D’altra
parte, non possiamo nemmeno dimenticare che la commistione dei generi è,
dopotutto, una delle caratteristiche fondamentali della letteratura
postmoderna; e qui Di Pietro sembra volercene offrire un esempio lampante. Lo
chiamerò, visto che è in gran parte costituito da dialoghi (con le parti
narrative - molto belle nel loro sostanziale lirismo - che esercitano la
funzione di didascalie) “poema
teatrale”, senza ulteriori specificazioni, sottolineando ancora la
molteplicità ricchissima di spunti diversi da cui deriva l’esigenza delle note,
che l’autore ha redatto in terza persona, con garbato distacco e con spunti
autoironici che dimostrano la sua intelligenza e maturità di “luuupo”
posseduto, come Asterio, dal demone della cultura e dell’arte.
Ripercorreremo per lampi e salti, rapidamente, il poema, dal
fervido luminoso incipit primaverile
fino all’urlo nero di Fedra per l’uccisione del lupo, mettendo in risalto
almeno due aspetti essenziali l’impostazione strutturale, la tipologia dei
personaggi ed i ritratti linguistici.
Una struttura dialogica tripartita.
Il
poema è suddiviso in tre parti di lunghezza assai diversa: a) ANABASI (240
versi), b) STRANO INTERLUDIO (oltre 2800 versi) e c) CATABASI (oltre 800
versi). Il totale dei versi (intorno ai 4.000) pur lontano dai tradizionali
poemi italiani (14.233 la Commedia,
38.688 il Furioso, 15366 la Gerusalemme) risulta alto se si
confronta alle composizioni ottocentesche o novecentesche (395 I Sepolcri, 317 La Ginestra, 433 versi La
terra desolata di Eliot) ed indica l’effettiva volontà di costruire non una
silloge di composizioni (come era ancora il lavoro precedente In soliloquio dialogando) ma un vero e
proprio poema, con l’aggiuntiva particolarità della struttura dialogica di
lontana illustre derivazione, se pensiamo che i dialoganti si chiamano Fedra,
Clitennestra, Asterio-Ippolito, Arianna...
La prima
sezione (Anabasi) è caratterizzata,
rispetto al resto del poema, risolto quasi esclusivamente in dialoghi e
monologhi, dalla presenza di alcuni consistenti inserti narrativi (il
risveglio, il cammino nel bosco, l’arrivo alla casa della nonna) intervallati
dal dialogo diretto Madre-Fedra e dal ricordo “testuale” delle raccomandazioni
della Madre. Particolarmente suggestivo il breve intenso inizio narrativo, che
già abbiamo esaminato; la fanciulla indossa gli abiti della sorella più grande
(Arianna, il cui nome è anticipazione della funzione importante che il
personaggio avrà nel finale) e si scontra subito con la madre eternamente ansiosa / del respirare stesso
della figlia. Fedra vuole andare a trovare la nonna Clitennestra, il cui
nome appare presto nel discorso della madre. Sia nel dialogo sia nelle
raccomandazioni, accanto alla centrale preoccupazione della madre
(evidentemente invidiosa dell’appeal sessuale della figlia che va ormai
superando il suo; si noti la sua preoccupazione per il vestito succinto e la sua
sollecitudine nel chiudere il mantello e coprire i riccioli di lei) sul
pericolo della perdita della virtù della bambina, si intravvede già l‘immagine
del personaggio principale, il lupo Asterio, implicitamente indicato come
pericoloso tentatore di bambini e poi, esplicitamente presentato (quell’Asterio! / Che là sotto le stelle /
quando la notte è chiara/ quand’è di luna piena, / caaanta!), col suo
fascino di notturno menestrello, bugiardo
d’un lupaccio ammaliatore. Anche nella traversata del bosco, Fedra rallenta
e si ferma per i sentieri, conscia di un’altra presenza, suggerita da labili
segnali: il richiamo di un merlo, invito e promessa insieme, ed un occhio cilestrino che la spia con bizzarro affetto. La sezione iniziale fa
dunque da ouverture del poema,
delineandone le principali tematiche collegate ai personaggi che appariranno in
seguito.
La
seconda sezione del poema (Strano
interludio) è la parte decisamente più estesa, ed è nettamente divisa in
due parti: la prima contiene il dialogo fra il lupo e la bimba, si distende per
circa duemila versi e rappresenta il nucleo concettuale dell’opera, segnando la
ancora inconsapevole evoluzione interiore di Fedra e delineando a tutto tondo
la figura di Asterio, con il suo ardore filosofico e pedagogico che resta in
gran parte, per il momento, ignorato e frainteso dalla interlocutrice. Il
colloquio avviene nel letto della nonna, e la bambina gradualmente scopre il
lupo, senza provare disagio o paura, anzi viene affascinata dal suo folto
pelame bianco. E’ un dialogo che procede faticosamente, perché i due
interlocutori usano linguaggi diversi: il gergo giovanile lei - con
l’aggiuntivo inserimento di espressioni assurde ed errate imitanti il parlar
materno -; la lingua alta ed eloquente della cultura lui, che cerca soprattutto
di inculcare in lei la differenza tra il credere ed il pensare,
oltre che il pericolo del falso
immaginare. Nella voce del lupo poi risuona l’eco della poesia del passato,
con una ricca serie di allusioni dai classici antichi a Dante, da Shakespeare a
Leopardi, da Byron agli Scapigliati ed a Montale. Nella parlata del lupo
brillano inoltre alcuni spunti lirici, come i versi che mi hanno suggerito il
titolo di questa riflessione: Asterio è convinto, come ha appena affermato
Fedra, che esiste la fortuna... e la definisce, alludendo, con delicata
immagine lirica, al loro incontro:
...
è il volo
d’ignara
coccinella
che
nel posarsi incontra un quadrifoglio.
Ma
verso la fine del colloquio il dichiarato amore del lupo per la bimba (amore di
educatore, filosofo e psicopompo) viene completamente frainteso da lei. Questa
parte si chiude con la fuga di Fedra indispettita ed offesa dal rifiuto, da
parte del lupo, della sua offerta erotica, e pur profondamente legata ormai a
lui.
Nella
seconda parte, più breve, dopo che il lupo si è abbandonato a lampi di
citazioni poetiche d’amore (Dante, provenzali, Leopardi), per il suo desiderio
- simile a quello dell’autore dell’autore - di voler individuare e dare senso
alla Parola poetica, Asterio raggiunge Clitennestra, che, quasi per una specie
di contrappasso (il lupo aveva parlato a lungo con Fedra) rivolge ad Asterio
(un tempo suo discepolo) un discorso che
non lascia a lui nessuno spazio: il lupo dovrà limitarsi ad ascoltare,
esprimendo il suo parere con semplici reazioni fisiognomiche, senza poter
pronunciare una sola parola. Clitennestra è la voce della esperienza, della
cultura, anche della conoscenza dell’ornitologia e del valore simbolico delle
creature alate (e si vedano le note illuminanti, redatte dall’autore a questo
riguardo); il suo discorrere ha analogie con la parlata del lupo (che è stato
non a caso suo discepolo), in quanto è di tono alto ed eloquente, ma di una
eloquenza più calcolata e meno istintiva. paradossalmente l’episodio si conclude
con l’unione carnale/spirituale tra la vecchia signora ed il lupo, quasi una
sostituzione del mancato amplesso con Fedra. Ma questo atto mancato - creduto
reale dalla Madre - sarà la causa della fine tragica di Asterio.
La terza sezione (Catabasi),
di 800 versi, segna il ritorno al punto di partenza, il richiudersi del cerchio
e conclude l’opera sistemando al loro posto le tessere del mosaico complessivo,
rivelando, fra l’altro, come Asterio sia venuto in contatto con tutti gli altri
personaggi per contribuire - non certo nel caso della madre, essere statico e
incapace di qualsiasi positiva evoluzione, ma per tutti gli altri, dotati di
potenzialità - alla loro crescita e maturazione. Come nella evoluzione della
tragedia classica, dopo il dialogo ed il monologo si passa, con l’introduzione
del tritagonista, ad una vera e propria azione teatrale, con l’intrecciarsi
delle voci tipicizzate di tre personaggi, due che conosciamo già (la Madre e
Fedra), una nuova, la più nitida e sicura, la voce di Arianna, Signora del
Labirinto, di colei che possiede il filo per guidarci alla conclusione e per
intrecciare, al di là della comprensione materna, un discorso che consente alla
sorella minore di capire quanto le è stato dato da Asterio, così da porsi poi,
nell’episodio del sogno, di fronte al proprio personale Minotauro, affrontando
per la prima volta la propria interiorità e specchiandosi nella propria
coscienza, fino alla consapevolezza che per causa sua il lupo è andato incontro
al proprio destino di morte, abbattuto dalla fucilata della Madre. Ma per
quest’ultima sezione e dei ritratti linguistici di essa tratterò ancora nel
paragrafo successivo.
Tipologia dei personaggi e ritratti
linguistici
Nel
poema l’autore definisce i personaggi attraverso la loro parlata, in cui
svelano, per lo più inconsapevolmente, il carattere, la formazione, la
mentalità, la sensibilità (o l’assoluta assenza di essa). Ciò, si replicherà, è
normale e tipico di qualsiasi opera teatrale. Ne siamo proprio sicuri? In
realtà ciò accade raramente, almeno con le differenziazioni nette che troviamo
in queste pagine; e occorre perciò rilevare come, in questa non facile impresa,
Di Pietro dia davvero prova di qualità letterarie di straordinario, encomiabile
livello. Se noi sfogliamo il libro e leggiamo due o tre versi di una battuta,
subito riconosciamo il personaggio: qui è Asterio che parla, qui è
Clitennestra, qui è Arianna, qui è Fedra (o la madre, in quanto i “ritratti
linguistici” delle due sono confinanti ed intrecciati, come è logico: una bambina
imita istintivamente la madre, assimilandone tipiche espressioni).
Asterio Ippolito o l’educatore. Il vero protagonista, costantemente presente o con le
sue parole o nel pensiero e nelle indicazioni degli altri personaggi, è il lupo
Asterio-Ippolito. Nella visione volutamente rovesciata (“carnevalizzata”) ed
anticonformista dell’autore (non dimentichiamo il titolo generale del ciclo A testa in giù, di cui Phantaasia non Imaginaatio Vera è solo una parte – e si noti, fra l’altro, come quel “non”, essendo
studiatamente attribuibile al primo come al secondo termine, intenda
richiamarsi ai famosi responsi “ambivalenti”, tipici delle sibille
dell’antichità) l’istinto, rappresentato dall’animale, sta al disopra della
ragione: l’animale balza in alto, l’uomo precipita in basso. Asterio il
“bianco” rappresenta la superiorità intellettuale ed etica che, in un mondo
“sbagliato” come quello in cui viviamo, è considerato, per la sua estraneità ai
falsi valori che soltanto quel mondo riconosce, emarginato, condannato come
“diverso”. E’ il destino che già Baudelaire assegnava al poeta nei Fiori del male, quando lo assimilava
all’albatro, uccello maestoso e bellissimo quando domina la tempesta e sfida
l’arciere, goffo ed irriso quando approda sulla tolda della nave, ove ses ailes de géant l’empèchent de marcher.
Lettore di poeti, assimilati dall’educazione ricevuta da Clitennestra, Asterio
usa un linguaggio istintivamente alto e retorico, ricco di citazioni ed
allusioni culturali, con cui fa emergere un atteggiamento di filosofo con
vocazione pedagogica, intrisa di benevolenza nei confronti della bambina che,
addestrata dalla meschinità della madre, equivoca sulle sue intenzioni e,
quando le scopre, si infuria in quanto si sente umiliata dalla mancata
corrispondenza sul piano erotico all’attrazione indubbia che lei prova per il
lupo, il quale ha invece scoperto in lei delle potenzialità sentimentali e
razionali degne di essere coltivate.
Clitennestra è quasi una variante al femminile di Asterio (di cui non
a caso l’autore ipotizza lei nella funzione antecedente e mai deposta di
maestra ed educatrice); infatti tra i due c’è una sostanziale analogia di
linguaggio: la scelta dello stile elevato ed eloquente (tragico lo definivano
gli antichi) è analoga nei due, anche se in lui prevalentemente istintiva, in
lei più voluta e consapevole. L’autore evita (forse perché qui non si sarebbe
potuto realizzare il contrasto chiaroscurale, ovunque sempre presente
nell’opera, fra voci diverse fra di loro?) un vero e proprio dialogo tra i due,
facendo di Asterio un ascoltatore del discorso di Clitennestra, attento sempre,
ora rilassato, ora irritato, ora infelice per ciò che ascolta, ma incapace di
interloquire.
Ma i
ritratti linguistici (e psicologici insieme, se pensiamo, come l’autore, al
potere della Parola poetica di offrire qualche prezioso barlume di verità) che
risaltano maggiormente dalla struttura dialogica, sono quelli della terza
sezione, con il complesso scambio di “battute a tre” che scaturisce
spontaneamente dalla confusa narrazione di Fedra in seguito al suo ritorno dal
bosco, con le vesti “inspiegabilmente” lacere e il corpicino in realtà solo
graffiato dai rovi.
Fedra (e la sua voce, i toni della sua parlata gergal-scolastico-infantile resta
quella che ascoltavamo già nel dialogo col lupo) rappresenta l’ingenuità e la
curiosità; piange e si lamenta, nel finale dialogo a tre, perché il lupo l’ha
rifiutata, ma la Madre non la capisce ed equivoca (per la sua segreta gelosia e
inconfessata voglia... di lupo) sulle sue parole, interpretandole in senso
opposto al loro vero significato. Caratterizzano il linguaggio della bimba,
oltre che il vezzo di allungare le vocali toniche con una lagna infantile,
l’uso improprio e senza dubbio molto divertente del lessico, spesso ricco di maliziosi
doppi sensi, specie nel caso di parole difficili fantasiosamente scorciate o
allungate; e l’utilizzazione del gergo giovanile, di cui l’autore compila in
appendice un elenco con le opportune spiegazioni.
La Madre, dal punto di vista psicologico
caratteriale, per una evidente volontà dell’autore che in lei forse intende
sintetizzare tutto ciò che più odia o che più lo infastidisce, risulta un
personaggio del tutto negativo: è superficiale, incapace di porsi dal punto di
vista altrui, ignorante e di una stupidità tale da ritenersi la più
lungimirante e saggia delle madri; non le manca una buona dose di invidia ed
una inconfessata brutale attrazione verso il lupo, che si muta in odio feroce
quando crede che le sia stata preferita la figlia. L’autore rende evidenti al
lettore questi difetti non soltanto attraverso le cose che la donna dice, ma
attraverso il modo in cui le dice: le scelte lessicali e stilistiche legate al
linguaggio televisivo, gli errori plateali, i toni che denunciano egocentrismo,
grettezza, insensibilità, presunzione. Ne risulta un ritratto linguistico di
eccezionale coerenza e vivacità, capace di dar vita possente ad uno dei
personaggi più detestabili che come lettore io abbia mai incontrato.
Arianna o la cultura organizzatrice. Il personaggio
della sorella maggiore è forse quello risolutivo. Presente di scorcio (la “Nanni”
citata nelle prime battute) fin dall’inizio del poema, trova il suo spazio e la
sua funzione nel finale, ove sembra riprendere la funzione educativa, rimasta
incompiuta, di Asterio nei confronti di Fedra. Risulta dal suo discorso
(razionale e preciso, ma anche allusivo, per farsi capire sufficientemente
dalla bambina impedendo nello stesso tempo la comprensione da parte della
madre) una personalità adulta e sicura, una capacità di riflessione filosofica
(è una studentessa di filosofia, ha conosciuto Asterio e lo ha convinto a
partecipare come esperto ad un seminario). Il suo linguaggio sobrio e misurato
si distacca nettamente da quello degli altri personaggi.
Un’opera
complessa e forse tanto più affascinante in quanto insolitamente ardua, quella
che abbiamo appena letto e sulla quale (o meglio, su alcuni spunti ed aspetti
della quale) ho steso queste mie modeste semplici riflessioni; in effetti,
l’apparente “difficoltà” del poema teatrale di Di Pietro non è di quelle che
deludono o respingono: è di quelle che incuriosiscono, stimolano, spronano a
rileggere e ad approfondire, per tentare di sciogliere gli enigmi residui
presenti frale righe; ed inducono magari il lettore a ricercare nel profondo
della coscienza il confronto con il simbolico Minotauro che, secondo Marguerite
Yourcenar, si annida dentro ciascuno di noi.
Andrea Maia