Presento con immenso piacere la nuova silloge poetica di Roberto Vittorio Di Pietro, anche se l'autore tiene a sottolineare che, più che nuova, a parte alcune composizioni recenti, sostanzialmente il contenuto è una carrellata su quasi tutta la sua opera in versi. Lo scopo del libro è quello di esemplificare quanto spiegato nella premessa (fondamentale!) circa l'effettivo significato di "poesia postmoderna".
L'edizione è corredata da alcune splendide illustrazioni.
Qui sotto la bella copertina cui segue il preludio dell'autore.
Con il beneplacito del poeta, pubblicherò prossimamente alcune sue composizioni a meglio illustrare il senso della "post-modernità poetica".
Ndr: L’eccezionale mosaico dalla viva policromia raffigurante il mito di Orfeo che con la sua musica ammansisce le fiere fu ritrovato nel 1762 a Cagliari, in un’area identificabile con un quartiere della città romana di Karales, sorto alla fine del I secolo a.C. Il contadino Giovanni Saba lo trovò casualmente arando un suo terreno e verosimilmente fu lui stesso a venderlo, causandone lo smembramento in più parti per facilitarne il trasporto a Torino, allora capitale del Regno di Sardegna: del mosaico originale si conservano quindi oggi solo alcune porzioni. Il mosaico si trova presso i Musei Reali di Torino, per tale ragione ho scelto questo capolavoro, e non solo per illustrare la silloge, ma anche perché l'autore vive nel capoluogo piemontese.
“Questa, ch’io intitolo Il Teatro Comico,
piuttosto che una Commedia, Prefazione può dirsi alle mie commedie […] In
questa qualunque siasi composizione, ho inteso di palesemente notare una gran
parte di que’ difetti che ho procurato sfuggire, e tutti que’ fondamenti su’
quali il metodo mio ho stabilito…”
(Carlo Goldoni – L’Autore a chi legge)
“Viviamo in una società letteraria basata
sulla molteplicità dei linguaggi, e soprattutto sulla coscienza di questa
molteplicità. Beato chi ha un modo e uno solo d’esprimersi ed è sempre sicuro e
pago di quello. Ma beato anche Picasso che adopera contemporaneamente i
linguaggi più diversi, in un unico slancio di libertà, ed è sempre Picasso.”
(Italo Calvino)
P R E L U D I O…
a guisa di
PRESENTAZIONE
Circa mezzo secolo fa, Ihab
Hassan, docente emerito di letteratura inglese e letterature comparate presso
la Wisconsin-Milwaukee University, U.S.A., dava alle stampe un importante
saggio critico intitolato The
dismemberment of Orpheus (“Lo smembramento di Orfeo”), destinato a divenire ben presto oggetto di interesse, di studio e
di dibattito a livello internazionale. Vi
si offriva una meticolosa analisi del “postmodernismo” in quanto già allora
insopprimibile presenza/tendenza nella letteratura e nelle arti in genere; e a
suggellare la tesi di fondo che ne emergeva – ovvero, la ormai necessaria presa
di coscienza di una rischiosa labilità dei linguaggi dovuta alla loro crescente
destrutturazione, e delle conseguenti maggiori responsabilità da volersi
assumere (da parte di ogni artista, degno di chiamarsi tale) nell’utilizzo dei
medesimi come proficuo strumento di comunicazione – Hassan ricorreva metaforicamente
all’immagine plastica di un Orfeo ammutolito poiché intento a suonare “una cetra priva di corde.”
Cercherò di ricapitolare, nel
modo più schematico possibile, quanto da me già esposto in altre sedi per
mettere a fuoco perlomeno alcuni connotati fra i più emblematici di quella
nuova corrente ormai dovunque definita “postmoderna” (seppure, occorre dirlo
subito, senza una linea di demarcazione cronologica nettamente individuabile)
nelle forme della creatività artistica, letteraria in particolare.
Dovendo per forza assumere il
“modernismo” come terminus a quo,
sarebbe sicuramente opportuno poterne differenziare i contenuti e la portata a
seconda delle nazioni (non solo europee) e dei tempi distinti in cui quel
fenomeno anteriore si era verificato; anche se i comparatisti concordano nel
voler accomunare sotto un’unica bandiera l’ampia rivoluzione culturale,
artistica e letteraria segnatamente culminata nel primo trentennio del secolo
scorso. Ciò che tuttavia più importa in ultima analisi è che, dopo aver ugualmente
fatto terra bruciata e piazza pulita attraverso le pur distinte molteplici
sperimentazioni avanguardistiche
(dadaismo, surrealismo, futurismo… -- ma l’elenco completo degli
“ismi”pertinenti sia dato per scontato), insomma dopo tutto quanto si suole
attribuire al ciclo del “modernismo” nell’insieme caratterizzato da un rifiuto
delle forme tradizionali e da una loro radicale sovversione programmatica, ci
si rendeva ovunque conto che molto oltre non si poteva andare. Cominciare a
ragionare in termini post-moderni
significava, in qualche modo paradossalmente, voler regredire per tornare ad
avanzare: in sostanza, volersi
proiettare all’indietro verso i diversi lasciti della secolare tradizione occidentale,
ma non solo – capisaldi culturali ritenuti in ogni caso determinanti e
ineludibili (cfr. il cosiddetto “circolo ermeneutico” delineato dal filosofo
Georg Gadamer) -- per rivisitarli in una nuova luce e angolatura prospettica: per
superarne gli aspetti più logori, deteriori e quindi inutilmente vincolanti, ma
al tempo stesso riutilizzandone con criterio una sottostante linfa non
trascurabile.
Di qui il “gioco” strumentale
dell’ironia, della satira, della parodia del passato, del citazionismo
oltranzista, dell’ibridazione linguistica, del fumettismo tragicomico, del
rovesciamento provvisorio dei valori secondo il concetto di “carnevalizzazione
letteraria” (notoriamente introdotto da Michail Bachtin); come pure il ritorno
al romanzo storico con intenti perlopiù demistificatori -- il tutto, e lo
sottolineo per poi ritornare sull’argomento, all’insegna di una assoluta libertà di scelta sia nella commistione dei generi e degli stili letterari
(o “sdefinizione”, come preferiva genericamente chiamarla il famoso critico
d’arte Harold Rosenberg), sia nell’eventuale recupero di canoni di scrittura anche
desueti qualora giudicati funzionali in rapporto alle particolari esigenze
espressive di ciascun autore.
Non si può certo dire che la
storiografia letteraria non mostrasse già clamorosi esempi di postmodernismo ante litteram: valga per tutti il
celebre Tristram Shandy dello Sterne;
ma si potrebbe a buon diritto anche pensare all’eteroglossia provocatoria di un
Rabelais, o addirittura al Barocco in senso lato. E qui, per inciso, una
considerazione: certa critica non si è peritata di istituire un parallelo (per
molti aspetti sostenibile) fra letteratura barocca e letteratura postmoderna
come analogo tentativo di esorcizzare i sintomi di una specifica crisi epocale.
Vediamo soprattutto, però,
per quale ragione non vada reputata una scelta arbitraria la “commistione dei
generi”, trovando essa una sufficiente giustificazione nelle teorie filosofiche
sulle quali alcuni principali orientamenti estetici postmoderni in buona parte
poggiano. Eccone il presupposto logico più attendibile, direi, come evidenziato
anni fa da Gianni Vattimo, del resto in linea con il succitato Gadamer, Richard
Rorty ed altri eminenti rappresentanti della scuola di pensiero cosiddetta
“ermeneutica” a livello internazionale: in un mondo ormai privo di barriere e
confini, inevitabilmente globalizzato se non altro attraverso la capillarità delle
comunicazioni telematiche, non potendosi più parlare di un’unica realtà
circoscrivibile, il “plurivoco” si affaccia come elemento fondante di ogni
relazione interpersonale; sicché il concetto di “opera aperta” assurge come
equivalente letterario di una dialettica che esclude a priori una dipendenza da qualunque genere di valore cosiddetto
“forte” – diciamo pure, da qualsiasi criterio di giudizio dogmatico unilaterale,
da considerarsi assoluto e indiscutibile. Non va del resto dimenticato come il
romanzo “polifonico” di Dostojevskji anticipi certe successive riflessioni
critiche di Roland Barthes e dei suoi seguaci circa la cosiddetta “morte dell’autore”:
specie di quel tipico “autore onnisciente” che aveva imperato in quasi tutta la
narrativa dell’Ottocento, e non solo. Infine, servisse una distinzione in
termini ‘etici’ fra la letteratura modernista e quella post-modernista, si potrebbe
parlare di un graduale abbandono dell’arte per l’arte a favore dell’arte per la vita. Ma con quale esito
poco rassicurante in questi ultimi decenni? Mi riservo di azzardare alcune
conclusioni personali nel prosieguo.
Tornando al saggio critico di
Hassan, come l’autore al tempo stesso non esitava a riconoscere, nel
postmoderno è senz’altro verificabile una coesistenza simbiotica fra unità e
rottura, derivazione e sovvertimento, continuità e innovazione. Del resto, la
sussistenza fondamentale dell’aggettivo “moderno” nel termine “post-moderno” è
di per sé chiaro indice di come certe consuetudini del passato, pur
evolvendosi, in ogni caso permangano: quasi fossero il tronco e i vigorosi rami
di un albero fruttifero da non doversi né potersi sradicare, si prestano solo
ad avvedute operazioni di potatura o, non di rado, di reciproco innesto. Fuor
di metafora: alcuni di quei paradigmi espressivi del passato, avendo peraltro
essi stessi tratto origine da anteriori normative mai del tutto arbitrarie,
lungi dal poter divenire da un giorno all’altro inutile zavorra, costituiscono
in realtà un punto di riferimento essenziale per ogni successiva consapevole
revisione sia della forma, sia di quest’ultima in funzione di un processo non meno
oculato di storicizzazione/attualizzazione dei contenuti. E qui vorrei ribadire
una dichiarazione di John Barth (in “Fiction
postmodernista”), che tuttora non esito a sottoscrivere in quanto vi trovo
fra le righe anche un invito a non annegare spensieratamente il bambino nella
vasca dell’acqua sporca: ”Il mio scrittore ideale postmoderno non imita e non
ripudia né i suoi genitori novecenteschi, né i suoi nonni ottocenteschi. Ha
digerito il passato ma non lo porta sulle spalle come un peso morto.”
Ecco perché, nel soffermarmi
su alcune caratteristiche salienti del postmoderno, già in altra sede avevo
evidenziato il concetto heideggeriano di Verwindung:
termine con cui, nella filosofia ermeneutica, si intende indicare “una ripresa della tradizione
con qualche necessaria distorsione”. Umberto Eco, da autorevole filosofo/semiologo
e letterato postmoderno in prima persona, per parte sua affermava: “La risposta
post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non
può essere distrutto perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato
con ironia, in modo non innocente.”
[Il corsivo è mio] In questa chiave, quindi, si tratta pur sempre di una
“rivisitazione” affidata senza pregiudiziali di sorta ad un istinto creativo libero, sì, ma per l’appunto “non
innocente”: fondamentalmente scaltrito, diremmo, attraverso una solida contezza e coscienza
critica della natura delle radici che in quel retroterra storico-culturale
affondano.
“Quanta parte di furbesco escamotage
potrebbe altrimenti nascondersi dietro una sregolatezza assunta come nuova
norma inderogabile e uguale per tutti?” (Un interrogativo, questo, che
osavo già pormi parecchi anni fa, nella prefazione alla mia silloge in lingua
inglese It’s starlight, though). Sia
come sia, di questo passo si ricade comunque, anche nel più innocente dei casi, nella trappola di un
discutibile quanto sterile “conformismo alla rovescia”. Ma già a tanto non si
sarebbe forse arrivati da un bel pezzo? Si pensi anche solo ad alcuni di quei
vezzi grafici puntualmente ricorrenti nella veste formale di certa poesia
contemporanea (quali, ad esempio, l’ormai doverosa eliminazione della punteggiatura;
oppure la consuetudine ad abbandonare capricciosamente in punta di verso ora i
pronomi, ora le preposizioni, ora finanche i semplici articoli determinativi… e
via discorrendo): una ben nota congerie di manierismi bizzarri non meglio
motivabili, nel complesso ripresi pari
pari da vecchie mode avanguardistiche di taglio volutamente trasgressivo:
”mode”, per l’appunto, come tali di originalità effimera, e nondimeno credute
ancora meritevoli di mantenersi in auge? Anzi, ingenuamente acquisite -- non
dico su scala mondiale, ma forse un po’ troppo spesso a casa nostra -- come marchio di fabbrica indelebile e onorevole distintivo
della più ‘evoluta’ (sic) scrittura
poetica dei tempi attuali.
Per contro, quantunque
paradossale il concetto possa sembrare, si fa Arte postmoderna tanto più
legittimamente libera quanto più
autonomamente ogni singolo autore scelga di sottoporla con giudizio alle regole di un determinato “gioco”; ed
esso stesso nemmeno gratuito, bensì studiatamente vincolato a qualche eventuale
più ampio disegno artistico ritenuto innovativo. In questo senso, credo essenziale la lezione di Jorge Luis Borges (“jugar en serio”: giocare, sì, ma con
serietà), da me già sottolineata a ragion veduta in un saggio critico dedicato
a questo autore, e di fatto omaggiata nel contesto del mio “trio musicale” intitolato
In un diario odeporico. In effetti,
sul versante operativo della poesia in particolare, uno spunto per me di
particolare interesse (come già detto altrove) è costituito dalla seguente
citazione borgesiana (tratta da Lezioni
Americane - Invenzione della poesia): “Se la narrazione di una storia e la
declamazione di una poesia tornassero ad unirsi, potrebbe succedere qualcosa di
grande e molto importante. Gli uomini non si stancheranno mai di raccontare
storie. E se al piacere di ascoltare un racconto si associa il piacere
procurato dalla nobile fattura del verso, allora il poeta potrà dirsi
nuovamente un artefice a tutto tondo. Voglio dire che si dimostrerà capace di narrare una storia e di cantarla pure; e noi non percepiremo le
due cose come distinte, così come una volta non le percepivamo diverse in Omero
o Virgilio.”
E che dire di Julio Cortázar,
altro fine e affascinante scrittore argentino di scuola decisamente postmoderna?
Non a caso fedele seguace e dichiarato ammiratore di Borges, delle sue teorie, di
tutta quanta la sua creatività letteraria. Quel medesimo Cortázar che, quasi a
voler dimostrare quale ruolo tuttora insostituibile conservi la punteggiatura
nel contesto della letteratura postmoderna, non esitava a definire la virgola
”porta girevole del pensiero”; e ad esemplificare in concreto come intorno alla
presenza o assenza non casuale di questo ricciolino da nulla ruoti il concetto
maiuscolo di Ambiguità (secondo William Empson, non lo si dimentichi, fattore
da sempre cruciale specie nell’ambito della poesia).
La formula letteraria adottata
da Cortázar nel 1963 per il suo antiromanzo Rayuela
(“Il gioco del mondo”, nella successiva traduzione italiana) mi ispirava, per
sommi capi, la strutturazione formale della silloge poetica Rock bottom remainders.
N.B. [ (*) inserire come nota a piè di pagina: Sul versante della prosa, il mio provocatorio “postromanzo nonsologiallo”
dal titolo ISTA! PISTA! SISTA! (scritto nel 1993 e pubblicato nel 2010) ne
costituiva un antecedente, sebbene concepito secondo parametri postmoderni di
tutt’altra natura; come, d’altronde, si può dire del poemetto Phantaasia non Imaginaatio Vera (2001), nel cui
taglio dichiaratamente “a testa in giù” spiccava in particolare un diverso
elemento-chiave della letteratura postmoderna: quello della
“carnevalizzazione”, di bachtiniana memoria.] Lo indicavo in modo
sufficientemente esplicito. Persino al posto del solito indice in fondo al
volume, utilizzavo di proposito la
stessa dicitura usata dallo scrittore argentino per il suo libro: ”tavola di
orientamento”.
Come già per l’opera
cortazariana, Remainders era in
effetti concepito in modo tale che il lettore potesse seguire il ‘destino’ dei
personaggi tra le pagine senza che uno svolgimento progressivo della trama
fosse l’elemento precipuo e determinante. In altri termini, la lettura
logico-sequenziale delle parti, pur essendo implicitamente raccomandata nella
definizione del testo come “silloge nonsologialla”,
era di fatto soltanto una delle molteplici possibilità di fruizione dell’opera:
sotto vari aspetti anche una sorta di ‘caccia al tesoro’ proposta al lettore
mediante piccoli enigmi e quiz letterari disseminati strada facendo. Oltre ad
alcuni ammiccanti rinvii a note composizioni musicali di Richard Strauss (cfr. I tiri burloni di Till Eulenspiegel), un
altro più vistoso segnale di maggiore importanza era l’intitolazione di due
ampie sezioni del libro con il termine Satura. A prescindere da tutto quanto in quel
vocabolo è già semanticamente sottinteso secondo la tradizione letteraria, mi
premeva poter così recuperare un ulteriore peso specifico insito nell’uso che
aveva ritenuto di farne quel certo Montale “seconda maniera” per compendiarvi
un multiforme processo di desublimazione del testo poetico -- quasi a voler
anche esplicitare la sua sopravvenuta coscienza di una necessaria, ormai
ineluttabile Verwindung postmoderna
nei modi del poetare? Vale la pena di domandarselo.
Certo l’ondata di
sperimentalismo poetico della Neoavanguardia italiana degli anni Sessanta, nata
dallo sfaldamento delle certezze del dopoguerra, non poteva averlo lasciato
indifferente: di là dalle specifiche posizioni ideologiche, di là dalle
discutibili spinte neofuturiste che sembravano ispirarla anche all’insegna del
comune rifiuto di un lirismo crepuscolare per molti aspetti ancora vivo e
giudicato artificioso, ciò che di quell’intera corrente poteva dirsi un
elemento caratterizzante realmente nuovo e insolito (già di spirito post-moderno?), degno di sicuro
interesse, era la totale assenza di manifesti letterari di per sé restrittivi,
livellatori e vincolanti; ne derivava una scontata libertà assoluta, da parte
dei singoli scrittori, di assecondare ciascuno a modo proprio le rispettive
inclinazioni artistiche, e quindi di poter elaborare in completa autonomia di
giudizio le proprie individuali strategie creative. E però, se si pensa alla
sua intensa frequentazione di studioso con la cultura internazionale in genere,
e con quella anglosassone in primis,
credo non sia illecita né illogica l’ipotesi di una eventuale dimestichezza del
poeta anche con il suddetto saggio di
Hassan, resosi disponibile presso la Oxford University Press nel 1971 -- ovvero
proprio durante gli anni di quella svolta stilistica “inopinata” che tante
perplessità aveva immediatamente suscitato fra i critici di casa nostra, pur
senza precludergli l’assegnazione del Nobel per la letteratura nel 1975. Di
audacia apicale definirei quel Diario del ’71 e del ‘72 in cui si
affaccia, senza precedenti altrettanto spiccati da parte sua, una certa volontà
e straordinaria capacità (e la direi paragonabile a quella tipica di W. H.
Auden) di usare il metronomo della versificazione al solo scopo di poter
‘pensare meglio’ a ritmo di musica nel divagare sfrenatamente intorno agli
spunti filosofici più disparati e il meno tradizionalmente ‘poetici’ che fino
ad allora si potessero immaginare. Per ricorrere a un’espressione curiosa ma
eloquente dello stesso Montale, si trattava di voler accogliere senza scandalo
né eccessivo stupore quel suo passaggio (o l’alternarsi? o il coesistere? in
termini postmodernamente ironici/autoironici?) da una scrittura poetica “in
frac” a una scrittura “in pigiama”; non già sforzandosi di
interpretare quella sua nuova costante come provocazione fine a se stessa, o
come sintomo di una crisi strettamente personale, bensì cercando magari di
ricondurre il fenomeno alle superiori istanze storiche e culturali che lo avevano praticamente imposto.
Va ricordato che, all’epoca,
uno degli assensi critici più convinti e incisivi che l’intero Novecento abbia riservato
all’opera di Montale fu senz’altro quello del grande poeta russo Iosif Brodskij,
che così si esprimeva: “Eugenio Montale è una specie di anacronismo, e la
dimensione del suo contributo alla poesia è stato anacronisticamente grande […]
Un poeta italiano che voglia fare un passo avanti deve prima rimuovere gli
ostacoli ammucchiati dal traffico del passato e del presente, e quelli del
presente, forse, sono stati per Montale i più facili da rimuovere.” Alludeva
qui alle propaggini di una pesante “classicità” tramandata attraverso la nostra
letteratura (le “pampinee fronde”, come le avrebbe chiamate il Poliziano), da
troppo tempo fortemente radicate e perciò assai più difficilmente estirpabili. “All’eloquenza
della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di
una controeloquenza”: non si sa se questa asserzione montaliana gli fosse nota;
ma non è un caso che sia stato proprio Brodskji, con lo sguardo autorevole di un
artista straniero super partes, ad
apprezzare subito pienamente la cosiddetta nuova
poesia dello scrittore ligure: quella che con l’avvento di Satura venne a configurarsi come
l’esperienza italiana allora più innovativa anche dal punto di vista delle
soluzioni lessicali e formali in genere.
Se è vero che nella
creatività del “secondo Montale” affiorano svariati indizi di un postmodernismo
de facto, un importante merito va di
pari passo riconosciuto a questo poeta: quello di aver saputo discernere con
eccezionale acume -- e scelto di visitare a modo proprio e per proprio uso -- alcune
direttrici fra le meno gratuite, e pertanto ‘saggiamente’ percorribili, nel
migliore filone letterario modernista di mezza Europa. E non mi riferisco soltanto al famoso
accorgimento tecnico del “correlativo
oggettivo” (derivatogli da una dimestichezza diretta con gli stilemi di un
T. S. Eliot, alle cui spalle torreggiavano peraltro il baluardo di Dante e il
presidio dei grandi Poeti Metafisici inglesi del Seicento); penso alla
concomitante elaborazione (specie dagli Ossi
fino a Le occasioni, ma anche oltre)
di un “simbolismo” di cifra peculiare, nei suoi indirizzi ben distinto e
lontano dalle rarefazioni perseguite, ad esempio, da un Mallarmé: per contro
saldamente ancorato ad immagini, figure, situazioni concrete, personaggi
strumentali, o finanche comunissimi oggetti del vivere quotidiano di colpo
investiti di valori “epifanici” (e qui Joyce e la Woolf già insegnavano); e
tuttavia parimenti aperto ora alle più sottili reminiscenze ermetiche, ora agli
avventurosi circuiti metaforici di un Laforgue; e, volendo, senza trascurare
alcuni sbalzi di quell’acmeismo discutibilmente “antisimbolista” di un certo Mandel’stam.
Per tacere, beninteso, di quei diversi “padri/maestri” a lui cari e da lui
stesso accostati in una linea di ricerca
idealmente congeniale: “…da Baudelaire ad un certo Browning, una poesia non
realistica, non romantica e nemmeno strettamente decadente, che molto
all’ingrosso si può definire metafisica…che nasce dal cozzo della ragione con
qualcosa che non è ragione.”
In ogni caso come per Eliot,
come per non pochi altri autori modernisti affratellati da un’inclinazione
creativa per così dire “diversamente realista o simbolista malgré soi”, nelle sue strategie comunicative qualunque dato
sensibile della realtà immediata si presta non di rado a farsi filtro/camuffamento/sottrazione/dispersione
dell’io lirico e, per paradossale difetto, lente di ingrandimento dei più
riposti stati d’animo del poeta.
Se ho voluto indugiare così a
lungo su tutte queste particolari lezioni di un “passato non inutile”, e perciò
rivisitabile in modo “non innocente”, è perché le ho sempre giudicate sostanzialmente
proficue e quindi, in buona misura, tuttora recuperabili forse non solo ai fini
di alcune mie occasionali modalità nel fare poesia. D’altra parte, nella
fisionomia dell’artista Montale in quanto ‘critico dell’opera altrui’, risalta un
ulteriore tratto distintivo che qui vorrei segnalare poiché lo percepisco
ugualmente vicino alla mia sensibilità. Lo illustrerei con una citazione
diretta, dove è indubbio che il poeta ligure potrebbe altrettanto propriamente
parlare di se stesso: “Eliot fa vibrare dal sottosuolo del lessico più comune
tutte le possibili armoniche. E’ un lirico per il quale la musica è
importantissima, ma non prende il soppravvento sulla razionalità, sull’elemento
concettuale e filosofico.”
E arriviamo finalmente al
dunque. Perché mai avrei voluto pubblicare quest’altro libro e, in special
modo, intitolarlo ORFEO, ORA PUOI? Se
non altro la ragione più ovvia della scelta di questo titolo in sé e per sé
pregnante, la si dovrebbe già poter desumere ricollegandola all’insieme di indicazioni
‘tecniche’ non casuali in questa mia premessa -- fin troppo estesa? e forse
carica di eccessive riflessioni a latere
per quanto confluenti? Ciò malgrado, ancora piuttosto deplorevolmente riduttiva
rispetto all’importanza che gli argomenti, qui appena sfiorati di striscio, continuano
a rivestire nello scenario artistico e critico-letterario contemporaneo.
Quanto al resto, diciamo che
nel soppesare l’effettiva necessità di una nuova raccolta di componimenti poetici
– troppo pochi, e perlopiù già occasionalmente pubblicati in ordine
sparso dal novembre 2014 a questa parte (e magari definirli “altri versi”?
quasi che altri ancora ne occorressero?) -- mi ero prefisso il semplice
tentativo di raggrupparli in modo più o meno organico nell’ambito di alcuni
nuclei tematici presenti in ognuna delle mie sillogi, ove questi mi fossero
parsi qua e là suscettibili di qualche sviluppo marginale, o talvolta di
letture in diversa prospettiva. Una simile impresa mi si dimostrava tuttavia,
oltre che letterariamente pleonastica, forse anche fuorviante senza il minimo
supporto collaterale di alcune tessere ricavate dal mosaico complessivo di
quasi tutte le mie sillogi fondamentali. (Ma poi? Non fosse altro che per
ragioni di spazio, doverne estrapolare solamente i testi più brevi? escludendone altri forse maggiormente rappresentativi
di una certa impronta postmoderna nella mia vena poetica in generale?) Dopo non
poche remore, indispensabili rinunce -- e perduranti incertezze circa
l’opinabile efficacia anche nella distribuzione e nell’accostamento del
materiale selezionato – confesso di essermi risolto a dare alle stampe questo
volume esclusivamente in virtù di quel titolo significativo da potergli
attribuire. Sono infatti riuscito a persuadermi che la mia progettualità
poetica possa giovarsi in toto, anche
retrospettivamente, delle più illuminanti aperture esegetiche che in qualche
modo ne discendono.
Eccone le due motivazioni
basilari. Da un lato, la possibilità di riallacciarmi direttamente al titolo
stesso del saggio teorico di Hassan in quanto pietra miliare nello studio dei principali indirizzi
caratteristici della letteratura postmoderna, da me in buona parte condivisi e
di fatto anche seguiti (come del resto già segnalavo sia in alcuni scritti, sia
nel corso di conferenze o di presentazioni di mie opere al pubblico). E,
dall’altro, non secondariamente, perché se è vero (tornando ad Umberto Eco) che
“la distruzione del passato porta al silenzio”,
dal canto mio preferirei ancora credere un tantino disfattista l’icona
metaforica già privilegiata da Hassan per connotare una indubbia vocazione
centrifuga nei linguaggi dell’arte contemporanea: intendo quella raffigurazione
di un Orfeo Cantore/Poeta miseramente rimasto alle prese con una cetra “ammutolita”,
insomma inerte poiché priva di quell’apparato essenziale che sono le sue corde.
Dal mio punto di vista, invece, se il “frac”
(montalianamente inteso) può di fatto rievocare l’immagine di un Orfeo
lirico/elegiaco nostalgicamente ancora chino sulla sua antica cetra, il “pigiama” potrebbe efficacemente
suggerire il suo occasionale bisogno di imbracciare un diverso strumento a
corde: diciamo pure quel bouzouki che
tipicamente s’accompagna alla canzone rebetika
più vicina ai giorni nostri: un tricordo che, per quanto dimesso possa
apparire, è ciò nondimeno poeticamente altrettanto pregevole per la musica
ellenica popolare contemporanea. Sicché, il passare alternativamente dal frac al pigiama, e viceversa, può costituire un pressoché analogo invito
all’Orfeo postmoderno a volersi e sapersi liberamente cimentare nel canto ora
con l’uno, ora con l’altro strumento a seconda degli umori mutevoli e delle
relative impellenze ad esprimersi in maniera ‘musicalmente’ differenziata. In
parallelo, a mo’ di contrafforte al mio stesso modo di ‘poetar-cantando’(e, forse
conviene ribadirlo, appagando così una mia esigenza personale del tutto legittima anch’essa nell’ambito delle molteplici
opzioni espressive ormai incondizionate) in ottemperanza alle norme di un
solfeggio pur sempre imprescindibile per la strutturazione di qualsiasi
partitura di musica in quanto tale,
sia essa lirica, classica, sinfonica o per contro decisamente leggera,
ritmicamente brillante, o persino indiavolata e intonata a pieni polmoni, il
titolo di questo libro ambivo a ricollegarlo scopertamente ad un celebre
pensiero di Rainer Maria Rilke, così compendiabile:
Metamorfosi è Orfeo:
in questo o in quello, sempre,
dove c’è
CANTO
è Orfeo che viene e va.
E rivisitare la metrica
tradizionale “in modo ironico, non innocente”, che può significare? Resti al
lettore ‘saputo’ ogni migliore riflessione.
Questa mia proposta sui generis potrebbe forse suggerire una
presa di distanza dalla particolare accezione di orfismo che informava i ”canti” di Dino Campana; e in effetti la
implica, ma solo in quanto vi si rispecchiava l’aspirazione del poeta ad una
Parola assoluta di valenza misterico-iniziatica, ad un tempo veicolo e faro di
una Verità definitivamente raggiunta. Certo l’Orfeo che sta dietro il reietto
marradese è un personaggio che (al pari di un Baudelaire?) tende ad imporsi per
una reale urgenza di “cantare” senza diaframmi la propria “storia vera”; eppure, nel tardo decadentismo europeo in
cui si inquadra, la voce “orfica” del Campana che nel narrare/confessare/illustrare/sceneggiare
quella sua “storia” fa leva con
precipua sincerità sulle profonde sollecitazioni
intime che davvero la necessitano (sotto questo profilo come non accostarlo anche
alla figura di un’Alda Merini?) si segnala da ultimo come propensione a voler
trascendere anche se stessa per poter proclamare, in un implicito ambizioso
confronto, un superiore ideale di purezza
rispetto alle storture morali e alle ipocrisie della contemporaneità.
In questa luce, credo che
l’Orfeo/Poeta evocato da Campana come proprio nume tutelare (di là da ogni suo
strumento espressivo soggetto alla naturale caducità delle mode canore e alla “vana
gloria de l’umane posse”) riesca a tramandarci un sottofondo etico da saper coscienziosamente
raccogliere specie in questi tempi di
‘blog personali’ e diaristica telematica non di rado straripante di una
compiaciuta auto-fiction ormai
bruciata come incenso votivo sugli
innumeri altari della cosiddetta post-verità.
Un lascito, il suo, che ricontestualizzato in termini di letteratura
postmoderna e quindi di sopravvenute maggiori libertà da potersi esercitare
anche, e forse soprattutto, verso una veritiera
attualizzazione dei contenuti, peraltro invita a voler rifuggire sempre meno
schifiltosamente da tutto quanto di altrimenti ‘antiestetico’ (ma per ciò
automaticamente impoetico?) appartiene alla cronaca mediatica dei sempre meno ‘gradevoli’
avvenimenti quotidiani; a patto che, laddove vi si attinga, di volta in volta
ne traspaia un sofferto coinvolgimento emotivo da parte dell’artista nell’agone
sociale/economico/politico che quelle ‘sgradevolezze’ le determina o le
condiziona.
“Alla grande mostra di Venezia anni fa
era esposto il ritratto di un mongoloide:
era un argomento très dégoûtant,
ma perché no? L’arte può giustificare tutto.”
Tratta dalla ben nota
prolusione tenuta da Montale per il Nobel, questa battuta appena parentetica in
quel contesto, non è invece, a ben voler ragionare, per nulla superflua data la
sua capacità di rammentarci come nella nuda realtà del vivere, dell’agire, del
mero transitare da esseri pensanti su questo nostro pianeta sia presente,
purtroppo, una cospicua parte di innegabile non
bellezza che soltanto grazie alle arcane alchimie trasfiguratrici dell’Arte
può essere in potenza riconsiderata, creativamente rimodellata, addirittura
capovolta e di fatto esteticamente riscattata.
Ma, già che ci siamo,
esaminando il binomio venustà-veracità anche in rapporto a particolari scelte sul
piano squisitamente formale della scrittura, perché non ricordare come dai
seguenti versi appartenenti agli esordi del Montale poeta nel lontano 1925:
“Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o
acanti.”
ci provenga un altro
insegnamento, diretto e assai più esplicito (di valore soltanto
teorico-programmatico? trovandosi poi ad essere applicato con dubbia coerenza
nella pratica in prima persona? ma il più delle volte con quanta larvata
ironia!) che converrebbe in ogni caso apprezzare e saper coltivare a fronte di
certe malaugurate tentazioni tutt’oggi dure a morire. Intendo quel gusto serioso per una certa ampollosità del
lessico poetico, nella seria
convinzione che non potrebbe darsi testo di “buona poesia” diverso da una esuberante
torta nuziale; o, male che vada, da una sufficiente macedonia di arzigogolati preziosismi
(di sapore pseudo-dannunziano? c’è chi direbbe addirittura culterano): spesso,
purtroppo, orpelli palesemente superflui e stucchevoli perché palpabilmente artefatti:
tutt’altro che suffragati da qualche genuina – e, se tale davvero, di certo non
illegittima -- profonda pulsione di ascendenza culturale istintivamente
veicolata dal poeta in quella e solo quella irrinunciabile direzione.
La mia succitata ultima
silloge “nonsologialla” (il cui
titolo particolare – Rock bottom
remainders – riprendeva allusivamente il nome di una rock band di cui aveva fatto parte il noto giallista Stephen King,
ma rimane in ogni caso traducibile, e per me non a caso, come “ultimissimi
fondi di magazzino”: con “una pietra sopra”, a voler mutuare questa espressione
lapidaria dal Calvino letterato/saggista intento a tirare alcune somme
nell’evoluzione del proprio pensiero) si chiudeva deliberatamente con un Commiato rivolto all’autore prima ancora
che al lettore. Era una sorta di xenium
riservato all’Ospite per eccellenza (Hospes
comesque corporis) che in questa vita per l’essere umano è la propria Anima.
Il sottotitolo fondamentale -- Scacco al
Re -- intendeva tuttavia
configurarsi non soltanto come un omaggio, bensì come una mia meditata resa in extremis a quell’animula vagula blandula in fondo depositaria di quel certo impulso
“ctonio/istintuale/mitopoietico”
rivelatosi -- per mia esperienza e personale sentire -- se non meno
infido anch’esso in alcune sue intrinseche facoltà, per molti altri aspetti
forse meno sprovveduto di quello eminentemente “razionale” nella ricerca di una
pur minima veritiera via d’uscita dagli insidiosi meandri del dedalo affettivo/etico/estetico/ideologico/fideistico,
o meglio esistenziale tout court.
Se parecchi anni prima, nel
corso di una conferenza, avevo dichiarato una mia sostanziale adesione all’approccio
di natura prettamente cerebrale/intellettualistica offerto dal Calvino
postmoderno nel celebre racconto di T con
zero intitolato Il Conte di
Montecristo (alla cui sottile argomentazione mi limito a rimandare), qui mi
premeva suggerire come alla fin fine, in un’ottica più matura, fossi dovuto
scendere a meno presuntuosi consigli. Peraltro, in contemporanea, insinuavo
così una risposta indiretta a quel Montale che, dissertando in tono ingannevolmente
scanzonato (e, lo si badi, in quel mentre alternando con mirabile disinvoltura
postmoderna un lessico “in frac” ad
un altro “in pigiama”!) nella sua altrettanto celebre lirica L’angosciante questione, sollevava la
mai sopita disputa fra illuministi/classicisti e romantici nello stabilire se
la poesia nasca dal freddo, lento e tenace lavorio della Mente, oppure sgorghi
come intuizione repentina dal Sentimento, dal calore del Cuore. Notoriamente Montale
giungeva alla negazione di entrambe le tesi: nella sua versione, fin qui piuttosto
condivisibile, le parole del poeta semplicemente premono perché esigono di
uscire all’esterno ed essere scritte. Sennonché – questo era in definitiva il
suo convincimento tragicamente
autoironico al quale, nonostante tutto, oggi mi riesce sempre meno facile
sottrarmi – quando le parole vengono alla luce e trovano la loro forma
espressiva poetica, esse devono ormai convenire che la poesia non è solamente “prodotto
inutile”, ma non può più arrogarsi alcun ruolo né scopo vitale:
“Appena fuori
si guardano d’attorno e hanno l’aria di
dirsi:
che sto a farci?”
In una società di massa prevalentemente
consumistica/utilitaristica, o di stampo ”post-umanistico” (come del resto, per
più complesse ragioni, la si trova definita altrove dallo stesso Ihab Hassan),
vuoi perché ormai attratta e distratta da un chiacchiericcio telematico
divenuto ovunque ingovernabile, vuoi perché imbevuta di letteratura cosiddetta
bellettristica che di per sé alimenta un bisogno assiduo di evasione analgesica
nel ‘non pensiero’ ivi compreso quello propalato dalla filosofia spicciola
delle canzonette di turno; vuoi ancora perché succube di un generico
umanitarismo di facciata, perlopiù solo retorico ahimè, e tanto più sospetto in
quanto incline a consegnare quasi esclusivamente agli invincibili Supereroi del
cartone animato, del videogame e del
fumetto cult il proprio miglior
modello di “arte per la vita”, oggi oso chiedermi con pragmatica obiettività: a
quale forma di mitica Elpìs, a quale
prometeico “pietoso inganno”, a quale illusoria autostima può ancora
aggrapparsi ad ogni costo un ipotetico Orfeo dei giorni nostri? Sebbene ormai
postmodernamente autorizzato a poetare accompagnandosi con qualsivoglia
strumento più gli aggradi, e quindi libero di poter finalmente cantare i propri
sentimenti in tutti i registri e tutte le tonalità possibili, bisbigliandoli in
un orecchio o urlandoli a squarciagola da un palcoscenico munito di dieci
altoparlanti, riuscirebbe forse ancora non dico a soggiogare, semplicemente ad
interessare con le proprie eventuali virtù
le nuove potenze infere dominatrici del pianeta? Le quali, quando non si lasciano già collegialmente ipnotizzare
nei loro sempre più assordanti baccanali, in un frastuono alternativo pur
sempre si trincerano, rendendosi ugualmente inaccessibili dietro lo schermo solipsistico
di auricolari e caschi, e cuffie con o senza fili, e altre, mille altre diavolerie
in origine negate agli antropomorfi, diversamente umani, antichi padroni
dell’Ade.
E, per concludere, un approdo
pressoché sillogistico: esiste dopotutto un futuro per una letteratura – si
tratti di libro cartaceo o digitale – davvero in grado di captare e fissare
sullo spazio di una pagina scritta le sembianze, le voci, le movenze sfuggenti e
gli impulsi conflittuali di un mondo ormai così eterogeneo e drammaticamente
destabilizzato? E a tal punto in bilico fra il virtuale e il reale, fra le
sinapsi robotiche e quelle naturali, da sfidare qualunque nuova invenzione di lessico
descrittivo per quanto proteiforme e funambolesco questo possa mai presumere di
essere. Temo proprio che solamente l’inimitabile simultaneità anamorfico-audiovisiva
(post-postmoderna?) di certi effetti
speciali invalsi nell’industria cinematografica rimanga capace di trasmettere, e
con discreta approssimazione, quello che qualche sconsolato Orfeo residuo avverta
magari ancora il bisogno di estrinsecare.
***
Nel commento introduttivo ad
una sorta di plaquette (dal titolo
“L’archetipo della caninità nella poetica di Roberto Vittorio Di Pietro”-
Helicon, Arezzo, 2012 ) personalmente ideata e curata dal compianto Rodolfo
Tommasi, si leggeva fra l’altro: “Opinioni critiche personali nei riguardi
della poesia in genere, e della propria in particolare, a me pare che Di Pietro
le abbia manifestate con sufficiente chiarezza in due diversi microsaggi fra
loro complementari (rispettivamente intitolati “L’autore risponde” e “La lente
sulla pagina”) che figurano in appendice alle sue sillogi Come conchiglie, liriche (Il Leone Verde, Torino, 2005) e Come versi, murici (Helicon, Arezzo,
2006). Se non altro a quei testi – oltre all’imprescindibile volume di
saggistica dal titolo Campo &
Controcampo (Helicon, Arezzo, 2008) – desidero indirizzare coloro che di
questo poeta siano interessati a conoscere meglio il pensiero; anche perché,
nel coglierne la portata, si potrà forse più facilmente intuire in quale vasta
pluralità di invenzioni artistiche esso avverta un sincero stimolo a riversarsi
e ramificarsi.”
A mia volta, mi è gradito
rinviare i miei eventuali lettori ad ogni altro scritto che lo stesso Tommasi,
attraverso gli anni, aveva scelto di dedicare in prima persona alla mia opera;
e ciò non soltanto per la connaturale perspicacia e lo straordinario scrupolo
analitico che in ogni caso lo contraddistinguevano, ma soprattutto avendo egli deciso
di farlo dopo essersi preventivamente
accostato alla mia produzione letteraria nella sua totalità: aspirando
professionalmente a procurarsi, cioè, quel tipo di ”doverosa conoscenza
dell’opera integrale di un autore”,
dalla quale, secondo il noto e difficilmente oppugnabile parere di
Arthur Schnitzler, nessun giudizio critico di qualche valore potrebbe mai
prescindere. Atteggiamento, questo, oserei aggiungere, da reputarsi tanto più
indispensabile allorché un qualsiasi scrittore possa rivendicare una propria
precisa ‘progettualità’ artistica di base che, seppure variamente
articolata, e pur sempre aleatoria nelle difformi risultanze in rapporto alle
intenzioni, possieda nondimeno un’identità ovunque uniformemente riconoscibile.
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