di Renata Rusca Zargar
Lietta avanza sulla via verso il Palazzetto dell’Archivio: finalmente, sembra giunta di nuovo la primavera, un sole caldo e piacevole le accarezza le membra. “Il mio corpo sta bene.” pensa. È appena uscita dalla palestra dove ha fatto, prima, un’oretta di ginnastica, tanto per tenersi in forma, poi, una lunga doccia calda, mentre intravedeva dalla grande finestra a vetri la luce chiara che si allargava sulle vecchie mura del borgo. È come se il profumo del sole le pervadesse le ossa, facendola rinascere ancora una volta.
Nella primavera precedente, dopo due anni di matrimonio, era tornata libera.
Infine, aveva avuto il coraggio di lasciare il marito!
Si avvia nel cammino che porta alla tomba Ildebranda, a poca distanza dalla strada etrusca del Cavone. Quel luogo ha un fascino antico: le scalinate, le colonne, alcune decorazioni dei fregi e gli stucchi ancora visibili, ammaliano l’osservatore. L’uomo è il genio che ha saputo distaccarsi dagli altri animali e ha costruito edifici utili ma seducenti! “Niente distingue all’inizio gli uccelli dall’uomo – scriveva Robert Lynd, nel secolo scorso- se non il fatto che i primi costruiscono e lasciano il paesaggio esattamente come ricevuto.” Certo, lasciano il paesaggio come ricevuto nel bene e nel male: si sarebbe potuto discutere a lungo! Eppure, si rende conto, l’essere umano, delle sue grandi capacità? Sa usarle davvero per la felicità dell’uomo e della donna?
Quel sito era stato ideato dagli Etruschi, nel II o III secolo avanti Cristo, per conservarsi una vita ultraterrena. Dopo la sua scoperta nel 1924, aveva preso il nome da Ildebrando di Sovana. Forse, era un luogo sacro per i viandanti, una meta di passeggiate o, ancora, solo un punto di riferimento tra sentieri e boschi…
Nella tomba Ildebranda, spazio di così intensa spiritualità, Lietta rivolge una preghiera a Dio che le stia vicino perché ha davanti a sé una decisione difficile: la scelta del percorso da intraprendere. Suo marito, infatti, è tornato all’attacco: “Perdonami, non lo farò mai più…- le ha giurato - Dammi un’ultima possibilità… Lo so che ho già sprecato le altre chance che mi hai dato, ma ora ho capito, sono andato a lungo dallo psicologo, mi sono curato, non sono più lo stesso! Non te ne pentirai.” Ildebrando, Gregorio VII, il papa che, nell’XI secolo, aveva messo in atto una profonda riforma della Chiesa contro la corruzione ma anche contro la pusillanimità dei buoni, affermava: “Sono rari i buoni che anche in tempo di pace sono capaci di servire Dio. Ma sono rarissimi quelli che per suo amore non temono le persecuzioni o sono pronti a opporsi decisamente ai nemici di Dio.”
Tutto ciò era ancora vero!
I buoni che abbiano la forza di opporsi al male, comunque si presenti, sono davvero pochi. Quel Pontefice, che si diceva nato lì, nel suo paese, Sovana, si era battuto anche nella lotta per le investiture, in contrasto con l’Imperatore Enrico IV, che si circondava di vescovi scomunicati e il cui padre era stato capace di deporre ed eleggere più di un Papa! Forse, anche Ildebrando aveva avuto paura, incertezze e dubbi, ma si era assunto la sua responsabilità ed era andato avanti fino alla fine. Che avrebbe fatto Ildebrando al suo posto?
Lietta aveva già dato molte opportunità a Lapo. La prima volta che l’aveva picchiata era stato addirittura durante il viaggio di nozze, in crociera. Aveva guardato troppo a lungo un ufficiale, secondo lui. Ella non aveva capito neppure a chi si riferisse esattamente, non le sembrava di aver guardato qualcuno con particolare intensità e poi… Amava tanto Lapo! Finalmente, dopo vari anni di fidanzamento, trascorsi quasi tutti lontani a causa del lavoro di lui, era diventata sua moglie! Ma egli avrebbe capito - si era detta - che lei vedeva solo lui, si sarebbe tranquillizzato, giorno dopo giorno, vivendo insieme.
Dunque, l’aveva perdonato la notte stessa e si era stretta tra le sue braccia. Poche sere dopo, però, nella sala delle feste della nave, il vicino di tavolo l’aveva invitata a un ballo; un gesto assai comune, tra i passeggeri. Lapo aveva preteso che lei tornasse subito in cabina e là l’aveva insultata, schiaffeggiata, gettata per terra, trascinata per i capelli come una bambola di pezza…
Lietta era rimasta in cabina per tutto il resto della crociera, non aveva più voluto uscire, né vedere persone o luoghi.
All’arrivo, però, lui le aveva chiesto perdono: incolpava lo stress del viaggio, odiava viaggiare, non sarebbe successo mai più!
Il sole iniziava a scendere dietro gli alberi, occhieggiando con tenui lampi tra le foglie, e Lietta aveva ripreso la strada di casa. Aveva diversi compiti dei suoi alunni da correggere. Tempo prima, con la sua classe I media, era stata in gita scolastica a Populonia.
Che meraviglia quel luogo sulla costa! Gli etruschi avevano scelto bene, sviluppando la città villanoviana preesistente, commerciando e lavorando il ferro dell’isola d’Elba! La necropoli testimoniava una grande civiltà che rispettava il genere umano.
Le veniva alla mente il Sarcofago degli Sposi felici, un’urna funeraria etrusca in terracotta dipinta che aveva visto nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma. Quella scultura raffigurava una coppia di sposi sdraiata sul letto tricliniare a un banchetto, nell’atto di versarsi del profumo sulle mani o di reggere cibi e oggetti da mensa. A parte la straordinaria bellezza di quell’opera, dove la donna è raffigurata con un copricapo caratteristico e dei sandali ai piedi mentre il marito ha una barbetta lunga e appuntita, di là si evincevano molte considerazioni sulla vita femminile. Intanto, la con-presenza in parità dell’uomo e della donna durante un convivio: alle donne di ceto sociale elevato era consentito partecipare ai banchetti, sorseggiando vino a fianco del proprio sposo ed era permesso anche assistere ai più importanti spettacoli pubblici (gare ginniche, feste, danze). La donna aveva, nella dimora familiare, luoghi di lavoro, dove attendeva alla filatura, alla tessitura, alla cura dei figli, ma questo non le alienava il prestigio sociale, anzi, fra gli Etruschi vi era l’abitudine di aggiungere al nome del padre quello della madre! La donna manteneva, quindi, il proprio nome dopo il matrimonio e alle femmine era dato un prenome, cioè un nome personale, mentre tra i Romani, esse erano indicate con il nome della famiglia volto al femminile. La donna etrusca poteva ereditare e trasmettere i beni ai figli, aveva, dunque, dei diritti civili. Invece, sia i Romani che i Greci avevano avuto parole di sdegno e di disprezzo per il comportamento delle Etrusche, che consideravano immorale! Ateneo, uno scrittore greco vissuto ad Alessandria d’Egitto nel II secolo dopo Cristo, scriveva che Teopompo, un altro storico greco del IV secolo avanti Cristo, affermava addirittura che “i Tirreni (così chiamava gli Etruschi) allevano tutti i bambini ignorando chi sia il padre di ciascuno di essi”!
Le donne, purtroppo, in generale, erano considerate anche da Aristotele, che tanto aveva fatto per la crescita mentale dell’uomo, “senza freno, rotte a ogni dissolutezza e in lussuria”, per questo “la libertà concessa alle donne è dannosa sia all’intento della costituzione sia alla felicità dello stato.”
Che peccato, aver avuto sempre tanta paura della donna! Non aver seguito una strada maestra tracciata da un popolo molti secoli prima, dibattersi ancora, addirittura, nel terzo millennio, nel considerare la donna un essere da sottomettere, da tenere a freno, un pericoloso inferiore…
Non aveva certo creduto, durante il fidanzamento, che anche Lapo la pensasse come Aristotele, che mancasse tanto di autostima, lui che aveva successo nel lavoro e prestigio sociale, da temere che qualsiasi altro uomo avrebbe potuto rubargli la moglie!
Né che mancasse di fiducia in lei, che la considerasse meno di una farfalla svolazzante di fiore in fiore!
Le tornavano alla mente i bei ricordi di prima del matrimonio, quando, mano nella mano, esploravano qualche ridente località toscana. Lapo era milanese, abituato alle grigie nebbie della pianura padana.
“ …te beata, gridai, per le felici - le recitava spesso, convinto - aure pregne di vita, e pe’ lavacri che da’ suoi gioghi a te versa Apennino! Lieta dell’äer tuo veste la Luna di luce limpidissima i tuoi colli per vendemmia festanti, e le convalli popolate di case e d’oliveti mille di fiori al ciel mandano incensi: e tu prima, Firenze, udivi il carme che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco, e tu i cari parenti e l’idïoma desti a quel dolce di Calliope labbro che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma d’un velo candidissimo adornando, rendea nel grembo a Venere Celeste;”1
Ogni volta, quando s’incontravano, era un miracolo di gioia, di amore, una primavera continua. Tutte le borgate apparivano festanti, feconde, profumate, doviziose di cultura, proprio come le aveva dipinte Foscolo.
Poi, Lapo ripartiva per il Canada, dove aveva un incarico aziendale e tornava mesi dopo. Sembrava una bella favola a lieto fine e, invece, nella vita coniugale si era rivelato diverso… Ogni scusa, scatenava la sua terribile violenza. Quando era tranquillo, ella cercava di farlo ragionare, gli chiedeva di farsi curare… Lui piangeva, le chiedeva sempre perdono, le prometteva di non incollerirsi più!
Prima della separazione definitiva, l’aveva già lasciato per alcuni mesi. Era tornata nella sua Sovana mentre lui era rimasto a Firenze, dove si trovava, in quel tempo, una delle sedi della sua azienda.
Era diventata anche volontaria di “Telefono rosa”, per aiutare chi si trovasse in difficoltà, come lei. I dati erano davvero allarmanti: moltissime donne si rivolgevano continuamente alle ben venticinque strutture toscane che svolgevano attività di Centro antiviolenza. Ed erano donne con un titolo di studio più alto della media (più della metà possedeva almeno il diploma di scuola superiore, il 13% era laureata), con un’età variabile, un’occupazione più o meno stabile… Ma, soprattutto, l’85% delle violenze subite dalle donne avveniva all’interno della coppia!
Lapo, allora, l’aveva perseguitata con mazzi di fiori, telefonate, lettere, mail, sms… Aveva ammesso il suo disagio, aveva iniziato una cura da uno psicologo… La madre di lui la supplicava di comprenderlo, era un uomo stressato dal lavoro, ma sarebbe guarito, l’amava più di qualunque altra cosa al mondo!
Infine, Lietta era tornata a casa, da Lapo. L’accoglienza era stata magnifica: le stanze dell’appartamento erano zeppe di fiori, sul letto attendeva una parure composta da collier, bracciale e anello di rubini e diamanti. Lui aveva pianto tra le sue braccia, tutto sarebbe stato, finalmente, meraviglioso.
In effetti, per un po’ era andata così. Lapo continuava a seguire le sedute dallo psicologo (era un processo lungo, diceva lo specialista) e Lietta aveva chiesto un periodo di aspettativa dalla scuola per dedicarsi completamente al marito. Uscivano poco insieme perché lui era molto impegnato.
Una mattina, era primavera, Lietta aveva deciso improvvisamente di fare una passeggiata. Il tempo era buono, l’aria sembrava accarezzare il corpo, si coglieva un profumo di rinascita: ella non aveva fretta e così si era seduta per un caffè al tavolino di un bar.
La sera, quando era rientrato, Lapo non era del solito umore. Lietta gli era andata incontro sorridente e lui l’aveva aggredita con un tono iroso: - Dove sei stata?
- Ma qui…
- Bugiarda, eri al tavolino di un bar, come una prostituta!
- Non dire queste assurdità. Ho preso un caffè in piazza della Signoria e non penso proprio che ci sia nulla di male.
- Mi menti, non me l’avevi detto, l’ho saputo da altri!
- Che cosa hai saputo da altri? Che ho preso un caffè?
Lapo l’aveva schiaffeggiata, aveva rovesciato il tavolo con la cena già pronta, urlava da farsi sentire da tutto il quartiere. Lietta si era barricata in camera e lui aveva cominciato a colpire la porta con un bastone, fino a quando non erano arrivati i carabinieri.
Era passato un anno, da allora. Si sentiva tranquilla, ormai. Anche il tremendo dolore che aveva provato per il suo grande amore, così miseramente deluso, era diminuito lentamente.
Ma lui ora le chiedeva di tornare, per l’ultima volta. Aveva continuato le sedute dallo psicologo, aveva imparato a scaricare lo stress in palestra, aveva seguito persino un corso sulla psicologia femminile. Sarebbe stato tutto diverso. Doveva decidere.
Lasciare Sovana o rimanervi definitivamente. Sapeva che, quasi ogni due giorni, in Italia, viene uccisa una donna.
In classe, spesso, parlava della Pia, l’anima dolcissima incontrata da Dante nel Purgatorio, uccisa dal marito molti secoli avanti. Ella, prima di chiedere per sé un ricordo, una preghiera sulla terra, che le avrebbe accorciato il suo cammino di penitente, si era preoccupata per Dante, l’aveva messo, unica a farlo, in primo piano.
“Deh, quando tu sarai tornato al mondo, e riposato de la lunga via,” seguitò ‘l terzo spirito al secondo, “ricorditi di me, che son la Pia: Siena mi fè, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma”2
Che delicatezza quelle parole! Quando si fosse riposato, Dante, da un viaggio tanto faticoso nell’aldilà, avrebbe potuto, solo allora, ricordarsi di lei che rispettava, prima di tutto, un altro essere umano. Si prendeva cura di lui, nonostante le preghiere terrene avrebbero potuto accorciarle la penitenza e ricongiungerla al più presto all’amore di Dio. Pia era stata uccisa dal marito, cioè da colui che, un tempo, l’aveva inanellata e che avrebbe dovuto amarla e proteggerla! Era stata eliminata dal suo compagno, forse, per gelosia o, forse, addirittura, per sposare un’altra.
Quanto avevano sempre sofferto le donne, in ogni tempo e in ogni dove, a causa di colui che avrebbe dovuto, invece, condividere con loro un comune progetto di vita!
Forse, era giunto il momento di cambiare.
Note:
1 Ugo Foscolo, I Sepolcri, vv. 165-179
2 Dante Alighieri, Purgatorio, canto V, vv.130-136
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