LA SEDUTA SPIRITICA
Maria, accompagnata dalla sorella Pina, era entrata nell’elegante negozio di cappelli che si trovava sotto i portici, proprio vicino a San Domenico.
La zia Camilla, completamente vestita a lutto, la stava aspettando seduta dietro il banco. Tutto intorno, sul banco stesso e sulle mensole, facevano bella mostra di sé ogni tipo di cappelli, molti dei quali di velluto, data la stagione. Ogni donna, infatti, amava portare il cappello quando usciva di casa e, quindi, fare la modista con una propria bottega era un’attività assai fiorente. Diverse ragazze giovani venivano ogni giorno a imparare il mestiere così come altre andavano a ricamare, a cucire, o a “zunze e scarpe”.
La zia Nettin, andando, appunto, a cucire e rifinire le scarpe, aveva poi sposato il calzolaio e si era trovata bene.
Nel retrobottega, dove quel giorno non era presente però alcuna lavorante, intorno a un piccolo tavolino di noce rotondo decorato con la stella a sei punte racchiusa dai cerchi dorati, la sorella di Camilla, Caterina, anch’essa modista, e altre tre eleganti signore le stavano aspettando. Maria si era decisa a malapena ad affrontare quella seduta, più che altro per le insistenze di Camilla che aveva perso da pochi mesi il suo primo figlio. C’era, inoltre, una certa curiosità: - Chissà se quello che si dice in giro è vero! - si era confidata con la sorella.
Dunque, le mani delle sette donne erano state appoggiate sul tavolo a tre piedi senza dirsi nulla: ognuna sapeva lo scopo per cui era stata invitata e non c’era altro da aggiungere.
Caterina aveva chiuso gli occhi: - Camilla, ti prego, parla, spiega perché hai voluto convocare questa riunione e chi tu desideri sentire...
- Oh, spiriti, se veramente potete ascoltarmi, vi prego, mettetemi in contatto con il mio bambino...Voglio sapere dove si trova ora, se sta bene... - Le lacrime sgorgavano copiose dagli occhi di Camilla mentre i minuti trascorrevano lenti in un’aria satura di emozioni.
- Spiriti della nostra famiglia, se ci siete, rispondete! - aveva aggiunto Caterina - cerchiamo il nostro piccolo… Diteci se è giunto da voi, se siete insieme nel nuovo mondo...
Nell’angusto locale, non rischiarato che da una leggera luce proveniente dalla finestra chiusa con gli scuri, i respiri si facevano leggeri, quasi inesistenti, mentre più forti erano i singhiozzi di Camilla.
Il tavolino aveva emesso un breve scricchiolio.
-Spiriti, dunque, chi siete? È il nostro bambino vicino a noi?- urlava Caterina.
Il tavolino si era leggermente inclinato su di un lato, verso una delle signore presenti e il piccolo cassettino nascosto sotto il suo piano, si era aperto spontaneamente lasciando cadere alcuni documenti.
“Non c’è, sopra Dio, nessuno che decida.” era scritto a mano su un foglio ingiallito dal tempo “Ma Dio manda i segni e qualcuno può leggerli.”
- Rispondete, dunque! Sei tu...?
Ora il respiro di Caterina si faceva sempre più affannoso e Camilla, pallida e disfatta, aveva smesso di piangere.
- Sì, sono io, mamma. Non ti ricordi di quando vagavo tra i boschi alla ricerca di prede da cacciare? Non c’era niente altro che alberi. Mentre tu rimanevi intorno alla nostra caverna a raccogliere erbe e frutti con in collo il nostro ultimo fratello, io seguivo mio padre, il capo tribù, nelle esplorazioni del territorio.
Un muto stupore si era diffuso tra i presenti incapaci di comprendere quella voce che continuava a raccontare: - Quella mattina, avevo imboccato da solo il sentiero vicino al mare. Mi pare quasi di vederlo, non molto lontano da qui... Le onde lambivano quietamente la terra e, lentamente, attraverso la vegetazione fitta fitta, ero risalito verso l’alto della collina. La mia lama di selce mi aiutava ad aprirmi un varco nelle piante dalle foglie che non cadono mai fino a che non avevo raggiunto una radura. Là il cielo mi appariva così azzurro e vicino da poterlo sfiorare quasi con un dito e il silenzio era rotto dai mille rumori degli animali, degli uccelli, del vento cantilenante tra le fronde. No, c’era anche, poco lontano, rumore di una lotta, uomini in corsa, forse la caccia all’elefante, forse un’altra tribù era giunta fin là, nel nostro territorio... L’orso era sbucato fuori dalla giungla all’improvviso, braccato dai fuochi degli uomini, spaventato… Ero un figlio del capo tribù e non avevo paura. Decine di volte mio padre mi aveva condotto con sé alle battute di caccia al mammut o alle renne, mi aveva insegnato i trucchi per salvarsi dai rinoceronti e dagli ippopotami e per portare alla grotta le prede per nutrire le donne e i bambini. L’orso si era avventato su di me alzandosi sulle zampe posteriori: velocemente avevo infilato la mia lama con tutta la mia forza nel suo ventre… La sua zampa era piombata come un masso sul mio collo. Da quel momento non ricordo più nulla ma so che gli uomini ci avevano raggiunti e avevano ucciso l’orso. Poi, ci avevano trasportati entrambi fino alla grotta di mio padre. Egli aveva chiamato subito la donna che curava le malattie: la mia ferita alla mascella era assai profonda per cui mi era stato applicato un impiastro di erbe. La febbre mi rendeva incosciente e in pochi giorni il mio spirito aveva lasciato quel corpo… Quattordici estati erano trascorse dalla mia nascita. Mio padre mi aveva composto nella tomba… Ero il suo primo figlio maschio, avrei dovuto essere capo tribù dopo di lui, lo seguivo in ogni uscita di caccia o di perlustrazione… So che il suo dolore era stato grande e che aveva voluto nascondere la mia ferita con l’ocra gialla perché non mi presentassi in cattivo stato nella mia vita futura. Ma mia madre non c’era. Era restata alla caverna perché stava per partorire ancora… Sei tu mia madre?
- Sì - aveva aggiunto un’altra voce più forte e autorevole - figlio, avevo pregato per te che tu potessi guarire. Quando le regine della notte brillavano in cielo, mentre tu giacevi nella caverna e il tuo respiro si faceva sempre più debole, avevo implorato loro di non portarti via a me. Tu eri il mio orgoglio e il mio futuro. A te avrei lasciato il mio potere, i miei uomini, la mia grotta, le mie pelli, tutto. Una stella, allora, si era mossa nel blu uniforme della notte ed era caduta lontano. Faceva così caldo! Avevo sperato che avesse acconsentito alla mia richiesta. Ma tu sei morto e le lacrime che non sono sgorgate dai miei occhi mi hanno trafitto il cuore. Per te ho cercato, allora, un luogo tranquillo dove tu potessi riposare, una caverna in cui preparare la tua tomba e ti ho disteso su di un letto di ocra rossa ponendoti sul capo la cuffietta di conchiglie che amavi tanto. Vicino ho lasciato la tua lama di selce e tutti gli ornamenti d’osso e di conchiglia che ti sarebbero serviti nell’altra vita. Da allora, non avevo avuto più pace e nessuno degli altri figli di tua madre e di un’altra donna dopo di lei aveva potuto colmare il tuo vuoto...1
- No, non siete voi che cerchiamo,- aveva ripreso Caterina ansante - vi prego, andate via, lasciate il posto ai nostri famigliari. Qui l’orso non c’è più: voi parlate di fatti avvenuti tanto tempo fa...
- Camilla, Caterina… - una flebile voce si era insinuata nella stanza - sono vostra madre Iolanda. Ho dovuto abbandonarvi da piccole e la mia disperazione non aveva fine...
- Mamma! Davvero sei tu?
- Certo. Non ricordate quando vi tenevo tra le braccia o quando mangiavamo insieme nella nostra cucina e vi raccontavo delle storie? Smettevate di correre e di giocare e mi ascoltavate con gli occhi spalancati. Poi, quando avevo finito, le vostre domande si sgranavano ancora a lungo mentre i piatti della minestra si vuotavano senza fatica.
- Oh, mamma, quanto mi sei mancata mamma! - singhiozzava Camilla - La nonna ci parlava di te senza piangere ma il suo sguardo si perdeva lontano. Non nominava mai nostro padre, invece, e noi lo vedevamo poco. Ormai si era risposato e aveva avuto altri figli... La sua vita non ci apparteneva più e mai lo avevamo sentito vicino a noi. Ma tu, mamma! D’estate scendevo sulla spiaggia e cercavo laggiù, all’orizzonte del mare d’intravvedere il tuo volto… Un vago sapore di carezze e di baci frammisto a lacrime quando tu mi abbracciavi e il tuo pianto nascosto che inumidiva la mia spalla… Non mi è rimasto altro di te, mamma!
- Lo so, figlie mie. La mia famiglia era proprietaria di molti cavalli e nelle nostre stalle in via Don Bosco c’era sempre traffico: i carri arrivavano e ripartivano in continuazione. Vostro padre lavorava là, così l’avevo conosciuto: forte a guidare i cavalli, instancabile nella fatica. Il mio cuore trepidava ogni volta che mi lanciava uno sguardo… e lui lo sapeva. Poi ci eravamo sposati ed ero al colmo della felicità! Sarei stata sua moglie, gli avrei dato dei figli, l’esistenza sarebbe stata meravigliosa! Ma la mia vita da sposa non era continuata come io pensavo: dopo la tua nascita, Camilla, lui aveva preso a tornare a casa spesso ubriaco e se ne andava a letto senza degnarci d’uno sguardo. Qualche volta era furibondo e mi picchiava. Non voleva darmi neppure il denaro per fare la spesa… Il mio cuore impazziva, non potevo credere che il mio bel cavaliere non mi volesse più! Dunque, mi aveva sposata per la mia dote... Le nostre stalle gli facevano gola, povero carrettiere che lavorava per noi! Mi ero ammalata, mangiavo sempre meno e sputavo sangue quando tossivo. Il medico aveva detto che era tubercolosi ma che sarei guarita. Non ne avevo la forza... Tra i cocci dei sogni infranti non avevo saputo trovare uno scopo più grande: voi sareste state meglio con i miei genitori che con me, avreste avuto sempre cibo e serenità e io… non desideravo più niente. Quando lo vedevo tornare a casa pieno di vino e di odio per noi, mi chiedevo che cosa avesse spezzato l’incanto e che cosa mai avrei potuto fare... Il dolore delle botte era minore di quello dell’anima e il sangue usciva a fiotti dal mio cuore. Mentre le campane della chiesa suonavano ancora per me l’agonia, una donna di Repusseno, Cecilia, aveva detto che, morendo, lasciavo il posto a un’altra. E non sapeva ancora che l’altra sarebbe stata proprio lei! Purtroppo per lei, gli anni accanto a vostro padre non sarebbero stati diversi dai miei, fino a quando lui non fosse caduto ubriaco dalle scale e non fosse morto. Dio abbia pietà di loro.
- Lo sappiamo, mamma. Anche con la seconda moglie ha fatto lo stesso, ce l’hanno raccontato. Non le dava i soldi per fare la spesa e i suoi cinque figli non avevano nulla da mangiare. Quando tornava a casa la sera, portava il cibo soltanto per sé e lo trangugiava davanti a tutta la famiglia! Poi, andava a letto con il portafoglio sotto il cuscino. Solo qualche volta Cecilia riusciva a sottrarglielo mentre dormiva e prendeva qualche soldo per comprare un po’ di cibo per i bambini.
-Chi picchiava la moglie? - un’altra voce roboante e volgare era entrata nella stanza - Faceva bene! Un giorno mi hanno accusato di aver ammazzato mia moglie riempendole la bocca di cenere e buttandola giù dalle scale. Certamente! Non la sopportavo più, era noiosa, fastidiosa come tutte le donne! Così, mi hanno impiccato laggiù, vicino al mare. Potevo scorgere al di sopra della folla che era corsa a vedere lo spettacolo, le mura del Priamar. Le donnette pettegole dicevano che fin da Repusseno, avevano sentito le urla, ma io non ho avuto paura!
- Andate via, spiriti malvagi! Tu, Giabbe2, sei l’ultimo condannato a morte di Savona. Noi non eravamo ancora nate e non ci interessa la tua storia. Ormai è affare solo tra te e Dio!- lo aveva interrotto Caterina
- Il mio bambino, cerco solo il mio bambino. Andate via, spiriti. Voglio parlare con il mio bambino. - supplicava Camilla. - Eravamo felici. Alfonso era un bambino bello e bravo, da poco aveva perso il primo dentino e stavamo aspettando di vedergli crescere quello nuovo. Suo padre lo prendeva per mano e lo portava a spasso la domenica, dal centro verso gli orti dove i frutti colorati attiravano la sua attenzione. Nel silenzio dei sentieri che si profilavano tra le strette mura, si poteva udire il loro chiacchiericcio. Quando gli era venuta la febbre alta, il dottore aveva parlato di difterite e l’aveva mandato all’ospedale. Percorrendo il corridoio, dopo lo stanzone dei tisici, ci avevano ricoverati in una cameretta e suo padre, che non poteva entrare, ci guardava smarrito dalla finestrella. Il corpo di Alfonso bruciava tra le mie braccia mentre la gola gli diventava sempre più gonfia. Era agosto, il 12 di agosto, faceva tanto caldo! La sera mi ero affacciata un attimo al balcone mentre Alfonso dormiva e il suo respiro si faceva sempre più sibilante. Le stelle della notte brillavano in cielo e le avevo implorate di non portarlo via a me. Egli era il mio orgoglio e il mio futuro. Una stella, allora, si era mossa nel blu uniforme della notte ed era caduta lontano. Faceva così caldo! Allora avevo sperato che avesse acconsentito alla mia richiesta. E quando lo stridio dei gabbiani si allungava nell’aria fresca dell’alba, il mio piccolo si era svegliato. Ma i suoi occhi si allargavano dall’orrore: gli mancava il respiro e le ultime forze disperate lo avevano spinto fino a spezzare le sue piccole unghie contro il muro, nell’angosciosa lotta per afferrare una goccia d’aria… Poi, con un rantolo strozzato era ricaduto sul cuscino come una bambola di pezza rotta. -
I singulti laceravano l’aria dello stanzino... Il tavolino si era alzato da terra di due palmi e rimaneva immobile anch’esso a mezz’aria, quasi ad ascoltare quelle vicende.
Allora, la madre di Camilla aveva ripreso: - So tutto, figlia. Anch’io ho pregato Dio che ti risparmiasse quella tragedia. Avrei voluto per te una vita facile e serena, lontana da ogni dolore! Ma la volontà di Dio ci è spesso incomprensibile e la prova ci appare così dura! La nostra vita terrena è costellata di sofferenze che solo un giorno ci saranno chiare. Ma non avere paura. Dietro di te vi sono tutti gli spiriti buoni della tua famiglia. Essi ti seguono e ti aiutano a realizzare i tuoi desideri e ad affrontare la disperazione dell’esistere. Abbi fiducia in loro, figlia mia...-
Finalmente, il suono tanto caro a Camilla era giunto:
- Oh, mamma, sono qui! Ho raggiunto la pace, non piangere più. I tormenti dell’orribile vita non mi possono più far male. Ora ho tutti i dentini, anche se tu conservi il primo in una scatoletta e ogni sera lo guardi e lo baci stringendotelo al cuore. Un giorno, se Dio vorrà, ci ritroveremo. Presto, però, la mia culla non sarà più vuota! Le tue braccia non saranno inutili, ma stringeranno una neonata e poi, tra qualche anno, mio fratello. La casa risuonerà di canti e di grida festose. Altri dentini si aggiungeranno al mio e il cavallo a dondolo troverà compagnia. Loro saranno il tuo futuro. Bacia mio padre per me e rincuoralo perché un giorno mi raggiungerà. Sii felice, mamma. Addio. -
Il tavolino si era riabbassato a terra senza far rumore.
Le sette donne avevano riaperto gli occhi colmi di lacrime. I loro pensieri le avevano trasportate lontano, là dove la realtà si può confondere con il sogno.
NOTIZIE STORICHE
Il racconto si ispira a fatti realmente avvenuti, compresa la seduta spiritica.
Camilla e Caterina hanno vissuto negli ultimi anni del 1800 e i primi del 1900.
Alfonso è morto a sei anni a causa della difterite.
Principe delle Arene Candide: nella grotta delle Arene Candide a Finale Ligure (SV), nello strato più profondo, datato tra i 20000 e 12500 anni fa (Paleolitico Superiore - Epigravettiano Antico), è stato rinvenuto lo scheletro di un individuo giovane (ora conservato al Museo di Genova Pegli, Palazzo Durazzo Pallavicini) giacente in posizione distesa sopra un letto di ocra rossa, con il capo coperto da una cuffia di conchiglie nassa. Altri ornamenti d’osso e di conchiglia erano ai piedi e alle ginocchia. La mano destra impugnava una lama di selce, sul petto e sui fianchi erano quattro corna d’alce forate alla base e decorate. Lo scheletro, fissato al suolo con pietre sulle mani e sui piedi, presentava una grossa ferita mascellare tamponata con ocra gialla. L’individuo, un adolescente di circa 14 anni, appartenente alla razza detta di Combe-Capelle, era di statura superiore a 1,70 m. e di struttura robusta. Per l’abbondanza e la ricchezza del corredo funerario e per la giovane età del defunto, la sepoltura viene detta del “Principe”. Già a quel tempo l’uomo seppelliva i propri defunti, ritenendo, dunque, possibile un’altra vita per affrontare la quale lasciava oggetti di uso consueto nelle tombe. Allora, come oggi, l’uomo indaga sui misteri della nostra origine e della nostra fine.
Giabbe: il 2 febbraio 1865 Giovanni Battista Cerro, detto il “Giabbe” uccide la moglie Bonifacina, di 15 anni più giovane di lui. La donna è stata strangolata e la sua bocca è stata riempita di terra per impedirle di urlare e chiamare aiuto. A rendere la teoria maggiormente plausibile, nonostante il Cerro dicesse che la moglie era morta per un malore, ci sono le testimonianze dei vicini che parlano delle continue liti tra i coniugi e delle violenze che il Cerro riservava alla moglie. Il Giabbe viene condannato a morte proprio una settimana dopo che la Camera dei deputati ebbe approvato, con 150 voti contro 91, la proposta per l’abolizione della pena capitale. La forca fu allestita velocemente e in silenzio durante la notte del 13 luglio 1865. Secondo la testimonianza di Beppin da Ca, autore del libro “Vecchia Savona”, mentre il condannato percorreva la strada verso il patibolo, un gruppo di spettatori correva con foga per raggiungere il luogo del supplizio. A quella vista il Cerro avrebbe esclamato: “Cose camminn-a a fà? Tanto se non ghe son mi a festa a no se fa.” (Cosa camminate a fare? Tanto se non ci sono io, la festa non si fa.) Alle cinque in punto l’uxoricida esalava il suo ultimo respiro, dopo una lunga e travagliata esecuzione; essendo infatti di corporatura robusta, il boia dovette esercitare pressione sulle sue spalle e tirarlo per i piedi al fine di terminare le sofferenze dello sventurato. I Savonesi erano noti per la loro avversione alla pena di morte tanto che, per costruire la forca, sarebbero stati incaricati due facchini di Genova perché nessun savonese aveva voluto collaborare a quell’operazione. Inoltre, in seguito all’esecuzione gli spettatori avrebbero minacciato violentemente il boia, tanto da richiedere l’intervento della polizia per difendere l’uomo.
Renata Rusca Zargar
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