POETANDO

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lunedì, aprile 3

MICHELANGELO BUONARROTI E IL SUO AMORE PER TOMMASO di DANILA OPPIO


Ritratto di Michelangelo eseguito da Michele da Volterra

MICHELANGELO BUONARROTI

A Ganimede, il più bello dei mortali come scrisse Omero nell’Iliade, dedicò uno dei suoi disegni più noti e forse affascinanti.

Zeus, dopo aver preso le sembianze di un’aquila, scese in volo sulla per rapire il bel giovane. Lo avrebbe poi portato con sé, su nell’Olimpo e sarebbe divenuto il coppiere degli dei. 

Era troppo bello per rimanere fra i mortali.


Questo disegno a carboncino lo realizzò per Tommaso de’ Cavalieri: un omaggio alla sua avvenenza ma non solo. Sono tanti i significati che si potrebbe tentare di leggere come per esempio un’ascesa dell’anima verso una contemplazione più ampia e distaccata dalle cose terrene secondo una visione un po’ neoplatonica.

Ganimede viene sollevato dall’aquila che lo stringe saldamente fra i suoi artigli senza però fargli del male mentre lui si contorce e pare abbracciare il rapace. Ha lo sguardo rivolto verso il basso: difficile dire se con gli occhi socchiusi guardi la testa dell’aquila o la terra che si allontana sempre di più.

Il disegno si trova negli States, presso il Fogg Art Museum di Cambridge, Massachusetts.

Quello tra il più grande artista del ‘500 e un giovane nobile romano è stato un amore grande come il mare che sulle prime parve un fiumiciattolo innocuo e poi si trasformò in tempesta. È la metafora che usa Michelangelo Buonarroti per descrivere l’incontro con Tommaso De’ Cavalieri. Michelangelo aveva 57 anni ed era già affermato quando lo scultore Pierantonio Cecchini lo presentò al ventitreenne rampollo di nobile famiglia che voleva conoscere il celebre artista.

“Come se creduto m’avesse passare con le piante asciucte un picciol fiume… l’oceano con soprastante onde m’è apparito inanzi, tanto che se potessi, per non esser in tucto da quelle sommerso, alla spiaggia ond’io prima partì volentieri mi ritornerei”.

Era la fine del 1532. Da quel momento, e fino al 1564, tra i due corse un fiume di lettere. Tantissime e ardenti quelle che Michelangelo scrisse a Tommaso, più caute quelle che Tommaso spediva a Michelangelo. All’irrequieto e appassionato artista rispondeva con cortesia e ritrosia insieme, forse perché incerto su come reagire alla manifestazione di un’amicizia che già sfociava nell’amore, forse perché metteva in pratica le regole dell’amor cortese. Michelangelo non si tratteneva e, abbagliato dalla sua bellezza, lo descriveva come “luce del secolo nostro, paragone per il mondo intiero”.

 Lettera dopo lettera, molte delle quali finite nel fuoco, Michelangelo si faceva più ardito, Tommaso più aperto. Se la loro relazione abbia mai travalicato il grado platonico non si sa, ma coltivarono quel legame per tutta la vita. Tant’è che Tommaso era al capezzale di Michelangelo alla sua morte, nel 1564. Intanto Tommaso si era sposato, aveva avuto due figli e conduceva la vita che il destino aveva stabilito per lui, esponente della nobiltà romana.

Michelangelo se ne accorse per primo, ma Tommaso dovette presto concordare: il loro era stato l’incontro di due anime affini, che si capivano. A lui Michelangelo chiedeva un parere su ogni sua scelta artistica, a lui regalò i suoi disegni e dedicò 30 poesie tra sonetti, quartine e madrigali. I sonetti di Michelangelo per Tommaso sono i primi in lingua moderna che un uomo dedica a un altro uomo:

l'amor mi prende e la beltà mi lega;

la pietà, la mercé con dolci sguardi

ferma speranz' al cor par che ne doni.

Se all’inizio Tommaso, turbato da tanto ardore, aveva trovato una scusa per non rivederlo tirando in causa una malattia, con il tempo cedette. Il loro fu uno scambio continuo fondato su stima e affetto, se non amore. Quando Tommaso dovette privarsi di uno dei disegni che Michelangelo gli aveva regalato, per accontentare Cosimo I, fu per lui una perdita enorme. L’artista era ormai una stella polare nella sua vita, presenza costante, anche quando si allontanava per tornare a Firenze. I disegni che gli aveva regalato li considerava figli.

Come sia andata, fuori dai versi e dalle poche lettere rimaste, nessuno lo sa. Si sa però che uno dei disegni di Michelangelo, Il ratto di Ganimede, fu dedicato proprio a Tommaso. Racconta la storia di un ragazzo talmente bello che Zeus non seppe separarsene e lo rapì portandolo sull’Olimpo. “Non credo che voi crediate che io abbia dimenticato o possa dimenticare il cibo di che io vivo, che non è altro che il nome vostro” scrive il divino Michelangelo all’amato. Fino all’ultimo respiro, quel nome ebbe sulle labbra.

Sul letto di morte, ad accompagnarlo per mano nell’aldilà, c’era lui che gli leggeva, assieme ad altri cari amici ,i passi della passione di Cristo. Oltre a mirabili disegni, dedicò anche a lui questi versi :

Al mio Tommaso, a colui che sempre mi fu vicino col corpo, con la mente e col cuore:

 Come può esser ch’io non sia più mio?

    O Dio, o Dio, o Dio,

chi m’ha tolto a me stesso,

c’a me fusse più presso

o più di me potessi che poss’io?

    O Dio, o Dio, o Dio,

come mi passa el core

chi non par che mi tocchi?

    Che cosa è questo, Amore,

c’al core entra per gli occhi,

per poco spazio dentro par che cresca?

    E s’avvien che trabocchi?

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