Qualche sera fa ho visto un film uscito nel 2014 e diretto da Marghareth Von Trotta. A seguito di questa visione, ho voluto approfondire l'argomento e il pensiero di Hannah Arendt e ho fatto delle ricerche in merito.
Martin Heidegger e Hannah Arendt |
Hannah Arendt e la banalità del male, perché
solo due giorni nelle sale? di Elisabetta Ambrosi
Per Hannah Arendt,
accusata di antisemitismo e di assenza di sentimento di fronte all’immenso
dramma della Shoah, la vicenda di Eichmann conferma ciò che lei aveva scritto,
e continuerà a scrivere, fino all’anno della sua morte, nel 1975.
Al contrario di quanto vuole una tradizione occidentale che assegna al male un
luogo “interiore”, mistico, il male è esterno, sociale, strutturale, come
in parte è anche il bene. A differenza del bene, però, è insensato, privo di
senso, e per questo non può essere radicale, “solo il bene è davvero radicale”,
dice la Sukowa. Non esistono buoni e cattivi, ma una zona grigia della
coscienza che si traduce lentamente in una dimensione pubblica, acquista peso e
spazio, potere. E diventando potere produce violenza, un fenomeno che Arendt
opporrà sempre direttamente alla libertà e alla politica:
per la filosofa la dimensione più elevata dell’uomo, oltre la sussistenza,
oltre il lavoro, che è necessità ma spesso non libertà, come scrive in Vita
Activa.
Sono ormai più di cinquant’anni che i biografi di Martin Heidegger e di
Hannah Arendt si trovano a dover fare i conti con qualcosa di sommamente
imbarazzante, sconveniente, scandaloso: la lunghissima, tormentata e tuttavia
indistruttibile relazione amorosa che ha legato il filosofo in odore di
nazismo, certamente antisemita, alla sua bella studentessa ebrea, decisa
militante filosemita durante la seconda guerra mondiale e implacabile
accusatrice del regime nazista.
Un amore che è durato fino alla morte (di lei) e che nessuna insinuazione,
nessuna critica, nessuna censura è riuscita a scalfire; un amore, soprattutto -
e questo è il punto maggiormente significativo - che ha trovato il modo di
coesistere, nell’animo dei due amanti, non solo con un bagaglio ideologico di
segno opposto, ma anche con due sensibilità morali che difficilmente possono
essere considerate di pari livello.
Heidegger, filosofo geniale, in più e più occasioni mostrò un comportamento
eticamente discutibile; molte cose si potrebbero dire al riguardo, ma quella
che getta un’ombra inquietante sulla sua figura morale, è, senza dubbio, l’aver
denunciato alle autorità naziste colleghi e studenti ebrei al tempo in cui era
stato nominato rettore dell’Università di Friburgo, nel1933, succedendo al suo
maestro (ebreo) Edmund Husserl.
Il compito dello storico non è quello di distribuire la pagella in “valori
morali” ai personaggi del passato, se non altro perché è sin troppo facile
emettere sentenze quando il contesto politico e culturale è radicalmente
cambiato e non costa nulla fare sfoggio di alte virtù; mentre la cosa,
evidentemente, risulterebbe alquanto più laboriosa se lo storico si trovasse a
vivere in una situazione di reale minaccia o di soppressione delle libertà
fondamentali dell’individuo, a cominciare da quella di mostrarsi
compassionevole verso il prossimo.
D’altra parte, quel particolare genere di storico che è il biografo non può
sottrarsi alla responsabilità di valutare le scelte morali dei personaggi che
sono oggetto della sua ricerca, specialmente quando esse presentano una
effettiva rilevanza nel loro percorso umano, intellettuale, professionale; e,
sotto questo profilo, il biografo di un filosofo non si trova affatto in una
posizione diversa rispetto al biografo dell’uomo politico, dello scienziato o
dell’artista.
I biografi di Martin Heidegger, quindi, come ad esempio il Safranski, giunti a
un certo punto si vedono costretti a scendere dalle altezze stratosferiche del
suo pensiero, per trovarsi davanti a questa grossa pietra d’inciampo, diciamo
pure a questo macigno, nella vita del filosofo tedesco: la sua adesione, e sia
pure temporanea, al regime hitleriano; le sue pubbliche prese di posizione a
favore di esso; la sua zelante applicazione dei decreti antisemiti all’interno
dell’università; la denuncia di quei colleghi e di quegli studenti che
ricadevano entro il dettato delle leggi razziali.
A ciò si deve aggiungere la sconcertante insensibilità da lui mostrata nei
confronti degli amici più cari, ad esempio il fatto di non aver mosso un dito
in aiuto della moglie ebrea del suo collega ed amico Karl Jaspers; e il fatto
di aver millantato meriti pressoché inesistenti quale difensore degli Ebrei
all’interno dell’Università; mentendo clamorosamente, su questo punto, anche
alla sua giovanissima amica ed amante Hannah Arendt.
Quanto a lei, la studentessa ebrea altrettanto geniale, ella non solo accettò
di divenire l’amante, per anni, del suo professore (sposato con una feroce e
dichiarata antisemita), di cui non poteva ignorare le idee o, almeno, i
comportamenti concreti (anche se, su ciò, i suoi biografi si sono arrampicati
sugli specchi per tentare di “scagionarla” da questo dato di fatto); ma riprese
una relazione con lui, anche se solo sul piano spirituale, a guerra finita,
dopo aver dovuto emigrare in Francia e poi negli Stati Uniti, proprio per
sfuggire alle leggi razziali, e dopo aver condotto, dall’estero, una dura
battaglia in difesa degli Ebrei perseguitati dal nazismo: relazione che, come
si è detto, ebbe termine solamente con la sua morte, seguita, sei mesi dopo, da
quella di lui.
E non basta.
Negli anni del dopoguerra, oltre ad aver giocato un ruolo decisivo nella
riabilitazione del suo antico maestro, in particolare deponendo a suo favore e
sospingendo anche il riluttante Jaspers a fare altrettanto, nel procedimento
aperto a suo carico nel quadro della politica di denazificazione, Hannah
Arendt, ormai a sua volta famosa e apprezzatissima a livello internazionale,
accettò di rimanere piccola e devota davanti a lui, di fingersi
intellettualmente insignificante per gratificare la sua immensa vanità; insomma
di cancellare se stessa per non gettare la minima ombra sul geloso e
suscettibile amante: tipico esempio di sottomissione della donna agli aspetti
più beceri e meschini dello stereotipo maschilista.
Hannah Arendt, dunque, vivendo l’amore per Heidegger nel modo in cui lo visse,
ha calpestato contemporaneamente due autentici tabù della Vulgata progressista,
femminista e libertaria: come ebrea, aveva continuato ad amare e venerare un
filosofo che aveva appoggiato Hitler; come donna, aveva accettato di
annullarsi, per non dare la benché minima ombra al “monumento” del suo vanitoso
uomo (essendo peraltro già sposata anche lei).
Ah, un ultimo particolare, non per amor di pettegolezzo, ma per delineare un
quadro completo della vicenda: lui era fisicamente insignificante, piccolo di
statura, moro, scuro di carnagione, insomma di aspetto non precisamente ariano;
e non aveva nemmeno lo sguardo fulminante di D’Annunzio, anzi parlava tenendo
gli occhi bassi, come se non osasse guardare in faccia l’interlocutore; mentre
lei, oltre a essere giovane e intelligentissima, era anche bellissima e avrebbe
potuto avere ai suoi piedi (e di fatto li aveva) qualunque ragazzo o qualunque
uomo.
Insomma, questo amore “maledetto” è stato, da sempre, una vera e propria spina
nel fianco di tutti quegli storici moralisti e di tutti quei biografi
edificanti che non sono mai riusciti a capacitarsi né della bassezza, se così
vogliamo chiamarla, di lui, né - meno ancora - della “inesplicabile”
venerazione e sottomissione di lei.
Un riflesso di questo imbarazzo, anzi, diciamolo pure, di questo autentico
fastidio, si trova in tutti i biografi che hanno dovuto fare i conti con
quell’amore.
A titolo di esempio, scegliamo un libro a caso, «Storia delle altre» (titolo
originale: «A History of Mistresses», 2003; traduzione italiana di Carmen
Covito e Marco Cavalli, Milano, Mondadori, 2006, 2007, pp. 308-317):
«Sul finire dell’autunno del 1924, una precoce adolescente fece il suo ingresso
in un’aula universitaria per ascoltare uno dei più importanti filosofi
tedeschi. Di lì a poco questi due personaggi diedero avvio a un’appassionata e
complessa relazione che cambiò per sempre le loro vite. La loro storia d’amore
non fu però né esemplare né esaltante. Hannah Arendt, la studentessa
diciottenne, era ebrea, e Martin Heidegger, il suo trentacinquenne professore,
era un nazionalista tedesco che avrebbe aderito al partito nazista e causato la
rovina dei suoi colleghi e degli intellettuali ebrei. […]
Nel febbraio 1950, dopo tormentose esitazioni e incertezze, Hannah prese la
risoluzione di rivedere Heidegger. Il 7 febbraio raggiunse Friburgo e per prima
cosa gli spedì un biglietto chiedendogli di andarla a trovare nel suo albergo.
Heidegger vi capitò la sera stessa alle 18,30, senza farsi annunciare, e ancora
una volta Hannah ne rimase affascinata. “Quando il cameriere ha pronunciato il
vostro nome - gli disse più tardi – è stato come se il tempo si fosse fermato
all’improvviso.”. Incredibilmente, Hannah gli confessò di non essersi più fatta
viva con lui solo a causa del proprio orgoglio e della propria “pura, semplice
e folle stupidità”, non per altre ragioni. Ossia, non a causa del suo passato
nazista.
Heidegger, però, era stato un nazista e aveva approfittato dell’importante e
prestigiosa carica di retore di una grande università per rovinare, e in
qualche caso, annientare, la carriera degli ebrei e di chi si opponeva al
nazismo, tra cui un fervente cattolico romano. Non aveva mosso un dito per
aiutare la moglie ebrea di Jaspers quando costei aveva rischiato la morte sotto
il regime nazista,. Nelle rare occasioni in cui aveva tentato di intervenire a
favore di ebrei vittime de regime, lo aveva fatto in nome dell’amicizia, mai
per lo sdegno di fronte alla politica nazista. Nei primi anni del Terzo Reich,
Heidegger aveva letto e assimilato alla perfezione “Mein Kampf”, in particolare
l’odio antisemita del suo autore. Egli credeva, come Hitler, in una
cospirazione ebrea internazionale. Nel 1929 aveva scritto in una lettera di
avvertimento ufficiale: “È giunto per noi il momento di scegliere: o insufflare
autentiche energie tedesche e imporre modelli dello stesso ordine nella vita
spirituale della Germania, o abbandonarla alla crescente giudaizzazione, nel
senso più proprio e in quello più ampio de termine”.
Come poté durare la storia d’amore fra un tedesco nazista e un’ebrea costretta
a fuggire dalla Germania per scampare allo sterminio? A differenza delle donne
ebree violentate dai nazisti che le tenevano prigioniere, la giovane Hannah era
rimasta affascinata dalla non comune intelligenza di Heidegger e dalla sua
statura professionale, due argomenti di cui egli si era servito per sedurla e
legarla a sé. Non arrivava neppure a credere che Heidegger potesse essere
nazista, a tal punto le era indifferente, all’epoca, tutto ciò che lei chiamava
“politica”. Dal canto suo, Heidegger era abbastanza scaltro da evitare le
discussioni che avrebbero potuto far sospettare ad Hannah il suo acceso nazionalismo
e il suo consenso con le idee e gli spaventosi obiettivi di Hitler. Date le
circostanze, è difficile sostenere che la Arendt andasse a letto con il nemico
in piena coscienza.»
In questo brano di prosa che è, al tempo stesso, un cattivo esempio di biografia
e un pessimo esempio di letteratura, in cui la rozzezza dell’autrice si spinge
a ridurre una storia d’amore a una faccenda di letto, viene a galla tutta
l’ipocrisia di una storiografia e, più in generale, di una cultura
“progressista” o, comunque, politicamente corretta, che si sforza invano di
tenere nascosta una coda di paglia lunga un chilometro.
Insomma il docente satiro, mefistofelico sciupafemmine, avrebbe sfruttato il
candore e l’ingenuità della sua troppo fiduciosa allieva, per sedurla e per
tenerla legata a sé tutta la vita: mentendo a più non posso nei primi tempi; e,
poi… non si sa bene come. Ma insomma è “certo” che Hannah, poverina, non sapeva
quel che faceva, allorché «andava a letto col nemico».
Beato candore dei politicamente corretti, che non si accorge nemmeno di cadere
nel ridicolo e nel grottesco.
La verità, se vogliamo essere seri, è un’altra; e non solo nel caso di Martin
Heidegger e Hannah Arendt, ma in tutti i molti casi analoghi; e anche in quelli
più sconcertanti, come quando la vittima si innamora del proprio sequestratore,
del proprio aguzzino, del proprio carnefice: ma senza che, per spiegarli, sia
necessario ricorrere alla psicopatologia, come vorrebbero gli psicanalisti di
stretta osservanza e anche molti di osservanza più blanda e tollerante. E cioè
che nell’anima umana vi sono dei misteri insondabili, molti di più di quanti ve
ne possano essere nell’universo fisico; misteri talmente abissali, che, al loro
cospetto, le normali categorie di “bene” e “male”, di “giusto” ed “ingiusto”,
cadono miseramente, come altrettanti castelli di carta.
Uno di tali abissi è certamente l’amore, al tempo stesso intellettuale e
passionale, che può legare un uomo e una donna, magari per tutta la vita, in
condizioni sociali, politiche e culturali siffatte, da costituire un’ardua
sfida non solo al comune sentire della gente, ma anche alla stessa coscienza
dei due protagonisti.
Vi è qualcosa di abissale, in amori di tal fatta, davanti a cui non serve
scandalizzarsi, né si ha il diritto di puntare l’indice contro l’uno o l’altro
dei due amanti; e questo non è romanticismo a oltranza, ma puro e semplice buon
senso, pura e semplice constatazione di una ricchissima casistica, da cui
abbiamo trascelto, per discuterne, solo uno dei casi più celebri.
Ma quanti amori del genere esistono e sono sempre esistiti; e quanti, secondo
ogni verosimiglianza, continueranno ad esistere? Infiniti, senza dubbio.
Che piaccia o che non piaccia all’opinione pubblica, alla critica e alla
storiografia politicamente corrette, debitamente progressiste e femministe:
quando si ama, non c’è più alcun “nemico”.
Nulla da eccepire, sul testo sopra riportato, penso si tratti di un tracciato chiaro, sulla personalità id Hannah Arendt, poi leggo un altro testo biografico, che mi sembra piuttosto una novella edulcorata, romantica, e poco aderente alla verità. Eccolo, ma che, per amore di giustizia, ritengo doveroso pubblicare.
MARTIN HEIDEGGER E HANNAH ARENDT
UN AMORE IMPOSSIBILE, TRA GRANDI FILOSOFI
di Dalia Fortini
UN AMORE IMPOSSIBILE, TRA GRANDI FILOSOFI
di Dalia Fortini
Aveva diciotto anni Hannah Arendt quando partì per
frequentare l’università di Malburgo, passioni e grandi speranze per il proprio
futuro; aveva circa il doppio dei suoi anni Martin Heidegger il giorno in cui
si innamorò perdutamente di lei durante un seminario tenuto da lui sul Sofista di
Platone.
Due grandi pensatori, due personalità
indispensabili nel panorama della filosofia contemporanea, che si lasciarono
governare tra alti e bassi da un amore fatto di avvicinamenti e allontanamenti,
continui problemi e sfide: la moglie di Heidegger, la seconda guerra mondiale,
la vita coniugale della Arendt.
Cosa stregò l’uomo nel filosofo? E cosa la giovane
ragazza che aveva già sentito parlare del carismatico insegnante? Disse la
Arendt ormai anziana in uno dei suoi scritti, sulla sua gioventù: «La voce che
girava diceva semplicemente: il pensiero è tornato a diventare vivo […] C’è un
maestro, col quale si può forse imparare a pensare».
E probabilmente proprio questo irretì la ragazza
quando di trovò a guardare il suo professore fare lezione lì all’università di
Malburgo, dove Heidegger ottenne la cattedra, e proprio lui ricorderà poi nel
1950 lo sguardo che gli lanciò la Arendt, uno sguardo che solo gli innamorati
possono lanciarsi. Qualcuno dice che fu colpo di fulmine.
Heidegger nel maggio del 1917 si era unito in
matrimonio a Elfride Petri, prima con un rito cattolico, poi protestante.
Elfride lo tradì in seguito e da una sua relazione extraconiugale nel 1920
nacque il secondo figlio di lei; con Heidegger aveva avuto il primo.
Nel 1924 timidamente la Arendt cercò il contatto
con il suo professore a un ricevimento per studenti. E alla fine del semestre
dell’anno Heidegger le fece arrivare una missiva: «Cara signorina Arendt!
Questa sera devo tornare a farmi vivo con lei e a parlare al suo cuore. […] Io
non potrò averla per me, ma lei apparterrà d’ora in poi alla mia vita, ed essa
ne trarrà nuova linfa».
La moglie di Heidegger soffriva terribilmente per
le attenzioni che suo marito riservava alle giovani studentesse, in particolare
Hannah, che stregava con il suo fascino e la sua intelligenza suo marito. Fino
al 1925 il filosofo tentò di frenare la catastrofe, entrambi infatti erano consapevoli
che una relazione tra loro non doveva assolutamente iniziare. Era infatti
distrutto quando scrisse: «Cara Hannah, il diavolo mi ha preso. […] Non mi era
mai successa una cosa del genere».
E così iniziarono i primi incontri clandestini e
ben nascosti, a colleghi e amici. La passione esplose, ma a lungo andare la
Arendt rimase delusa dal suo professore, che non accennava a voler cambiare la
situazione.
Era insopportabile per lei l’amore clandestino e le
pesava non poterlo vivere senza paura. Così lo mise alle strette chiedendogli
di rendere pubblica la loro relazione, ma lui non lo fece, e lei ebbe il
coraggio di rompere la relazione.
Non gli lasciò il suo indirizzo e si trasferì a
Heidelberg, dove si laureò sul tema dell’amore in Agostino, insieme a Jaspers,
altro insigne pensatore. La cercò però nel 1927 e da Jaspers seppe che lei si
era fidanzata. E così Heidegger rinunciò a lei. Nello stesso anno venne
pubblicata l’opera più famosa di del filosofo, Essere e Tempo, che
lo rese famosissimo in ambiente filosofico, con tanto di perplessità del
maestro Husserl per il distacco definitivo dal suo pensiero.
Quello che successe poi divise i due
definitivamente: Hannah Arendt si sposò con un suo amico, Gunther Stern. La
madre la voleva sapere felice e sistemata con un uomo di buona famiglia.
Scrisse Hannah nel 1928 al suo amore di sempre: «Ti amo come il primo giorno,
tu lo sai e io l’ho sempre saputo, anche prima di questo nostro incontro».
Ma una più grande sciagura si abbatté su di loro:
il nazismo. Hannah era ebrea, Martin tedesco. Il mistero che circonda Heidegger
riguardo la sua adesione al nazionalsocialismo è ancora difficile da
sbrogliare. C’è chi dice che lui abbia aderito, chi invece no. Di fatto
sappiamo che inizialmente Heidegger aveva aderito al pensiero
nazionalsocialista e che sperava di diventarne uno dei maggiori esponenti, ma
poi qualcosa avvenne che minò le sue convinzioni e lui lasciò definitivamente
quella strada pericolosa, o così pare. Nel frattempo la Arendt aveva chiesto il
divorzio da suo marito: non l’aveva mai amato.
Scappò via insieme a sua madre, cercando la
salvezza, e la trovò negli Stati Uniti d’America. «Siamo salvi» informava l’ex
marito da Los Angeles nel 1941.
Ma lei tornò in Germania nel 1949. E ci fu un nuovo
incontro con Heidegger. Scrisse in proposito Hannah a una sua amica: «Non si è
affatto reso conto che è una storia di venticinque anni fa e che sono
diciassette anni che non mi vede». L’incontro avvenne nel 1950; lei gli fece
pervenire un biglietto in un albergo di Friburgo con scritto «Sono qui». Temeva
il momento in cui si sarebbero rivisti, aveva paura. Heidegger si scapicollò
per rivederla, l’aveva sempre voluta: «Quando l’inserviente mi ha annunciato il
tuo nome […] era come se il tempo si fosse improvvisamente fermato».
La Arendt intervenne persino in sua difesa durante
un processo in cui veniva accusato di aver favorito il regime nazista.
Ma Heidegger non lasciò mai sua moglie, né lei il
suo secondo marito. Elfride comunque ebbe di nuovo paura della donna che un
tempo aveva rubato il cuore dell’uomo che amava e non riuscì a consolarsi:
Martin viveva un periodo difficile dopo la guerra, relegato, umiliato, solo. E
ancora innamorato.
Riempì la sua Hannah di poesie e lettere. Prese un
componimento a lui molto vicino e lo dedicò a lei: «La lontananza che ti tiene
lontana da te stessa, com’è? È montagna di gioia, mare di dolore, il desolato
deserto del desiderio, luce aurorale di un avvento».
E Hannah come reagiva? Era furiosa con l’uomo che
le aveva insegnato ad amare. Scrisse infatti al suo secondo marito, Heinrich
Blucher: «Stamattina c’è stato poi anche uno scontro con sua moglie: è da
venticinque anni […] che gli rende la vita impossibile. E lui […] non ha
evidentemente mai […] negato che questa nostra era stata la passione della sua
vita».
Il nuovo marito era un confidente per la Arendt,
non avrebbe saputo cosa fare senza di lui, anche se Blucher era anche esso
coinvolto in una relazione amorosa con un’altra donna, ma sua moglie non ne
sapeva niente, per lei lui era un punto di riferimento.
Rimane scolpita nella storia la mancanza di dedica
dell’opera della Arendt, pubblicata nel 1960 in Germania con il titolo Vita
Activa o Della vita attiva. In realtà specificò in una lettera a Heidegger
che se le cose fossero state diverse l’avrebbe dedicata a lui e su quel libro
ci sarebbe scritto il suo nome. «Ho rinunciato alla dedica di questo libro.
Come potevo dedicarlo a te, mio intimo, a cui sono e non sono rimasta fedele,
ma comunque, in entrambi i casi, amandoti».
Heidegger intanto aveva una relazione amorosa con
una contessa, ed Elfride gli stava alle calcagna chiedendogli i motivi di
quell’ennesimo tradimento. Lui la rassicurò dicendole che avrebbe soltanto dato
benefici al loro rapporto. Forse in verità Elfride per lui era solo la donna
che doveva crescere i suoi figli, mentre le altre tante amanti un modo per
risvegliare il suo eros. Aveva sessantacinque anni, ma era sempre più stanco.
Tra Hannah e Martin però lo scambio di opinioni non
venne mai meno. Da lui tornava una volta all’anno a volte due e insieme
discutevano, si confrontavano, si scambiavano doni. Nel 1975 lei scrisse a una
sua amica: «Ho visto Heidegger […] è stata una cosa alquanto triste. […] era
stanco, ma non è questa la parola giusta; era lontano, irraggiungibile come non
mai, come spento. […] Noi due, Elfride e io, abbiamo conversato un po’ e mi è
sembrata davvero preoccupata e per niente ostile».
La Arendt morì all’improvviso poco dopo e Heidegger
soltanto cinque mesi dopo di lei.
Così si concluse la loro storia.
Riferimenti bibliografici:
Antonia Grunemberg,
Hannah Arendt e Martin Heidegger storia di un amore, Longanesi, Milano 2006.
Franco Volpi, Guida a
Heidegger, Laterza, Roma 2012.
Concludo con un mio pensiero: pare davvero assurdo che una donna ebrea, che ha dovuto sfuggire alla persecuzione nazista, debba difendere Eichmann. Ma dobbiamo tener conto che lei in realtà studiò solo il comportamento di un uomo che è stato plagiato da un sistema, che gli ha annullato la volontà, che gli ha cancellato la coscienza. Quell'uomo non aveva più idee proprie, avendo abbracciato l'ideologia di un criminale.
Danila Oppio