APPLAUSI A SCENA VUOTA
Di David Grossman
Mondadori, 2014
pp. 176
€ 18,50 cartaceo
Il
palcoscenico è deserto. Il grido echeggia da
dietro le quinte. Il pubblico in sala a poco a poco si zittisce. Un uomo con
gli occhiali, di bassa statura e di corporatura esile, piomba sul palco da una
porta laterale. Signore e signori un bell'applauso per Dova'le G.! C'è
qualcosa di strano nella serata.
Tra le
sedie c'è un intruso, trascinato fino a quella cittadina poco raccomandabile da
una telefonata inattesa: è l'onorevole giudice Avishai Lazar, amico d'infanzia
di Dova'le. Deve giudicare la vita intera di quello che, lo ricorda solo ora,
era un ragazzino macilento e incredibilmente vivace, con l'abitudine stramba di
camminare sulle mani. Dova'le sul palco si mette a nudo, e imprigiona la sala
nella terribile tentazione di sbirciare nell'inferno di qualcun
altro. Nella storia di un bambino che camminava a testa in giù e da quella
posizione riusciva ad affrontare il mondo. Un ragazzino che al campeggio paramilitare
viene raggiunto dalla notizia della morte di un genitore e deve partire per
arrivare in tempo al funerale. Ma chi è morto? Nessuno ha avuto il coraggio di
dirglielo, o forse lui non ha compreso. Il giovane Dova'le ha un viaggio intero
nel deserto per torturarsi con l'angoscia di un calcolo oscuro che gli avvelena
la testa. Mio padre o mia madre? Ora eccolo, quel ragazzino, ancora impigliato
nell'estremo tentativo di venire a capo di quella giornata lontana, ancora
incapace di camminare dritto.
Quella
che avete appena letto è la scheda tecnica del nuovo romanzo di David
Grossman, "Applausi
a scena vuota". O forse sarebbe
meglio dire la sinossi che si legge sul risvolto di copertina o aletta o inside
flap che dir si voglia.
E’
la storia di un attore teatrale in una città della provincia israeliana. Nel
racconto si riscontrano alcuni elementi che contraddistinguono lo stile di
Grossman: la tragedia della Shoah, raccontata con phatos ma senza perdere quel
tocco di umorismo mescolato ad un tremendo senso di colpa da parte del giudice
che è stato invitato dall’attore a presenziare allo spettacolo.
Un
libro il cui il protagonista, l'attore Dov, si cimenta nel suo ruolo di
cabarettista in una provincia marginale e borghese, utilizzando il
politicamente scorretto - facendo battute su gay, arabi e donne - per esprimere
le peggiori pulsioni. E qui riscontro un Grossman diverso da quello conosciuto
in altri suoi libri. L'autore d’improvviso decide di cambiare registro e di
rivelarci un Dov più umano, che ricorda la sua infanzia, la sua mamma, il Lager
e altri momenti toccanti della sua vita passata, come il suo primo
funerale. Quel funerale che gli ha cambiato la vita. Una catarsi che lo riporta a essere il "bravo bambino" che tutti
conoscevano.
Questo, in sintesi, il contenuto del
libro, che mi ha preso e travolto fin dall’inizio. Un racconto drammatico pur
nella sua comicità esteriore, nel senso
che sviscera l’interiorità più segreta di due esseri umani, ovvero
dell’attore e del giudice suo amico – si fa per dire – d’infanzia. Non è per
nulla facile entrare nei meandri più oscuri della mente umana. Ci sono ricordi
rimossi, perché dolorosi, o altri che non si vogliono esternare, troppo privati
o segreti. Così ho tirato le mie conclusioni: non riusciamo mai a conoscere noi
stessi e gli altri a fondo. Tutti esterniamo solo quel che vogliamo far
conoscere, cioè solo una parte di noi, del nostro essere e del nostro sentire,
quella che riteniamo più accettabile. Qualcuno un tempo mi diceva che la verità
è difficile da ammettere, che ci vuole coraggio da vendere. Bene, Dov il
coraggio lo ha avuto, così come il giudice Lazar. Ma i miei applausi, a scena
aperta e non certo vuota, vanno all’autore, che è riuscito a penetrare e
scavare nel profondo tutto quel che i due protagonisti tenevano gelosamente celato nella loro memoria
emotiva.
Chi infatti riesce ad esternare anche
la parte peggiore dei propri pensieri, o delle esperienze personali, senza
provare un minimo di vergogna? Pochi possiedono tanto coraggio.Tutti abbiamo
degli scheletri nell’armadio. La penna di Grossman, (anche mio zio di Zurigo,
marito di una sorella di mio padre portava questo cognome, pur non essendo ebreo,
ma cristiano protestante, sarà forse per questo ho tanta simpatia e stima per
l’autore?) ha fatto meraviglie, come sempre nei suoi libri, e forse meglio
ancora.
Suggerisco la lettura, che tiene col fiato sospeso, che ci rende spettatori in quel che accade sul palcoscenico dove la gente che assiste al monologo di Dov si entusiasma, si arrabbia, e poco alla volta, si defila, lasciando il locale quasi del tutto deserto, se non per quelle poche persone che hanno compreso il senso di quanto è portato in scena.
Suggerisco la lettura, che tiene col fiato sospeso, che ci rende spettatori in quel che accade sul palcoscenico dove la gente che assiste al monologo di Dov si entusiasma, si arrabbia, e poco alla volta, si defila, lasciando il locale quasi del tutto deserto, se non per quelle poche persone che hanno compreso il senso di quanto è portato in scena.
Non accade forse così anche sul
palcoscenico della nostra esistenza? Quanti veri amici abbiamo? Quante persone
sanno restarci accanto per tutto il percorso della vita? O poco alla volta ci
abbandonano, ci ignorano fino a dimenticarsi di noi? E non agiamo allo stesso
modo con altri? Chi ha la forza di accompagnare con affetto e amicizia sincera
qualcuno che per ragioni insondabili è venuto a noia, perché è più facile
mettere in risalto i difetti altrui, che non il lato buono che appartiene a
ciascuno?
Il libro di David fa molto pensare, ci fa sprofondare nella nostra introspezione, tanto da riuscire a leggere il
messaggio criptato che lancia ai lettori: la storia di Dov e di Lazar potrebbe
essere quella – con le naturali diversità – di ognuno di noi. Ci fa auto-esaminare, riflettere sul nostro comportamento e sulle cause che hanno
plasmato il nostro carattere, a volte esterne, altre dovute alle nostre
reazioni personali, di fronte ad eventi che hanno coinvolto o stravolto spazi
della nostra esistenza.
Danila Oppio
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