LA SOLITUDINE
In questi giorni, ho capito per la prima volta cosa sia la solitudine.
In realtà, a me piace essere sola perché non ho paura a stare con me stessa. Inoltre, ho tante cose che adoro da fare. Prima di tutto, curo il mio blog con il quale cerco di veicolare contenuti progressisti che ritengo utili per la società. Qualche volta, poi, quando ho qualcosa di particolare da dire, scrivo un articolo, un commento, una recensione o altro. Infine, ma non per ultimo, sto lavorando a un romanzo sull'imperatore Tiberio nel periodo in cui visse a Capri. Questo testo, che ha anche una parte moderna su un pescatore di Capri, è molto impegnativo.
Stare sola vuol dire anche avere tutto il tempo della giornata per sé, suddividerlo senza obblighi di orari, mangiare quando viene fame, dormire quando viene sonno. Tutti aspetti che reputo positivi.
Ora, però, sono sola e la solitudine mi opprime, rende il mio tempo lunghissimo, libero sì, ma inutile perché non ho voglia di fare niente.
Vedo scorrere lentamente le ore, quelle che mi avvicinano al termine della vita e che detesto perdere senza renderle produttive perché so che non torneranno.
Ma non ho voglia di fare nulla.
I figli sono lontani e sono stata proprio io a insegnare loro che sia necessario andare, seguire la propria strada, i propri interessi. Non sacrificare mai se stessi per i genitori.
Il punto è, però, che il compagno di una lunga parte della mia vita è stato operato. Quell'operazione (di routine, al ginocchio, nulla di particolarmente drammatico) è come se l'avessi subita io. Ho avuto tanta paura che morisse, prima, che stesse male, che soffrisse, dopo.
In più, dato che è lontano, sentirlo solo per telefono è tristissimo perché non lo vedo e penso che forse non stia bene, mi pare abbia la voce sofferente, forse, che abbia troppo dolore, chi lo sa!
Ho sperimentato così, per la prima volta, questo sentirmi sola, impotente e inutile.
Un tempo, scavalcavo le sbarre degli ospedali per andare la mattina all’alba, prima che aprissero, da mio padre che, negli ultimi anni, aveva subito tanti ricoveri. Ero sempre presente. E l’ho fatto non solo con mio padre ma con tutti i parenti che negli anni a turno sono stati malati. Poi, si sa, sono morti tutti, purtroppo, perché si arriva sempre là.
Ora non sono più in grado, tutto mi spaventa perché non sono più giovane e quello che facevo ridendo, facilmente, ormai non riesco più farlo.
Qui, a Savona, un tempo l’ospedale era in centro città. Quando avevo qualcuno da assistere, finito l’orario di visita, mi cacciavano dal reparto. Io, allora, rientravo passando dall’obitorio: salivo delle scale interne e arrivavo al piano del ricoverato di turno. Nonna, genitori, zie, zii...
Lo facevo con determinazione e leggerezza perché volevo fare coraggio a chi stava soffrendo.
Ora il vecchio ospedale non esiste più ma, se anche ci fosse, io sarei come tutti in portineria, in attesa dell’orario permesso, schiacciata dagli eventi. Non più capace di saltare la vita con l’incoscienza e la sicurezza di un tempo.
Mia madre diceva sempre “Largo ai giovani” e aveva completamente ragione.
Largo ai giovani, dunque, sempre che i giovani non siano, come spesso succede, vittime di indifferenza e menefreghismo.
Renata Rusca Zargar
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