Harraga - dipinto di Khetib Sid Tlemcen
Le vite bruciate del Sahel
Li hanno trovati carbonizzati a qualche chilometro da Madama, nel deserto nigerino che lambisce quello della Libia. Sei migranti che l’incendio del veicolo che li trasportava ha ridotto in cenere e che i militari nigerini, accorsi sul posto, non hanno potuto identificare. Poco lontano dai resti giacevano, feriti dalle fiamme di un altro veicolo, altri dieci migranti. Vite bruciate di giovani che la saggia follia del miraggio di un futuro altro, ha buttato lontano dalle piste conosciute dagli autisti delle camionette. Questi giovani bruciati sono metafore di quanto, da troppo tempo ormai, accade nel Sahel e nel Continente.
In Algeria li chiamano gli ‘Harraga’ che, nell’arabo maghrebino, significa ‘coloro che bruciano’ (i propri documenti). Si tratta di giovani adulti che, in assenza di prospettive d’avvenire, sono spinti ad abbandonare l’Algeria con tutti i mezzi possibili, spesso con imbarcazioni di fortuna. La costa spagnola dista a circa 200 kilometri dalla costa algerina e sono in tanti ad aver tentato il viaggio della vita che non raramente, porta alla morte. Lo stesso nome è ripreso in Tunisia che, vista la cronica instabilità della Libia, sembra essere diventata il più importante luogo di partenza per i migranti che ‘bruciano i documenti’, gli Harraga.
Tunisini, algerini, senegalesi, guineani, maliani e rifugiati dalle guerre del Corno d’Africa, il Sudan, il Congo Democratico e altri Paesi, bruciano per andare altrove. Troppo spesso, infatti, si sentono intrappolati da stati autocratici nei quali la censura, la miseria e la disoccupazione spingono i giovani a rincorrere un futuro confiscato per sempre. Molti scelgono la lotta col mare, col deserto e soprattutto col destino che altri hanno firmato per loro. C’è un crescente senso di disperazione che, come un vento impetuoso, porta lontano, sempre più lontano le speranze. C’è chi brucia dentro per inseguire il desiderio di vivere, c’è chi brucia i documenti e chi, come accaduto la settimana scorsa, brucia nel deserto.
Pazzi, profeti, esagerati, irresponsabili o forse semplicemente giovani con la fiamma che brucia frontiere, documenti, permessi di transito e leggi che dovrebbero proteggerli. Nel passato erano i militari che, in buon ordine, scortavano i migranti in Libia perché potessero lavorare il tempo necessario per aiutare la famiglia in patria. Arrivarono le leggi, le frontiere di esportazione nuove di zecca, con l’incriminazione e l’arresto degli autisti e di quanti favorivano la migrazione. Il risultato, ancora parziale, sono centinaia di morti nel deserto (528 persone in un trimestre, secondo un recente rapporto dell’Organizzazione Internazione per le Migrazioni, OIM). D’altronde l’organizzazione ‘Border Forensic’, in un documento pubblicato il mese scorso, indica che i migranti, su piste isolate, hanno scarse possibilità di sopravvivenza nella traversata del deserto.
Ritorna in mente lo scritto di un poeta turco di nome Nazim Hikmet…’Che io bruci/ che cenere io diventi/ come Kerem/ se io non…/ se noi non bruciamo/ come le tenebre diventeranno luce’?
Nazim Hikmet
Mauro Armanino, Niamey, giugno 2023
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