Tirannie senza tiranni: uno sguardo dal Sahel
La settimana prossima qui si festeggia la Tabaski o la festa del capro. Le strade più frequentate già si ornano di inconsapevoli montoni che saranno sgozzati, ripuliti, messi allo spiedo per la cottura e infine consumati in famiglia. L’atto del sacrificio si vuole come memoriale di quello di Abramo sul figlio Isacco (o Ismaele secondo il Corano), infine sostituito, appunto, da un capro. Solo che oggi, ad essere sacrificato, è il popolo dei poveri.
Sono spesso i contadini assediati dai gruppi armati in nome di Dio, i migranti e rifugiati, condannati ad errare da un luogo all’altro perché osteggiati, respinti, deportati o semplicemente cancellati dalla sabbia. Oppure i carcerati ammassati a decine nelle prigioni, gli ammalati senza poter pagare le ricette o il posto letto e i giovani coi bambini scippati del futuro. Questi e altri sono sacrificati dalle politiche che privilegiano i commercianti, i faccendieri di ogni sorta e le persone in simbiosi col potere. Sacrificati nelle statistiche delle ‘macroeconomie’ che ci si ostina a mostrare come segno della crescita del Paese. Sacrificati al saccheggio delle materie prime, dal commercio di armi, droga e persone. Capri d’oggi che si comprano sulle strade e il cui prezzo si negozia a seconda del peso e le dimensioni dell’animale.
C’è stata un’epoca nella quale identificare il tiranno sembrava facile. Lo si vedeva da vicino e aveva il volto del latifondista, del truffatore inveterato, del politico di circostanza o del dittatore i cui slogan erano stampati o disegnati sui muri dei paesi e delle città. C’erano personaggi ben noti per i quali incollare un nome e un indirizzo era ancora possibile. Il male sembrava circoscritto, localizzato e il cambiamento relativamente facile: abbattere il tiranno perché il mondo riprenda il suo corso abituale. Accadeva spesso, peraltro, che ad un tiranno ne seguisse un altro oppure che il mondo tanto agognato rassomigliava paurosamente a quello appena abbattuto.
Oggi tutto sembra più difficile perché alla tirannia non corrispondono più i volti o i nomi ma un sistema. Sembrano come tirannie senza tiranni che funzionano perché hanno imparato a memoria i meccanismi di funzionamento della dominazione globale. Vero, sappiamo i nomi delle famiglie e delle banche di notazione che incarnano il potere finanziario. Le sedi dei ‘think-tank’ che governano il pensiero le scelte dei politici. La strategia delle multinazionali delle armi che convincono alla calma i più riottosi. Conosciamo bene le scuole e le università dove si sono formati e i gruppi di potere a cui appartengono per regnare. Potremmo persino citare i luoghi dove passano le vacanze e il tipo di Dio che credono di tenere in ostaggio per garantirsi la tranquillità dell’anima.
In fondo sono gli stessi che sacrificano i poveri del loro popolo come si fa coi capri della festa prossima ventura. La tirannia non ha più bisogno di tiranni solo perché essi, da tempo, si sono bene accomodati dentro di noi. Il primo passo per riconoscerli e buttarli fuori sarà quello di riassaporare l’amaro gusto della libertà e camminare insieme nel deserto come mendicanti di verità.
Mauro Armanino, Niamey, 25 giugno 2023
Ndr: Nel prossimo articolo pubblicherò un testo che chiarisce il significato del termine Tabaski.
Nessun commento:
Posta un commento