POETANDO
In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!
sabato, maggio 30
venerdì, maggio 29
Una deliziosa cena virtuale
Due sere fa ho ricevuto l'invito a cena da parte della mia cara amica Angie. Con lei c'era anche Sesìl, la sua giovane amica cinese. Andare a Ferrara nello spazio di poche ore mi sarebbe stato impossibile, ma abbiamo ovviato all'inconveniente, cenando in forma virtuale.
Mi aveva assicurato che i tortellini modenesi, acquistati a Settecani, erano fuori dal comune, e che aveva comperato un salamino ferrarese dal gusto eccezionale. Come rifiutare un simile invito?
E allora ho accettato, così Angie (Angela Fabbri, scrittrice e cuoca di grande talento) mi ha inviato le foto dei suoi manicaretti.
A questo punto, invito a cena anche voi, Angie permettendo!
I turtlen
Gli asparagi
Un buon vinello
Il salamino ferrarese
Le fragole e le amiche pronte a gustarle!
E per finire, una bella ciotola di fragole!Le foto sono state scattate da Sesìl, io sono di fronte a loro, non avete notato che sulla tavola c'è un piatto in più? Quello era destinato a me.
Grazie Angie, per la squisita cenetta a tre, in buona compagnia!
Dani
lunedì, maggio 25
Poesie scritte dal gatto
Dissi ad Angie che i miei
versi
Spesso sono scritti di getto
Lei, un po' stanca, lesse invece
Che son a volte scritti dal
gatto
E di certo ha ragione
Poiché non sempre certe rime
Dal centro del cuore son
dettate
Di questo strano fatto la
cagione
E’ che da temi son
imbrigliate
Un sorriso m’ha strappato
E a Maui ho chiesto aiuto
Lui però mi ha graffiato
Poiché dal sonno disturbato
Angie pensò che quel che
dissi
Fosse una cosa meravigliosa
Mi chiedo: le poesie scritte
di getto
O che ci ha messo zampino il
gatto?
Non lo so, però devo
asserire
Che le battute son
divertenti
Il gatto ed io a gareggiare
A chi tra i due meglio crea
versetti
Da domani gli compro una
penna
E gliela lego allo zampino
Forse o di certo mi scotenna
Ma ad Angie faccio un
inchino!
Pure questa è scritta di
getto
Con l’aiuto del mio gatto!
Dani
Inedita
venerdì, maggio 22
Tra passato e presente
Si sentiva comunque a disagio in abiti non acquistati
apposta per lei.
Ricorda come era intimidita dalla casa di Rossella.
Le stanze emanavano un odore dolciastro, un insieme di spezie orientali, cera e
profumo di donna, di certo quello della madre, una donnina minuta e raffinata.
Il mobilio antico, i tappeti persiani, i quadri che, allora solo intuiva, ma
che oggi sa con certezza esser stati d’autore affermato, tutto era così diverso
da casa sua, così lontano dalla realtà che le apparteneva, da creare in lei uno
strano malessere. Ondeggiava nell’irreale, quasi nel metafisico. Quello non era
e non sarebbe mai stato il suo mondo.
Giocattoli suoi non ne aveva mai avuti, quelli con
cui giocava, spesso erano creati da lei, in parte con le sue piccole mani,
nella stragrande maggioranza dei casi, dalla sua fertile fantasia di bimba
povera di cose ma ricca d’immaginazione.
Anche le bambole erano “adottate” come altri giocattoli
ripudiati da Rossella, ancora nuovi, e accolti amorevolmente da un’aspirante
mammina.
Mai avrebbe pensato allora, non ancora decenne, che
la camera dei suoi bimbi rigurgitassero di giochi d’ogni tipo.
Girando nella camera di Rossella, naso in aria,
osservava lo scrittoio antico, colmo di ninnoli rari, la libreria stipata di
volumi e volumetti e una raccolta di bamboline di varia provenienza, doni
portati dai viaggi del padre.
Quando mai avrebbe potuto possedere un simile tesoro?
L’appartamento dove abitava – una vera metafora definirlo così – erano 40 mq di
spazio suddiviso in camera matrimoniale, quella dei genitori, divisa a sua
volta da una tenda, oltre la quale c’era il suo lettino. Il mini appartamento
comprendeva un piccolo bagno e un altro locale che fungeva da cucina, tinello, zona
pranzo. Era la stanza nella quale giocava, studiava, leggeva, ballava e
ballando, sognava di essere una principessa, o Carla Fracci e ogni altro
personaggio che la sua fantasia le suggeriva.
L’appartamento di Rossella, due piani sopra il suo, occupava
300 mq. e comprendeva una quantità tale di stanze, da perdersi come percorrendo
un labirinto. Ricorda un salone di vaste proporzioni, corridoi, studi, camere,
bagni e un’enorme cucina con attigua una stanza che fungeva da dispensa.
La camera di Rossella, che nella sua memoria
ricordava grande, in proporzione al resto della casa, era piccola. Gli abitini
di Rossella, che poi divennero suoi, a quei tempi erano capi d’’abbigliamento di
gran lusso, realizzati in ottimo materiale. Le gonnelline scozzesi di lana
shetland (i kilt che andavano tanto di moda nella Milano bene) o i golfini di pura lana vergine, le camicette di popeline con ricami
e i vestitini con la pettorina lavorata a nido d’ape, in rilievo, tutti di
squisita fattura, oggi le appaiono banali.
Eppure, allora tutto questo benessere, chiamiamola
pure ricchezza, per lei era qualcosa d‘irraggiungibile.
Sapeva che non sarebbe mai potuta appartenere a quel
mondo, niente di tutto ciò che Rossella e la sua famiglia possedeva, forse
neppure rendendosi conto della situazione fortunata in cui vivevano, sarebbe
stato possibile per lei.
Rossella era “in” e lei “out”!
D’altro canto, veniva dalla campagna, passando dal
dialetto alla lingua italiana attraverso sorrisini di scherno. Frequentava le
elementari nella scuola più rinomata di Milano, una scuola d’élite, per bacino
d’utenza, non certo per scelta, poiché se si fosse trattato di scegliere,
sarebbe stata allontanata come un’appestata. Le sue compagne di classe
organizzavano festicciole di compleanno? Venti su trenta erano del giro, le
altre erano escluse dagli inviti, accomunate dalla sventura alquanto singolare
e bizzarra, d’esser nate povere.
Talvolta accadeva che qualche compagna, mossa da
pietà o da un falso senso di parità sociale, la invitasse a casa sua, e lei
accettava. Ma come sarebbe stato meglio non avesse accolto quegli inviti! Si
sentiva osservata come una bestia rara. I suoi abiti non erano adeguati, il
regalino che portava era di poco valore e riconosceva il sorriso di
compatimento, poiché dotata di un animo sensibile. Questo contribuiva a
renderla ancor più timida e vulnerabile di quanto già non fosse. Non si
divertiva mai, a quelle feste, stava seduta in un cantuccio e non assaggiava
nemmeno quanto esposto sul buffet, elegantemente imbandito.
La sua mamma le diceva: “stai attenta, sii educata, e
non fare brutte figure, non disturbare, ringrazia, ecc.”
Così lei, davanti ai vassoi di pasticcini offertole
dalla cameriera di turno, rispondeva: “Grazie, no”. E tornava a casa con
l’animo gonfio di tristezza e lo stomaco vuoto. Aveva sentito il profumo di
tante cose buone, adocchiato dolcetti e tramezzini mai gustati a casa sua. Ma
aveva detto: “Grazie, no”.
Poi crebbe un pochino, d’anni non di statura, e si
chiese: “Ma in questo mio mondo che è chiuso come una prigione, non c’è neppure
una porticina da cui evadere alla chetichella?”.
Forse esisteva, questa uscita, il problema era
trovare la strada: studiare, lavorare e con i soldi guadagnati, forse avrebbe cambiato
anche il tenore di vita.
Per esempio avrebbe potuto vestirsi in modo più
elegante, frequentare gente dalla quale apprendere cose nuove. Poteva imparare qualunque cosa, purché
diversa da quella vissuta fra le quattro mura domestiche.
Doveva farsi una cultura, oltre a quella limitata agli studi scolastici. E trovare l’uomo giusto che l’avrebbe accettata per quello che era, che l’aiutasse a salire la scala dei valori, quelli veri, che la spingesse a rompere quella barriera mentale che si era creata in lei. Vedeva, infatti, il mondo come fosse a compartimenti stagni: di qua i poveri, di là i ricchi. Di qua gli ignoranti, di là i colti. Di qua gli operai, di là gli impiegati. Di qua i borghesi, di là i nobili. Di qui e di là…divisioni indivisibili!
Doveva farsi una cultura, oltre a quella limitata agli studi scolastici. E trovare l’uomo giusto che l’avrebbe accettata per quello che era, che l’aiutasse a salire la scala dei valori, quelli veri, che la spingesse a rompere quella barriera mentale che si era creata in lei. Vedeva, infatti, il mondo come fosse a compartimenti stagni: di qua i poveri, di là i ricchi. Di qua gli ignoranti, di là i colti. Di qua gli operai, di là gli impiegati. Di qua i borghesi, di là i nobili. Di qui e di là…divisioni indivisibili!
Secondo lei, nulla poteva o doveva mescolarsi. E chi
era nato di qua, di qua doveva morire, nessuna via di scampo. Non riusciva a
immaginare che un nobile poteva anche essere povero, o che un impiegato avrebbe
potuto arricchirsi. Che un
ignorante si sarebbe istruito, e un ricco cadere in disgrazia.
Se solo avesse immaginato come girava davvero il
mondo, sarebbe stata meno insicura e senz’altro più saggia.
Lei si ricordava anche di quando viveva in campagna,
nata da famiglia contadina, in quel piccolo paese erano onorati e tenuti in
alta considerazione i notabili del luogo: il parroco, il medico, il farmacista
e, ovviamente, il Sindaco.
Non aveva alcuna importanza se il farmacista, padre
di numerosi figli, e con pochi clienti
perché le medicine erano un lusso poiché a quei tempi non esisteva “la mutua”, doveva tirare la cinghia anche sul
cibo. Lui era una persona di riguardo, mentre i suoi nonni solo dei “bifolchi”:
Peccato che nessuno abbia mai visto il nonno, uomo intelligente e di gran cuore – non si dice forse “contadino,
scarpe grosse, cervello fino?” -
andare di nascosto a casa del farmacista, portando con sé una cesta colma
di formaggi, farina di mais per polenta, ortaggi, un pollo spennato, uova, e
quant’altro si poteva raccogliere dai campi e dall’orto di casa, oltre che dal
pollaio! A casa sua, in campagna, nessuno è mai morto di fame! Eppure il contadino era considerato povero e il
farmacista ricco. Vorrei sapere chi si sia preso mai la briga di fare in conti
in tasca ad ognuno di loro!
Questo accadeva nel dopoguerra e durò fino agli anni
del boom economico. Poi arrivò il ’68 con la sua rivoluzione culturale, e quel
netto divario tra poveri e ricchi scomparve. Non
scomparvero la povertà e
neppure la ricchezza. Anche oggi, i poveri sono sempre più poveri a causa della
disoccupazione e delle tassazioni eccessive rispetto ai Paesi Nordeuropei. Il
costo della vita lievita giorno dopo l’altro e la borsa della spesa non si riempie
più di tante cose buone, come un tempo, ma si presenta sempre più vuota, poiché
anche il portafoglio si svuota in breve tempo. Molte piccole e medie aziende
chiudono i battenti, soffocate dalle multinazionali e pare di essere tornati
ancora ai tempi del dopoguerra, con un’enorme differenza: allora ci fu la
ricostruzione, che diede lavoro a tutti, adesso si smantella quel che era stato
costruito con tanto amore e dedizione. Cultura compresa.
La storia che ho raccontato è uno spaccato di vita
del tempo passato. I ricchi donavano ai poveri quello che a loro non serviva
più e i poveri ben volentieri gradivano quei doni, non potendo
acquistarli. Gli attuali poveri,
faticano ad accettare roba riciclata, e piuttosto nascondono, come possono, la
loro nuova situazione economica, rovesciatasi quasi all’improvviso, per aver
perso il posto di lavoro, e senza alcun aiuto da parte dello Stato. L’arrampicata
sociale è potuta accadere per merito della crescita economica degli anni ’60, e
chi era povero, grazie al lavoro, è diventato benestante ed ha potuto
cancellare parte di quel divario sociale che era ad appannaggio dei ricchi. La
cameriera, era trattata come una serva, non aveva neppure la giornata di libertà
e se era assunta dalle famiglie danarose, a tempo pieno, lavorava dalla mattina
presto fino a notte inoltrata. Certo le erano consentiti vitto e alloggio, ma
il lavoro era tiranno. Però almeno c’era! Poi con l’arrivo dei sindacati in
difesa dei lavoratori, molte cose sono cambiate in meglio. Le dattilografe
lavoravano dieci ore al giorno, spesso anche di sabato. C’era molto da cambiare
e questo avvenne. E i signori con la puzza sotto il naso, hanno capito che dovevano
abbassare la cresta, avendo già tanto ottenuto dalla vita, che almeno non la
facessero pesare su quelli meno fortunati di loro.
Oggi i ricchi sono chiusi nel loro bunker, dove
cercano di ammassare più denaro possibile, a volte speculando, riciclando denaro
sporco, abusando del loro potere per schiacciare le piccole aziende, evadendo
le tasse accendendo conti correnti all’estero. Che li accendessero con un
cerino così da dar loro fuoco! E i poveri? Quelli ci sono sempre stati e sempre
esiteranno. Mi spiegate come fa chi è ricco, a sapere di esserlo, se non vi
sono i poveri a fungere da cartina di tornasole? Non sapremo mai che la neve è bianca, se non avessimo il
carbone che ci dimostra che è nero!
E a tal proposito, sono incazzata nera, al pensiero
di come potrebbe essere diverso il mondo, se la ricchezza fosse distribuita con
maggior equità, quanta meno gente morirebbe di fame!
Già, perché non costa nulla donare un vestito smesso
a chi non può comprarselo, ma costa molto creare nuove occasioni di lavoro,
così che con uno stipendio, chi non ha mai mangiato pane possa finalmente
gustarne il sapore.
Danila Oppio
mercoledì, maggio 20
"ATTIMI" Della pittrice Carla Colombo
Buon pomeriggio
Ho il piacere di comunicarvi che dal 30 maggio al 7 giugno terro’ la mia personale, dal titolo “Attimi”, a Olginate (Lc) presso la splendida Villa Sirtori in Piazza Marchesi d’Adda, col patrocinio del Comune.
Continua cosi il mio percorso artistico che negli ultimi tempi mi ha vista impegnata in collettive internazionali presso il The Breck di Londra, la biennale di Linas in Francia ed alla Galleria Centrale dell’Unione a S.Pietroburgo.
Senza trascurare le numerose partecipazioni a collettive di rilievo nazionale e regionale.
"Questa di Olginate sarà l’occasione, come dice il critico dr. R. Aracri :” di immergerVi nel Suo mondo poetico fatto di colori brillanti e avvolgenti supportati da un talento innato e da una tecnica che lascia il segno e diventa marchio della sua pittura. Le sue opere spaziano dal paesaggio brianzolo ripreso nella sua variegata espressività stagionale, all’informale che diventa confine di sperimentazioni innovative, all’acquerello dove riversa la sua sensibilità poetica fatto di linee calde ed emotivamente coinvolgente.
Una bella full immersion nei suoi colori da cui si esce con un sentimento diverso e che certamente ci concilia con le vicissitudini del quotidiano".
La mostra sarà aperta : martedi 2 giugno e sabato e domenica ore 09,30-12 e 14,30-19. Gli altri giorni 15,00-18,00.
A tutti un caro saluto e a un presto vederci
Carla Colombo cell 349 5509930
lunedì, maggio 18
Storie di bambole
Da bambina, ma non prima dei 6 o 7 anni, ho avuto in dono una
bambola che aveva il corpo di stoffa, riempito di segatura mentre viso, braccia
e gambe erano di gesso. I capelli parevano un nido di rondine marrone,
impossibile da pettinare. Era proprio bruttina, ma questa pupattola l’amavo
molto. Le avevo messo nome Renata e per anni, insieme a una mia amichetta e
compagna di scuola, con i ritagli di tessuto che ci regalavano le nostre
rispettive sarte, ci divertivamo a cucirle i vestitini. Ricordo che mi era
stato dato anche un pezzo di pelle da guanti, sottile e duttile, e con quella
le avevo fatto anche le scarpette.
Avrò avuto 12 o 13 anni, quando un giorno non la trovai più. Che me
ne facevo della scatola piena dei suoi vestitini fatti su misura e dei ritagli
di stoffa, se non possedevo più la modella che li indossava? Si, perché per me
era il gioco più bello, quello di confezionarle i vestitini di vari colori.
Renata era come fosse il manichino per le prove sartoriali.
Ho chiesto a papà dove fosse finita, e lui mi disse che mamma
l’aveva buttata via, perché vecchia e brutta. L’ho recuperata nella pattumiera
condominiale, in mezzo a scarti di cibarie, lurida. L’ho lavata e salvata, Ma
dopo un po’ di tempo, la segatura del suo corpo si perdeva in giro per casa, e
fui costretta a separarmi definitivamente da lei.
Durante gli anni della mia prima infanzia, avevo ricevuto in dono
due bambole Lenci, di straordinaria bellezza. Una aveva le gambe e le braccia
lunghe, come fosse un’adolescente. Gli occhi erano realizzati in vetro azzurro
intenso, quasi cobalto, e indossava un abito d’organza bianco, con ricamate
delle bordure a punto croce. L’altra era un tipo spagnolesco,
dall’incarnato abbronzato e dall'espressione imbronciata, pienotta, con due treccioni neri. Indossava un abito
arlecchino, proprio quello a losanghe di vari colori. Il fatto pietoso fu che io, essendo troppo piccola e inesperta, davo da
mangiare alle bambole, attraverso un buco fatto nella loro bocca, e così il
materiale con cui il loro corpo era imbottito marcì, e puzzavano da
schifo. Allora ho salvato gli abitini, e buttato le bambole, che se ora le
avessi, avrebbero un valore non indifferente. Anche l’abito arlecchino, col
tempo è stato rovinato dalle tarme, e gettato tra i rifiuti. Mentre dell’abito
di organza deve trovarsi ancora in uno dei bauli della casa di campagna di
mamma.
Poi ero la “mamma” di Stefano, un bambolotto di lattice, che aveva
l’incarnato proprio come quello di un bimbo vero, al quale mia madre sferruzzava
abitini di lana, come quelli che allora si facevano anche per i cuccioli
d’uomo. Poi c’era Alessandro, che invece era di celluloide, rigido
quindi, ma molto bello, perché sembrava proprio un neonato, forse come aspetto,
era l’antenato di Cicciobello. Anche per lui, mamma gli confezionava calzoncini
e magliette. Che fine abbiano fatto,
questo lo so, come tutti gli altri giochi (servizi di piattini e tazzine da
caffè in porcellana, pentoline di alluminio o rame e quant’altro). Ormai ero
cresciuta per pettinare le bambole, ma i miei giocattoli erano ancora quasi
nuovi. Sono così stati portati nella casa di campagna, in attesa di eventuali
figlie. Dentro le loro scatole originali o in scatoloni di cartone. E poi
riposti in un armadio.
Nonna Ina, la madre di mia madre, si prendeva cura della casa e del
giardino, nel periodo in cui noi eravamo a Milano, in modo che durante le
vacanze, la nostra casa fosse agibile. Con lei, c’era la mia cuginetta Dolores
e per farla stare tranquilla, le dava i miei giochi. Ovviamente senza aver
informato nessuno. Così quando in estate andavo nella casa di campagna per
trascorrere le vacanze, mancava sempre qualcosa: le bambole, qualche tazzina,
le pentole erano piene di bernoccoli, o schiacciate. Alla fine, per mia figlia
era rimasto ben poco e quel poco, piuttosto malconcio.
A parte la mia passione sartoriale infantile (che poi cucivo alla
bel e meglio, con punti lunghi e storti, e solo con ago e filo, perché la
macchina da cucire non ho mai imparato ad usarla anche se mamma la possedeva)
preferivo i giochi all’aria aperta, ai giardinetti, dove mi arrampicavo sugli
alberi come uno scoiattolo, e regolarmente tornavo a casa con il vestito
sbrindellato. Oppure mettevo i miei pattini a rotelle, ma non quelli belli che
hanno inventato poi, con la scarpetta annessa. I miei andavano agganciati alle
scarpe normali,
regolando con la
farfallina metallica la misura della lunghezza, e stringendoli con cinturini di
cuoio. Il rischio che di tanto in tanto, il pattino uscisse dalla scarpa, era quello di tombolare a terra, e sbucciarsi le ginocchia.
Mi piaceva molto leggere tanti libri di fiabe, durante i giorni invernali o
di maltempo.
Sono storie di bambole e di giochi di bambina, ancora vive nei miei
ricordi di un’infanzia serena e felice.
Danila Oppio
sabato, maggio 16
La verità esiste?
vorrei parlarti della verità, quella che tu dici di professare.
Ieri sera, alla trasmissione Otto e
mezzo presentata da Lilly Gruber c'era, insieme ad un altro
scrittore-giornalista di cui ora mi sfugge il nome (memoria svanita!) e
a Jas Gawronski, Roberto D'Agostino e parlavano di verità. D'Agostino
ha sostenuto che la verità NON esiste. E ha ricordato il film Rashomon, nel
quale, durante un processo, tre testimoni che avevano assistito al delitto e si erano perfino auto-accusati dello stesso, hanno dato tre versioni diverse. Eppure erano presenti tutti e tre e avevano
visto la stessa scena. Ha portato questo caso ad esempio, proprio per dire che
ognuno si crea la propria verità, che è sua e inappellabile, ma che non
corrisponde a quella del pensiero altrui. Ognuno possiede la certezza di essere
nel vero e nel giusto, in realtà, è quanto fa parte della sua auto-convinzione.
Devo dire che ha espresso il mio stesso pensiero.
Potrei porti un esempio: siamo nella tua nuova cucina, mi cade una tazzina dalle
mani, e sono presenti tre persone: tu, S. e J. Tu dirai che la tazzina mi è
caduta perché sono distratta, S. dirà che è stato un banale incidente che
potrebbe capitare a tutti. J. sosterrà che la tazzina era bagnata, e per questo
mi è scivolata dalle mani. Ora, la verità assoluta è che la tazzina è caduta a
terra ed è andata in pezzi, ma la ragione per cui questo è accaduto, potrebbe
avere diverse motivazioni. E quelle sono verità relative.
Quando si parla di verità, questa può senz'altro riferirsi ad un fatto
reale. Se hai scritto un libro ed è stato pubblicato, non si può negare che
questo sia avvenuto. Ma il contenuto del libro da cosa è stato ispirato? Quale
decisione è nata in te per scegliere una casa editrice piuttosto che un'altra?
E mille altre domande potrebbero nascere e da queste scaturire mille
altre risposte. Ma sono le tue verità. L'unica che non potrà mai essere
contestata o messa in discussione, è quella che il libro è stato stampato e
scritto da te.
Quindi anch'io avrei una preghiera da farti, e non si tratta di un
ordine: "smettila di...." come mi hai scritto tu. Per favore,
non pensare di essere la sola depositaria della verità assoluta. Tu sei in
possesso della tua verità. Io della mia, gli altri delle loro.
Se leggo un giornale, la nuda verità è che quell'articolo è stato pubblicato,
ma che sia vero e reale il suo contenuto, o un insieme di mistificazioni, di
mezze verità, o di vere e proprie
falsità, questo non lo posso sapere. Lo sa
solo il giornalista che lo ha scritto.
Ci tenevo a dirti questo mio pensiero, poiché tu sei sempre pronta a
giudicare, ad accarezzare il gatto contropelo, come così bene ti sei espressa,
ma devi imparare a guardare alle cose con un occhio più magnanimo, e ad
accettare anche l'opinione (e bada bene, non dico verità poiché la verità è
solo un'opinione personale) che gli altri si fanno di te. Buona, meno buona o
sbagliata del tutto, che sia. Io ti vedo in un modo, J. in un altro e S. in un
altro ancora. Non siamo di granito, che resta immutabile per secoli. Cambiamo a
seconda degli stati d'animo. E siamo sempre in crescita o decrescita, scossi
dal vento della vita. E come si trasforma il corpo, durante la nostra
esistenza, tanto più si trasforma il nostro carattere, il nostro modo di
pensare. Chi ci ha conosciuto nel passato, non può dire che siamo fatti in un
certo modo, perché nel frattempo abbiamo modificato in noi molte cose e non
siamo più gli stessi di allora.
Così appare che la verità non è il ricordo di noi, conservato nella
mente di chi ci ha conosciuto un tempo, ma quello che siamo ora, in questo
preciso istante. Così come chi ci vede arrabbiati, non può pensare che abbiamo
un brutto carattere, e chi ci vede allegri e spensierati, che siamo persone
simpatiche e piacevoli. Noi siamo tutto questo e molto di più. Ma la
verità non appartiene a nessuno.
Le menzogne non rientrano in questo contesto. Quelle sono bugie e basta. Qui ho trattato della verità e di come possa variare in base a chi la interpreta.
Danila Oppio
16 maggio 2015
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