I RICORDI
NON MUOIONO MAI
(in bianco nero e a colori)
Azione.
Camminare. Fare. Lavorare. Robot di
carne, programmato da mattina a sera, senza sosta. Chi? Tu, io. Qualche volta
restano brevi istanti per pensare, ricordare, vivere e…sopravvivere di ricordi.
Quando non ero, non eri Robot, ma Uomo.
Allora ti
senti scoppiare nel petto una gioia da far quasi male, tanto è intensa.
Soffri di
felicità, se questo ha un senso.
Penso a
cose non programmate, avverto sensazioni discoste dall’automatismo. Dunque
vivo!
Mi
dissocio dall’involucro che questa Era mi ha avviluppato addosso, quasi
un’armatura coriacea. Divento molle, flessibile, umana.
Esco
dalla città, e cammino verso un Paese. Il Paese. Un luogo che tanto amo, al punto
che quando si materializza nei miei pensieri mi trasfigura nell’intensa
sofferenza del suo apparire.
Un amore
immenso, tanto grande da penetrarmi dentro. Il mio pensiero continua a
camminare e sono già arrivata. Un Paese letargico, sonnolento, fermo nel tempo.
Non è quello che è diventato oggi, moderno. No davvero.
Entro nel
cascinale vetusto. Cerco il grande camino di pietra, nella stanza spoglia, dai
muri anneriti dal fumo.
Annuso
l’odore di ricotta abbrustolita, di polenta appena posta sul tagliere di legno,
di cavoli soffocati in padella.
Mi guardo
intorno, cerco la vecchietta vestita di nero, mucchietto d’ossa là nell’angolo
della stanza, col rammendo in mano.
Entra di
corsa nella grande cucina il nipotino moccioso, i vestiti rattoppati alle
meglio e cuor contento. Incanto della povertà contadina.
Ah, ecco
le arnie sul poggiolo. Durante l’inverno bambino gusterò pane e miele,
succhierò i favi di cera, avvertirò l’amaro bruciore di una puntura d’ape, ma
ne varrà la pena.
Esco in
cortile. È un cortiletto ingombro di
ogni cosa utile o inutilizzata: carretti e carriole, biciclette sgangherate,
sgabelli per la mungitura, e panche, dove ci si siede a sgusciare piselli e
fagioli.
E poi
ancora vedo ceste e cestini per riporre i grappoli d’uva o le pannocchie di
granoturco, sparpagliate nell’aia. Panieri per cogliere le ciliegie da rami
carichi di frutti.
Ecco il
cotogno. A Natale avremo marmellate squisite, come non si trovano nelle
botteghe.
Ora
m’incammino verso la piazza, lì troneggia la Chiesa e il campanile appuntito.
La strada è bianca di polvere, dopo soli pochi passi, le scarpe sembrano
vecchie di anni. E il sole picchia in testa come una mannaia. Ho sete e i gelsi
che bordano la via mi offrono more bianche e nere, che placano per qualche
istante l’arsura. Dolcissime.
Attraverso
la via principale, lì c’è un’osteria, di là un’altra. Vecchietti con pantofole
di feltro ai piedi e pipa in bocca, se la contano su, tenendo tra le mani
scarnite un bicchiere con un’ombra de vin.
Visi avvizziti, bruciati dal sole, color terracotta. Vecchi a soli
cinquant’anni e forse di meno. Mi sembrano centenari da sempre.
Entro in
chiesa, mi avvolge una frescura quasi di doccia d’aria, che mi ristora dalla
calura esterna. Le sue mura bianche, intervallate da note di colore nelle
nicchie. Povere statue di gesso, per gente che si accontenta del poco.
Ritorno
in piazza, percorrendo un viottolo pavimentato con ciottoli. Balconi di legno
cui si arriva da scale esterne che portano al piano sovrastante, si affacciano sulle vie, bordati da una
fioritura di gerani e petunie che ingentiliscono le mura di pietre grigie, come
se la casa sorridesse, nonostante l’umile aspetto.
Sono case
costruite da mani callose, le mura cementate col sudore del muratore.
Paese,
amore mio, che ho ripercorso in lungo e in largo, casa per casa, per campi e lungo
le rive del torrente saltellante, su carri tirati dai muli.
I miei
passi si sono fatti più lenti, cammino sui tacchi. Non sono più una bambina.
Oggi
E le
strade sono asfaltate, le auto sfrecciano veloci. Le vecchie case sono
intonacate di bianco, ripulite modernizzate e a loro si sono aggiunte graziose
villette.
I robot
sono arrivati anche qui. Hanno ucciso il mio Paese.
Però lo
amo anche così, perché quando percorro le sue vie, non è all’aspetto attuale
cui guardo, lo rivedo ancora come quand’ero piccina.
Si, proprio
come una vecchia sposa vede il suo uomo ancor giovane, con gli stessi occhi di
allora.
Ecco
perché, quando qualcuno con disincanto e velata ironia, mi domanda cosa mai
trovo di speciale in quel Paese che ritiene anonimo, non trovo parole adeguate
per rispondergli. Ora però ho in tasca la risposta e la dico: cosa ci trovo? La
mia gioventù!
Danila
Oppio
Milano,
30 novembre 1983
E' un racconto meraviglioso! Si sente che viene dal cuore di una persona innamorata dei bellissimi ricordi della sua infanzia spensierata e felice.
RispondiEliminaMi fai un grande favore? Puoi apporre la tua firma? Non appare che la scritta Unknown, ovvero sconosciuto. Ma grazie per il commento molto gradito.
RispondiEliminaComplimenti: dalle tue parole traspare tutto l'affetto che ancora provi per il tuo "vecchio" paese. Da allora, quando eri bambina, molte cose sono cambiate, direi migliorate. Purtroppo le stesse frasi non le può scrivere chi fa ritorno a Fonzaso negli ultimi anni: ciò che nota e che ferisce sono le serrande chiuse. Ogni anno qualcuna in più, segno purtroppo di un paese che muore o si impoverisce
RispondiEliminaGiuseppe, noi ci conosciamo perché da giovani uscivamo in compagnia di Daniela Corso e di Gigi Furlin, l'ex sindaco. Sono circa 10 anni che non torno a Fonzaso,ma seguendo la pagina FB Sei di Fonzaso se...mi aggiorno su quanto succede e la chiusura dei negozi mi provoca un dispiacere che nemmeno saprei spiegare. Il paese è migliorato sotto il profilo edilizio, le vecchie case sono state ristrutturate e ne sono state costruite delle nuove. Le strade sono migliorate, non pare nemmeno più il paese che ricordavo da bambina, ma ormai con i supermercati e l'auto in possesso a tutti, la gente si sposta e non dà lavoro ai negozi, che però sono sempre stati utili alle persone anziane, che non guidano l'auto e per loro era anche l'occasione per far quattro passi in giro per negozi e scambiare due parole con chi incontrava. Davvero triste questa situazione. Un caro saluto e grazie per il commento. Danila
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