Il tempo della Diplodoco
di Renata Rusca Zargar
L’aria si tingeva di rosso. Da poco discosto giungevano i prolungati e vigorosi richiami del branco che si allontanava pigramente nella prateria.
La femmina di diplodoco, con il lungo collo teso nello sforzo e la coda sollevata, invece, stava deponendo dolcemente le uova, un centinaio circa, in una spaziosa buca al limitare della foresta di sequoie. Concluso il suo compito, ricoperta la fossa con terriccio e fogliame del sottobosco, si era avviata pian piano a raggiungere gli altri.
I suoi compagni stavano ingurgitando grandi quantità di felci che ricoprivano ogni angolo di quella terra fertile e umida.
La diplodoco, dunque, si era riunita al branco e aveva ripreso a spezzare rami con i denti, ingollandoli interi insieme ai sassi gastroliti che l’avrebbero aiutata nella digestione.
Poi, con la calma derivante dalle dimensioni e dalla necessità di poggiare sempre almeno tre zampe al suolo, gli animali si erano avvicinati al fiume. Il loro muso verdastro, un po’ aguzzo, s’immergeva nell’acqua limpida che scorreva spumeggiando tra le pietre. Indi, alzando la testa e schioccando la lunghissima coda, essi emettevano un energico mugghìo.
Improvvisamente, però, un acre odore di fumo e di legno bruciato si era sparso nell’atmosfera mite del mattino: il fuoco era giunto da molto lontano e aveva incendiato la vicina selva di conifere! Il panico si era impadronito delle bestie che tentavano di fuggire disperatamente dal pericolo.
Le lingue di fuoco avanzavano veloci, attaccavano le foglie secche del tappeto erboso, i rami degli alberi, i grandi tronchi: tutto intorno era un crepitare di braci e tizzoni ardenti! L’aria si era fatta densa e irrespirabile.
Il branco fuggiasco allungava le gigantesche zampe alla ricerca di un luogo in cui ripararsi, ma già le fiamme avevano raggiunto i capi più deboli che abbrustolivano, emettendo i loro ultimi lamenti: prima bruciava la lunga coda, poi l’enorme corpo… Ancora e ancora il fuoco sovrastava impietoso e consumava altri compagni…
La mattina dopo, un’alba nebbiosa si era levata sulle carcasse fumanti: decine e decine di animali avevano concluso il loro cammino terrestre e tra loro giacevano anche le ceneri della femmina che aveva da poco deposto le uova.
Perduta la madre e il branco di provenienza, le uova, al contrario, salve in un lembo di terra che non era stato toccato dalla tragedia, dovevano riposare ancora sotto il fitto strato di humus e foglie che le proteggeva.
La vita, all’intorno, continuava animata come sempre.
Gli altri dinosauri, per la maggior parte erbivori, transitavano nelle vicinanze alla ricerca del cibo.
Una mattina, un ornitolestes, carnivoro invece, aveva visto spuntare dal fogliame qualcosa di chiaro. Il suo grido di vittoria si era librato nell’aria: le uova di diplodoco erano per lui una vera leccornia! Parecchi compagni erano accorsi: i gusci si spezzavano cricchiando sotto i loro rapaci denti mentre brandelli di gustosa giovanissima carne in formazione nelle uova stesse veniva inghiottita con avidità.
Concluso l’attacco, non restava che un solitario ovetto, un poco più piccolo, che si era trovato distante dal resto della nidiata.
E, infine, il momento della nascita era giunto: spezzato il guscio, una diplodoco di pochi centimetri era sbucata con il capo dalla sterpaglia e subito si era avviata verso la foresta con le sue zampotte corte e un abbozzo di coda, ansiosa di scovare un nascondiglio ove crescere in pace.
Le piccole tenere felci facevano già gola al suo esuberante stomaco così che la crescita (due o tre chili al giorno) era assai veloce.
Ma il tempo solitario, anche per una diplodoco, era piuttosto noioso: erbe sempre uguali, un misero ruscello, nessuna presenza di una madre a mugghiare nelle vicinanze e molti pericoli in giro che non le permettevano di porsi in cammino all’esplorazione del mondo.
Un pomeriggio, mentre il sole friggeva alto nel cielo ed essa, che ormai aveva un anno, cercava ristoro nelle onde di un canale chiacchierino, un essere alato grigio, non molto grosso, era volato fino a lei e si era posato sulla sua groppa grinzosa. Era un simpatico pterosauro femmina che, come tutti gli esemplari della sua specie, usava vivere sul dorso dei diplodochi, nutrendosi di insetti.
Eppure, ancora, il tempo sembrava trascorrere identico: mangiare, riposare, bere… Così, insieme, una fresca mattina, le due giovani amiche si erano avventurate per un largo sentiero che fiancheggiava il ruscello.
Più avanti, si stendeva l’ampia prateria che la diplodoco non aveva mai visto: bassi cespugli giallastri inariditi e calpestati dai branchi che si confondevano, all’orizzonte, con una corona di cime scure per la distanza.
Ammaliata dalle novità della scena, essa non aveva notato che si stava pericolosamente avvicinando a uno stegosauro, subito furibondo per l’intrusione. Il sangue era affluito, per la rabbia, alle placche dorsali del mostro ed esse erano divenute rosse e screziate mentre la coda, ricoperta di letali punte ossee, volteggiava nell’aria. Ma la pterosauro aveva svolazzato davanti al muso dell’amica tanto che, infine, essa aveva capito e aveva cambiato direzione, sfuggendo, per un pelo, a un tremendo colpo di coda e continuando altrove l’itinerario.
“Certo, il mondo è assai spaventoso, – pensava la diplodoco- e io non ho nessuno che mi insegni come comportarmi. Anzi, non sapevo proprio che esistessero esseri tanto colossali e terrificanti! Nella mia foresta tutto sembrava tranquillo, il sole occhieggiava tra i rami, il cibo era abbondante… Tornerò là.”
La strada, però, ora sembrava lunga e ignota. Frattanto, il cielo si era paurosamente oscurato, grosse gocce di acqua avevano iniziato a cadere violente, da dietro le attigue colline giungeva il brontolare dei tuoni e i fulmini saettavano impietosi tra cielo e terra.
Dove nascondersi?
Continuando a camminare, seppure lentamente, le due compagne avevano raggiunto una grotta e si erano rifugiate all’interno.
Altrove, gli animali urlavano atterriti mentre la tempesta aveva infuriato per tutta la notte, sradicando alberi e foglie, inondando il terreno.
Poi, come per incanto, il trambusto era cessato: il sole si era levato nuovamente in cielo mentre l’erba umida e rigogliosa brillava, attirando la famelica attenzione della diplodoco. In fondo, il mondo non era poi così brutto!
Mentre il suo muso verde affondava gioiosamente tra la verdura, le sembrava pure di discernere dei mugghii a lei stranamente familiari. Ecco, laggiù, infatti, mastodontici diplodochi che brucavano negli sterminati prati che costeggiavano un immobile lago blu. Essa aveva di nuovo dovuto constatare, come il giorno prima davanti allo stegosauro, di non aver mai visto animali così smisurati!
Una femmina adulta, però, l’aveva scorta, finalmente, e presa sotto la sua protezione così che essa si sentiva ormai serena, anche se non riusciva a credere che un giorno sarebbe stata imponente come loro.
Ciononostante, ancora una tremenda avventura l’attendeva. Occultato dalla macchia verde, un allosauro attendeva pazientemente che uno dei capi più piccoli si allontanasse dal gruppo. Purtroppo, era stata proprio l’inesperta diplodoco che, felice, seguendo il profumo delle felci fresche, si era trovata, a un tratto, un po’ distanziata dagli adulti. L’allosauro, intesa la situazione favorevole, si era slanciato in una rapida corsa sulle zampe posteriori mentre le due anteriori, più corte, rimanevano in alto, pronte a colpire la preda. Con un balzo si era avventato sulla poverina e, emettendo spaventosi rugghii dalle fauci spalancate, l’aveva attaccata sul fianco destro.
La diplodoco aveva tentato una debole difesa alzandosi anch’essa sulle zampe posteriori mentre l’amica, terrorizzata, svolazzava affannosamente e caoticamente. Tutto inutile: il sangue scorreva dalle ferite e la fine era imminente.
Imprevisto, però, un energico colpo di una tremenda coda frusta, caratteristica della razza, aveva gettato l’allosauro a parecchi metri di distanza. Esso era fuggito, abbandonando la preda che era tornata, infine, vicino alla madre adottiva.
Da allora, la diplodoco era cresciuta ancora. Un giorno anch’essa avrebbe deposto le uova, circa un centinaio, grandi ognuna quanto un pallone da calcio dei nostri tempi, in una buca proprio al limitare della foresta. I piccoli sarebbero vissuti salvaguardati dagli alberi e poi si sarebbero ricongiunti al gruppo ed essa avrebbe insegnato loro ciò che aveva finalmente imparato.
La mandria di diplodochi si spostava, dunque, in fila, lungo la sterminata prateria, i più grandi in testa. Inutilmente, un gruppo di ornitolestes dalle modeste dimensioni, solo due metri di lunghezza, si sforzava di sfoggiare le penne per impaurirli: una volta cresciuti, anche trenta metri di lunghezza e cinquanta o sessanta tonnellate di peso, i diplodochi non temevano più nessuno.
Sullo sfondo, le montagne ergevano splendide i loro picchi verso un incantevole cielo blu che si rispecchiava nelle acque limpide della terra.
Era il Giurassico: da un Polo all’altro si estendeva la Pangea, l’unico continente che ricopriva la terra popolata dalle creature più grandi che mai vi fossero comparse.
L’uomo era lontano ancora milioni di anni.