Nanna
di Renata Rusca Zargar
La luna piena spuntava quasi rossa sopra gli archi e le mura della fortezza del Priamar. Pria - ma, pietra sul mare, era, probabilmente, il significato del nome imposto alla zona, fin dai tempi più antichi, per la posizione strategica che permetteva agli indigeni il controllo dell’alto Tirreno e degli sbocchi al mare delle valli tra Vado e Albisola.
In quell’attimo, poi, una lama di luce si diffondeva in una fetta di mare blu immobile, quasi a trattenere il respiro. Attorno era solo buio. Un cane latrava nella notte.
Giovanna amava passeggiare tra quelle solide mura che, costruite dopo il 1528, a testimonianza della sottomissione dei savonesi a Genova, sapevano raccontare tanti secoli di storia!
Negli scavi archeologici della cittadella, inoltre, giacevano resti di un passato assai lontano: dagli stanziamenti dei Liguri Sabazi tra l’età del Bronzo e del Ferro alle tombe romane e ai periodi seguenti…
Così, si era seduta sul muretto che li costeggiava e aveva chiuso gli occhi.
Intorno solo boschi. La sua capanna si affiancava ad altre in quella radura un po’ più elevata rispetto al terreno circostante, di fronte al mare. Il sole batteva sugli appezzamenti coltivati che attorniavano le casupole. Il suo corpo, in pochi mesi, si era arrotondato e si affaticava più facilmente a lavorare nel piccolo campo sul retro dell’abitazione. Ma il suo compagno, padre di quel bimbo che già l’appesantiva, era partito per la guerra insieme agli altri uomini del clan. Essi erano stati arruolati dai romani.
- Non voglio più combattere Roma, – le aveva detto Dercino nel lasciarla - come ha fatto il nostro popolo per tanto tempo. Non c’è futuro se non in quello di Roma. Né voglio fare il brigante, ungendomi di grasso per ingannare i cani da guardia, come i tuoi fratelli. Io e gli altri del villaggio accetteremo la paga di Roma e, una volta sconfitti i nemici, vivremo in pace. -
Austeri e rudi, come avevano appreso a essere dalla loro stessa terra che non produceva nulla che non fosse frutto di tanta fatica, gli uomini nascondevano sentimenti forti e sinceri per la famiglia. Lo sapevano bene Nanna e le altre donne del villaggio che si sentivano protette e amate da loro.
La lontananza sarebbe stata dura, ma un giorno essi si sarebbero riuniti.
Intanto, ella avrebbe narrato al loro bimbo, quando sarebbe nato, la storia di Cicno, il loro primo re, proprio come facevano tutte le mamme appartenenti al numeroso popolo ligure.
- Cicno era l’indomito capo di un gruppo di valorosi guerrieri. Nessuno poteva eguagliarlo in coraggio ed egli non si stancava mai di difendere la sua gente. Ai suoi tempi, però, successe che Fetonte chiedesse al padre Elio, il Sole, di lasciargli guidare il carro che attraversava, dall’alba al tramonto, le splendide vie del cielo. Elio acconsentì a malincuore e indicò al figlio la rotta da seguire. Fetonte partì, fiero del suo compito, ritto in piedi sul cocchio con le redini ben salde tra le mani. Ma, quando vide alcuni dei feroci ed enormi animali dello Zodiaco sparsi per la volta celeste come il leone, il toro, lo scorpione, l’ariete, se ne impaurì tanto che scese sempre più in basso con il carro fino a bruciare le terre su cui passava. Niente più messi biondeggianti né corsi d’acqua limpida a tacitare la sete, o greggi al pascolo tra le verdi erbette profumate né fiori dai mille garruli colori! Tutto era divenuto un’ardente fornace e molti uomini avevano perso la vita.
Per questo ingente danno, Zeus lo fulminò ed egli cadde nell’ampio fiume Po dove le sue sorelle, le Eliadi, lo raccolsero e piansero a lungo per averlo perduto. Le loro lacrime, allora, furono trasformate in ambra e le Eliadi stesse in pioppi, che ancora ombreggiano e riparano dai cruenti raggi del sole. Cicno, quando seppe ciò che era accaduto a Fetonte, pianse anch’egli così tanto che il Dio, per la pietà dimostrata, lo tramutò in cigno. Indi, venne cambiato in un gruppo di stelle e la sua gloria sarebbe durata quanto dura l’eternità del cielo. Ecco, figlio mio, - gli avrebbe detto - le origini del nostro popolo sono così nobili che il nostro re vivrà imperituro come costellazione. Tu devi esserne degno: anche tu sarai un giorno un grande e valoroso soldato come Cicno e come tuo padre Dercino, che è partito per la guerra.
Poi, il bimbo era nato. Quando aveva accusato i dolori, Nanna stava, come di solito, lavorando nel suo piccolo campo. Aveva partorito in fretta, come usavano fare le donne della sua gente, e, dopo aver lavato con l’acqua il neonato, aveva ripreso a zappare la terra.
Le stagioni si avvicendavano, il bimbo cresceva ed ella ripensava spesso alla storia del del padre di sua madre che era andato a combattere a Zama. Allora, i liguri erano alleati di Cartagine e strenui nemici di Roma e Annibale aveva promesso loro, una volta eliminata la terribile rivale, di poter scendere da quel terreno aspro, di sassi appuntiti e rupi a precipizio, parco di frutti, dove vivevano, per trovare spazio nei fertili campi d’Italia.
Scipione l’Africano, invece, aveva sconfitto definitivamente Annibale e quel suo avo non era mai tornato dal combattimento. Ella, però, non raccontava al figlio, che aveva chiamato Italo, questi ultimi particolari ma spiegava solo l’orgoglio di quella partenza che avrebbe potuto procurare un’esistenza migliore per tutti. E il piccolo sembrava quasi che lo vedesse quel suo antenato, alto, forte, con i lunghi capelli, la tunica stretta in vita, lo scudo di bronzo di forma ovale e una spada al fianco…
Italo, intanto, diventava grande: già per tre volte dalla sua nascita era stato mietuto il grano ed egli si affaccendava a raccogliere la verdura con la mamma o i rametti di legno per accendere il fuoco. Molti dei soldati erano quindi tornati dalla spedizione. Le capanne iniziavano ad animarsi di voci maschili, di risate. Gli uomini si muovevano per cacciare gli uccelli con le loro fionde (ah, quanto era stato abile Dercino in quello!) o andavano a pescare i tonni con i grandi uncini di ferro mentre le loro chiome brillavano al sole. Ogni giorno c’era qualche novità, un nuovo arrivo, un ricongiungimento.
Solo Dercino non ricompariva mai.
E Italo, che non si accontentava più della storia di Cicno, il leggendario primo re dei liguri, guardava con occhi brillanti le armi del vicino che, ormai a casa, era sempre attorniato dai suoi figli. Infine, proprio lui, Ciniro, il vicino, aveva riferito loro la storia di Dercino.
- Il console Caio Mario - aveva detto, seduto davanti al fuoco, in una sera fresca e immobile mentre la luna si spostava lenta e silenziosa tra le luccicanti stelle del cielo - ci ha condotti a combattere in terre al di là del mare contro Giugurta, re della Numidia. La spedizione stava andando molto bene: le città fortificate di Giugurta cadevano una dietro l’altra. Infine, però, ne raggiungemmo una, presso il fiume Mulucca, sul confine tra Numidia e Mauritania. La fortezza, che custodiva gli immensi tesori di Giugurta, era posta su di un monte roccioso e altissimo cui si poteva accedere solo per uno stretto sentiero. Era ovvio che noi non avremmo potuto percorrerlo, perché saremmo stati facile bersaglio dei difensori appostati in alto, né potevamo usare nessuna macchina da guerra, sempre per la ripidezza del monte. Mario tentò più volte l’assalto, ma inutilmente. Stava, quindi, dolorosamente, meditando la rinuncia all’impresa che, invece, se portata a termine favorevolmente, avrebbe potuto dargli la vittoria decisiva su Giugurta. Mentre eravamo colà accampati, Dercino si era un po’ allontanato per attingere acqua sul fianco opposto a quello dove si trovavano i combattenti. Allora, aveva scorto delle lumache che strisciavano tra i massi. Ne aveva presa una, poi un’altra e un’altra ancora, pensando alla squisitezza di una leccornia che avremmo consumato tutti insieme. Continuò, dunque, a cercarle con attenzione e, senza neppure rendersene conto, si trovò quasi in cima al monte. Là, tra le rocce, era spuntato un leccio immenso. Dercino, un po’ aggrappandosi ai rami, un po’ alle rocce, giunse al pianoro dove si ergeva la fortezza, osservò tutto quanto e, quindi, tornò indietro. Si precipitò da Mario, l’informò della situazione e l’esortò ad assalire il forte da quel lato, offrendosi come guida. Mario gli dette ascolto, non avendo dimenticato che agilità, velocità, robustezza e resistenza unite a scaltrezza, coraggio e dedizione erano qualità da tutti riconosciute ai liguri. Una volta in cammino per l’ardua impresa, Dercino era stato il primo della scalata e si era adoperato per facilitare il cammino agli altri: legava le corde alle rocce o a vecchie radici sporgenti per aiutare i compagni, porgeva la mano a chi si trovava in difficoltà, nei passaggi più difficili faceva procedere i guerrieri uno ad uno portando le loro armi, infondeva coraggio a tutti! Insomma, la battaglia ebbe buon esito e Mario riuscì a espugnare la fortezza. Eravamo tutti contenti, Dercino stesso era diventato tra di noi un eroe e lo festeggiammo con tanto calore.
- Ma dimmi, allora, come mai non è ancora qui. – aveva interrotto il racconto Nanna.
- Il fatto è che, qualche giorno dopo, Dercino si è ammalato. Aveva la febbre, tremava, non ci riconosceva più. Abbiamo tentato di curarlo con le erbe che ci erano state suggerite dagli abitanti del posto, ma non è servito a nulla. Dercino è morto e abbiamo dovuto seppellirlo in quella terra aldilà del mare.
Ciniro aveva abbassato lo sguardo. Sapeva cosa significasse per una donna e un bimbo rimanere senza l’appoggio di un uomo. Poi, tirò fuori da una tasca della tunica un piccolo contenitore di pelle di leone.
- Questa è la paga di Dercino, l’ho presa per voi e ho conservato anche la sua spada e il suo mantello. Serviranno a Italo, quando sarà più grande.
Ciniro se ne era andato, era rientrato nella sua capanna dove la zuppa di legumi e verdure era già nelle scodelle. Le voci dei suoi quattro figli continuavano a spargersi nel silenzio di quella notte incombente: essi giocavano, litigavano, scherzavano, come tutti i bimbi del mondo sotto la sorveglianza del padre.
Italo non avrebbe mai visto quel padre che tanto aveva fatto per Roma e per i suoi compagni. Toccava a lei, Nanna, essere padre e madre per lui, crescerlo come un vero uomo degno delle sue nobili origini.
Senza lacrime, aveva preso nella sua la manina del piccolo e l’aveva ricondotto in casa. Anche per loro la zuppa era già pronta.
Giovanna apre gli occhi. Intorno solo buio. Le capanne dei liguri non ci sono più. La luna ha percorso un lungo tragitto nel cielo e nel cuore rimane la forza, aldilà del sogno, di continuare a vivere e a lottare.
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