POETANDO

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venerdì, agosto 25

SCULTURE TANTO STRAORDINARIE DA CREDERE VERE! di DANILA OPPIO

Sembrerebbe un lavoro ad uncinetto, ma al contrario è una scultura dell'artista greco Argiris Rallias, membro dell'accademia delle belle arti di Carrara. Naturalmente eseguito su marmo di Carrara. Capolavoro.

IL DISINGANNO


Francesco Queirolo, 1753-54.

É della stessa bravura dello scultore che ha realizzato la "rete" del "Disinganno" nella cappella san Severo a Napoli. 

Francesco Queirolo (Genova, 1704 – Napoli, 1762) 

Il capolavoro del Queirolo è senza dubbio il Disinganno, opera dedicata da Raimondo di Sangro al padre Antonio, duca di Torremaggiore. Dopo la prematura morte della moglie, Antonio si diede a un’esistenza avventurosa e disordinata, affidando il figlio alle cure del nonno Paolo. “Asservito – come ricorda la lapide dedicatoria – alle giovanili brame”, il duca viaggiò per tutta Europa, ma in vecchiaia, ormai stanco e pentito degli errori commessi, tornò a Napoli, ove trascorse gli ultimi anni nella quiete della vita sacerdotale.

Il gruppo scultoreo descrive un uomo che si libera dal peccato, rappresentato dalla rete nella quale l’artista genovese trasfuse tutta la sua straordinaria abilità. Un genietto alato, che reca in fronte una piccola fiamma, simbolo dell’umano intelletto, aiuta l’uomo a divincolarsi dalle maglie intricate, mentre indica il globo terrestre ai suoi piedi, simbolo delle passioni mondane; al globo è appoggiato un libro aperto, la Bibbia, testo sacro ma anche una delle tre “grandi luci” della Massoneria. Il bassorilievo sul basamento, con l’episodio di Gesù che dona la vista al cieco, accompagna e rafforza il significato dell’allegoria.

Nell’Istoria dello Studio di Napoli (1753-54) Giangiuseppe Origlia definisce a ragione questa statua “l’ultima pruova ardita, a cui può la scultura in marmo azzardarsi”: il riferimento è ovviamente alla virtuosistica esecuzione della rete, che lasciò sgomenti celebri viaggiatori sette-ottocenteschi e continua a stupire i turisti odierni. A tal proposito, si tramanda che – come era già avvenuto al Queirolo anni prima nella realizzazione di un’altra statua – lo scultore dovette personalmente passare a pomice la scultura poiché gli artigiani dell’epoca, specializzati proprio nella fase di finitura, si rifiutarono di toccare la delicatissima rete per paura di vedersela frantumare sotto le mani.

IL SIGNIFICATO DELL'OPERA

Il Disinganno, come attesta ancora l’Origlia, è un’opera “tutta d’invenzione del Principe, e nel suo genere totalmente nuova”, non ritrovandosene altra simile né tra gli antichi né tra i moderni. Tale monumento ha, non a caso, una simbologia ricca e complessa. Il richiamo al contrasto tra luce e tenebre, evocato dall’allegoria principale nonché dal bassorilievo (con la frase “Qui non vident videant”) e dai passi biblici incisi nel libro aperto, appare un chiaro riferimento alle iniziazioni massoniche, in cui l’iniziando entrava ritualmente bendato per poi aprire gli occhi alla nuova luce della Verità custodita dalla Loggia. Bellissima la dedica composta da Raimondo, in cui la vita del padre viene posta a immortale esempio della “fragilità umana, cui non è concesso avere grandi virtù senza vizi”.

IL CRISTO VELATO


GIUSEPPE SANMARTINO, 1753

Giuseppe Sammartino (Napoli, 1720 – 1793) è considerato uno dei maggiori virtuosi della scultura del Settecento in Italia, noto soprattutto per la scultura del Cristo velato nella cappella di Sansevero di Napoli, che è sempre stata oggetto di interesse per l’abilità e la maestria con cui l’artista è riuscito a replicare la leggerezza del velo attraverso l’utilizzo del marmo. La statua ha avuto moltissima fortuna negli anni, al punto che venne visitata più volte da grandi artisti come Antonio Canova e iniziarono a diffondersi diverse leggende intorno alla reale natura del velo, secondo alcuni troppo sottile per essere davvero di marmo (molti ritenevano, infatti, che si trattasse di un reale tessuto cristallizzato secondo processi esoterici).

Vennero compiute alcune analisi e ricerche mirate per confermare che effettivamente Sammartino aveva realizzato il velo in marmo e lo aveva lavorato in maniera magistrale, così come era stato richiesto dal committente Raimondo di Sangro, principe di Sansevero. Il successo del Cristo velato garantì allo scultore numerose commissioni tra la Campania e la Puglia, nella seconda metà del Settecento. Inoltre, venne chiamato spesso su cantieri di altre opere per la propria competenza e consulenza, affermandosi dunque come artista degno di elevata stima tra i suoi contemporanei.“Una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua.”

Dal documento contabile firmato da Raimondo di Sangro a favore di Giuseppe Sanmartino per la realizzazione della statua. COSÌ PERFETTO DA SEMBRARE TESSUTO

La fama di alchimista e audace sperimentatore di Raimondo di Sangro ha fatto fiorire sul suo conto numerose leggende. Una di queste riguarda proprio il velo del Cristo di Sanmartino: da oltre duecentocinquant’anni, infatti, viaggiatori, turisti e perfino alcuni studiosi, increduli dinanzi alla trasparenza del sudario, lo hanno erroneamente ritenuto frutto di un processo alchemico di “marmorizzazione” compiuto dal principe di Sansevero.

LA VERITÀ SUL VELO

In realtà, il Cristo velato è un’opera interamente in marmo, ricavata da un unico blocco di pietra, come si può constatare da un’osservazione scrupolosa e come attestano vari documenti coevi alla realizzazione della statua. Ricordiamo tra questi un documento conservato presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli, che riporta un acconto di cinquanta ducati a favore di Giuseppe Sanmartino firmato da Raimondo di Sangro (il costo complessivo della statua ammonterà alla ragguardevole somma di cinquecento ducati).

Nel documento, datato 16 dicembre 1752, il principe scrive esplicitamente: “E per me gli suddetti ducati cinquanta li pagarete al Magnifico Giuseppe Sanmartino in conto della statua di Nostro Signore morto coperta da un velo ancor di marmo…”. Anche nelle lettere spedite al fisico Jean-Antoine Nollet e all’accademico della Crusca Giovanni Giraldi, il principe descrive il sudario trasparente come “realizzato dallo stesso blocco della statua”. Lo stesso Giangiuseppe Origlia, il principale biografo settecentesco del di Sangro, specifica che il Cristo è “tutto ricoverto d’un lenzuolo di velo trasparente dello stesso marmo”.

UN CAPOLAVORO RICAVATO DA UN UNICO BLOCCO DI MARMO

Il Cristo velato è, dunque, una perla dell’arte barocca che dobbiamo esclusivamente all’ispiratissimo scalpello di Sanmartino e alla fiducia accordatagli dal suo committente. Il fatto che l’opera sia stata realizzata da un unico blocco di marmo, senza l’aiuto di alcuna escogitazione alchemica, conferisce alla statua un fascino ancora maggiore.

La leggenda del velo, però, è dura a morire. L’alone di mistero che avvolge il principe di Sansevero e la “liquida” trasparenza del sudario continuano ad alimentarla. D’altra parte, era nelle intenzioni del di Sangro – in questa come in altre occasioni – suscitare meraviglia: non a caso fu egli stesso a constatare che quel velo marmoreo era tanto impalpabile e “fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori”.

UNA DELLE OPERE PIÙ SUGGESTIVE AL MONDO

Posto al centro della navata della Cappella Sansevero, il Cristo Velato è una delle opere più suggestive al mondo. Nelle intenzioni del committente, la statua doveva essere eseguita da Antonio Corradini, che per il principe aveva già scolpito la Pudicizia. Tuttavia, Corradini morì nel 1752 e fece in tempo a terminare solo un bozzetto in terracotta del Cristo, oggi conservato al Museo di San Martino. Fu così che Raimondo di Sangro incaricò un giovane artista napoletano, Giuseppe Sanmartino, di realizzare “una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua”. Sanmartino tenne poco conto del precedente bozzetto dello scultore veneto. Come nella Pudicizia, anche nel Cristo velato l’originale messaggio stilistico è nel velo, ma i palpiti e i sentimenti tardo-barocchi di Sanmartino imprimono al sudario un movimento e una significazione molto distanti dai canoni corradiniani.

L’INTENSITÀ DRAMMATICA DELLA SCULTURA

La moderna sensibilità dell’artista scolpisce, scarnifica il corpo senza vita, che le morbide coltri raccolgono misericordiosamente, sul quale i tormentati, convulsi ritmi delle pieghe del velo incidono una sofferenza profonda, quasi che la pietosa copertura rendesse ancor più nude ed esposte le povere membra, ancor più inesorabili e precise le linee del corpo martoriato.

La vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte, le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili, il costato scavato e rilassato finalmente nella morte liberatrice sono il segno di una ricerca intensa che non dà spazio a preziosismi o a canoni di scuola, anche quando lo scultore “ricama” minuziosamente i bordi del sudario o si sofferma sugli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo. L’arte di Sanmartino si risolve qui in un’evocazione drammatica, che fa della sofferenza del Cristo il simbolo del destino e del riscatto dell’intera umanità.

La pudicizia Velata

La scultura che vi propongo oggi è la Pudicizia di Antonio Corradini, nota anche come la Verità Velata, scolpita dall’artista per la Cappella di Sansevero nel 1752.

Raimondo di Sangro dedicò l’opera alla memoria di Cecilia Gaetani dell’Aquila di Aragona, sua madre che morì il 26 dicembre del 1710. Era il giorno di Santo Stefano e Raimondo ancora non aveva compiuto il primo anno di vita.

Antonio Corradini, nato a Venezia nell’ottobre del 1688, era uno scultore rinomato al livello europeo e a Vienna aveva lavorato al servizio dell’imperatore Carlo VI.

Fu chiamato a Napoli dal Principe di Sansevero per partecipare all’ambizioso progetto della sua cappella e gli affidò la realizzazione della Pudicizia. Il fato volle che Corradini morì lo stesso anno che terminò di lavorare a quest’opera, nel 1752 e una lapide posta da di Sangro al pilastro del suo capolavoro, lo ricorda.

Non era la prima volta che Corradini si cimentava con le figure velate ma nel caso della Pudicizia raggiunse l’apice, riuscendo a scolpire un velo che accarezza le forme dell’allegoria in modo naturale. Sembra un velo umido che aderisce al corpo evidenziandone le fattezze. Il velo ricade sulle braccia della donna, terminando in un sublime panneggio ornato da una ghirlanda di rose.

Nell’opera si ritrovano simboli direttamente collegati all’esistenza spezzata troppo presto della madre del committente. La figura mostra uno sguardo perso, è presente l’albero che simboleggia la vita e la lapide spezzata.

Allo stesso tema della vita e della morte è riconducibile il bassorilievo posto sul basamento che mostra l’episodio del Noli me tangere, momento in cui Cristo appare dinnanzi alla Maddalena nei panni di un ortolano.

La scultura della Pudicizia non solo celebra la memoria di Cecilia Gaetani ma offre più livelli di lettura. La donna velata può essere intesa come un’allegoria della sapienza ma è anche un’esplicita citazione di Iside, la dea velata amata dalla scienza iniziatica. Anche in quest’opera, come nel caso del Disinganno di Queirolo presente nella medesima Cappella di Sansevero, non manca il riferimento alla massoneria. Non è un caso infatti che gli storici Joseph Rickwert e Rosanna Cioffi abbiano riscontrato che la figura della Verità Velata nel frontespizio della celebre Encyclopédie settecentesca abbia molto a che fare con la Pudicizia del Corradini.




LA VELATA 

Antonio Corradini, La Velata Il busto in marmo, comunemente chiamato la 'dama velata', raffigura probabilmente un’Allegoria della Fede cristiana, cui rimanda la croce radiante sul petto. Antonio Corradini fu uno dei più apprezzati scultori del Settecento veneziano che non a caso, oltre a fornire i progetti per la decorazione dell’ultimo bucintoro, lavorò per molte corti europee e italiane. Finì la sua vita a Napoli dove si era recato per decorare la Cappella Sansevero su commissione del principe alchimista Raimondo di Sangro. Rispetto ad altri scultori che tradussero in forma tridimensionale i vibranti effetti luministici della pittura rococò, egli optò per un composto classicismo, per niente rigoroso, venato da eleganze neo-ellenistiche. Corradini fu apprezzato già presso i suoi contemporanei per il virtuosismo tecnico con cui realizzava figure femminili ricoperte da un drappo bagnato. La lieve trasparenza del velo invece di nascondere l’immagine, ne lasciava trapelare i lineamenti sottostanti, raggiungendo esiti di intrigante sensualità, che in questo caso stride con il significato religioso della statua.

Autore Antonio Corradini (Este 1688 - Napoli 1752) Data 1720 circa Museo Ca' Rezzonico Collocazione Sala Guardi Tecnica Marmo scolpito

La Velata (vestale Tuccia)




Il soggetto dell'opera è Tuccia, leggendaria vestale romana, accusata ingiustamente di aver violato il voto di castità. La donna provò la sua innocenza, raccogliendo dell'acqua del Tevere con un setaccio, trasportandola fino al Tempio di Vesta, senza neanche farne cadere una goccia. Nella rappresentazione del Corradini, Tuccia tiene il setaccio sul fianco sinistro.

L'artista cominciò a lavorare sull'opera non appena arrivò, da Vienna, a Roma, dove avrebbe preso consapevolezza dell'importanza delle sacerdotesse vestali e della vicenda di Tuccia. In antichità, il principale compito delle vestali consisteva nel tenere sempre acceso il sacro fuoco alla dea Vesta, rappresentativo della vita della città; a tali sacerdotesse, inoltre, erano rigorosamente vietate le relazioni sessuali ed era ritenuto imperdonabile non rispettare il voto di castità. Qualora una vestale avesse perso la verginità, ciò avrebbe potuto rappresentare una minaccia per la Repubblica romana: per tale motivo, le vestali impure e non caste venivano seppellite vive.


LA VERGINE VELATA
di Giovanni Strazza

Un’opera dal grande impatto realistico che nel corso del tempo ha conquistato il mondo intero. Una scultura che mostra tutto il potenziale della pietra marmorea, capolavoro dello scultore italiano Giovanni Strazza

 La Madonna velata fu scolpita in marmo di Carrara dallo scultore italiano Giovanni Strazza (1818-1875) a Roma. Si tratta di un gioiello perfetto di arte. Nonostante non sia una scultura antichissima, non si sa molto della creazione della Vergine Velata. Gli storici ritengono che lo scultore milanese abbia realizzato il pezzo mentre lavorava a Roma, negli anni ’50 dell’800, e nel contesto del Risorgimento italiano raffigurasse metaforicamente l’Italia.

Il volto femminile mostra la Vergine Maria con gli occhi chiusi, la testa inclinata verso il basso, con uno sguardo che sembra essere assorto nella preghiera o in un pacifico dolore, entrambe espressioni classiche delle raffigurazioni della Vergine.

La scultura è realizzata in prezioso marmo di Carrara, uno dei supporti privilegiati per gli scultori italiani del periodo. Il marmo toscano era inoltre un grande classico per la rappresentazione dei veli, che furono un motivo scultoreo popolare durante i contemporanei dello Strazza. Fra le altre sculture in marmo di Carrara si ricordano la “Dama Velata” di Pietro Rossi e Raffaele Monti.

L’opera fu inviata nel 1856 in Canada, dove l’allora vescovo di Terranova, John Thomas Mullock, elogiò con queste parole la nuova acquisizione: “Ho ricevuto una bellissima statua della Beata Vergine Maria in marmo da Strazza (…) E’ una gemma d’arte perfetta“. Il suo trasferimento fu documentato con grande entusiasmo da un giornale locale, The Newfoundlander: “Dire che questa rappresentazione supera nella perfezione dell’arte qualsiasi pezzo di scultura che abbiamo mai visto, trasmette, ma debolmente, la nostra impressione della sua squisita bellezza. La possibilità di un simile trionfo dello scalpello non era mai entrata nella nostra concezione. Il linguaggio ordinario fallisce sempre nel rendere giustizia a un soggetto come questo, alle rare emozioni che produce in chi lo guarda“.

La scultura venne custodita nel Palazzo Episcopale della cattedrale di San Giovanni a Terranova e Labrador finché nel 1862 non è stata spostata nell’adiacente convento delle Suore della Presentazione.

Ed ora diamo un po' di spazio anche ai capolavori moderni, sempre sul genere di statue velate.



Capolavoro velato investito dal vento di Luo Li Rong scultrice cinese.





Scultura : panneggio moderno...  

Statua di Benjamin Victor personalizzata a grandezza naturale

 la statua della signora di Shangott

Benjamin Matthew Victor è uno scultore americano che vive e lavora a Boise, nell'Idaho. È l'unico artista vivente ad avere tre opere nella National Statuary Hall del Campidoglio degli Stati Uniti. Attualmente sta scolpendo la sua quarta statua per la Statuary Hall, di Daisy Bates. Wikipedia (inglese)

Nascita: 16 gennaio 1979 (età 44 anni), Bakersfield, California, Stati Uniti

Anche questo giovane artista non scherza per nulla, in quanto a panneggio che riveste i suoi angeli e le signore che vestono con drappeggi morbidi, ma non sono tessuti!!

Complimenti a tutti questi artisti di un tempo lontano e attuali!

Danila Oppio



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