IL DIO DELLE PICCOLE COSE
di Serena Dandini
ORHAN PAMUK
Cosa lega un bicchiere di latte a un uccello impagliato? E una scarpa a un biscotto smangiucchiato?
All'apparenza niente, ma se questi oggetti sono stati testimoni di una storia che abbiamo intrecciato con una persona cara, assumono per noi un significato profondo e si candidano a far parte della nostra memoria sentimentale. I ricordi sono affamati di tracce e segni che li facciano rivivere e li riportino a galla dal mare sommerso del nostro passato.
"Uno si separa insensibilmente dalle piccole cose, come fan le foglie che in un tempo d'autunno, lasciano nudo il ramo..." cantava con trasporto Chavela Vargas in "Canciòn de las simples cosas: un brano memorabile che mi piace pensare sia amato anche dallo scrittore turco Orhan Pamuk che a questi oggetti apparentemente insignificanti ha dedicato addirittura un museo. Convinto che "le piccole cose" del nostro quotidiano possano evocare, più di tante parole, alcuni percorsi emotivi della nostra vita, il premio Nobel per la letteratura ha raccolto nella sua Istanbul decine di reperti che hanno punteggiato la storia d'amore tra Kemal e Fusun, i protagonisti del suo romanzo Il museo dell'innocenza" mettendoli in mostra dentro apposite vetrinette come fossero ritrovamenti preziosi o manufatti rari di un'altra civiltà.
Una bacheca del Museo dell'Innocenza di Pamuk
Oggi questo omonimo "Museo dell'innocenza", come lo ha chiamato Pamuk, è "in visita" a Milano al Bagatti Valsecchi: un'altra bellissima casa-museo che dialoga in un gioco di specchi con l'insolita mostra. A guidarmi in questa originale foresta di ricordi ci sarà la voce dello stesso Pamuk che vi accompagna alla scoperta dei nessi invisibili dei suoi reperti raccolti con precisione entomologica.
Chi di noi non si è mai affezionato a qualche frammento del proprio passato?
Non parlo di anelli preziosi della nonna o simili: una scatola di fiammiferi di un ristorante che non c'è più, dove abbiamo vissuto una delle cene più romantiche della nostra vita; o una boccetta di profumo ormai vuota che troneggia ancora sulla nostra scrivania, conservata religiosamente perché regalata da un antico tenero amore. Nessun trasloco o smania di ricordino ci hanno mai convinto a buttarli e continuano a condividere la nostra esistenza posteggiati in nuove case che li accolgono sempre con affetto: ci scaldano il cuore, ci fanno compagnia, ci definiscono e ci raccontano chi siamo nei momenti di smarrimento e malinconia.
Non date retta a chi vi consiglia di liberarvene,
(NDR: mi viene in mente Il magico potere del riordino di Marie Kondo, autrice nipponica che consiglia di liberarsi di ogni oggetto ritenuto inutile, ivi compresi i ricordi e del quale trattai il 20 marzo 2015 su questo stesso blog, a questo link:
magari contenetevi nella quantità per non arrivare a livelli patologici da accumulatori seriali, ma difendete i vostri piccoli ricordi senza valore apparente dai detrattori privi di anima, o prendete esempio da Pamuk e conservateli artisticamente in personali bacheche della memoria. Che male fa?
Come canta per noi Chavela Vargas: "La tristezza è la morte lenta delle semplici cose, queste semplici cose che cadon dolendo sul fondo del cuore".
Serena Dandini
Ho letto con grandissimo interesse l'articolo di Serena Dandini, e mi sono dilettata a ricercare immagini per meglio illustrare lo scritto dell'autrice.
In effetti, quando lessi il libro della Kondo, se da un lato le davo ragione, nel senso che tendiamo a conservare oggetti spesso inutili e ingombranti, convinti che magari un giorno ci sarebbero potuti tornare utili, che tolgono spazi utili per cose di maggior uso, quando lessi che in queste sue drastiche eliminazioni comprendeva anche fotografie, lettere e oggettistica ricordo, mi sono venuti i brividi. Le foto non sono ingombranti e neppure i piccoli oggetti. Quindi ho accolto i consigli di Kondo "cum grano salis".
L'idea di Pamuk nel creare piccole bacheche da appendere alle pareti, o da appoggiare su mensole o mobili, mi è molto piaciuta.
Credo che valga la pena metterle in pratica e, come sostiene la Dandini, che male fa?
Danila Oppio
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