FRANCESCO GIUSEPPE FU LORENZO
DETTO ZIO APU
di Renata Rusca Zargar
Francesco si era alzato sul letto.
Con la testa e le braccia appoggiate alle lenzuola, sua moglie Rina continuava a piangere disperata. Intorno, solo persone tristi. Naturalmente lei, Zarina, la sua nipotina preferita, non c’era. Quello era un giorno di scuola ed ella, che frequentava la prima elementare, sarebbe uscita solo alle sedici. Da quando era iniziato l’anno scolastico, pensava lo zio, egli non era mai potuto andare a prenderla. Fino all’anno precedente, invece, quando la mamma delle nipotine era impegnata nel lavoro, lui e sua moglie attendevano prima Zarina alla scuola materna e, poi, Samina, la sorella, che frequentava già la seconda, alla scuola elementare. Quindi, accompagnavano la più grande dalla zia Mariuccia e portavano a casa propria la piccola.
Allora, dopo la merenda, cominciavano i giochi. -Batti cinque!- Zarina batteva le manine, poi, con la mano destra batteva la destra dello zio Giuseppe, indi batteva ancora le mani e con la sinistra quella dello zio. Ambedue ridevano fintantoché Zarina lo abbracciava felice.
- Lo abbraccio - aveva confidato alla mamma- perché mi vuole bene e anch’io gli voglio bene! Giochiamo sempre, sai mamma? Qualche volta io sono la mamma e lui il papà, oppure lo zio, e cambiamo il pannolino ai pupazzi. La zia diventa zia dei miei piccolini. Il cagnolino, l’orsetto, l’enorme bambolone, la bambolina Oplà, dalla testa pesante, si sporcano sempre! A volte zia Rina fa il gatto: “Miaooo!” strilla oppure lo zio è l’Uomo nero, si nasconde e poi dice: “Sono l’uomo nero e ti mangio in un boccone!”
Quanto si divertivano insieme tutti e tre! A cena, infine, le preparavano le tagliatelle al sugo con la carne tritata che le piacevano tanto. - Non mangia niente! - si lamentava sempre la madre. Ma lì, la birichina divorava tutto (specialmente perché loro facevano tutto ciò che piaceva a lei!).
Appoggiato ai cuscini, tra una visita e l’altra dei parenti, chiudeva gli occhi.
Masenga Francesco Giuseppe fu Lorenzo nato a Rocca d’Arazzo in provincia di Asti l’11 settembre 1919.
Asti, una volta antico villaggio ligure, arroccato su un’altura tra il fiume Tanaro e il torrente Borbore era circondato da un territorio dolce e armonioso: il saliscendi delle verdi colline si stendeva tutt’intorno specchiandosi nei corsi d’acqua. I contadini raccoglievano nei campi a piene mani il frutto del loro lavoro: Francesco aveva visto, infatti, fin da bambino, le distese di cereali e i filari di uve pregiate dalle quali si ricavavano vini profumati e inebrianti, mentre le mucche pascolavano tranquille nei prati.
Ora, invece, guardando fuori dalla finestra dell’ospedale, si potevano percepire le colline scure che scendevano al mare e qualche vela bianca sulla liscia superficie blu. Ma egli, allungando lo sguardo, rivedeva sempre un altro paesaggio che amava tanto: lo sfondo del cielo azzurro sulle colline intorno ad Asti, le mura della città e le case dei suoi vicini di allora.
Ricordava i grappoli in fase di maturazione della sua infanzia, quando si udiva il gallo cantare e l’alba sorgeva nel cielo. Gli uccellini cinguettavano festosi, mentre le mucche si avviavano al pascolo. Il profumo del pane fresco di forno saliva dalla cucina: breve tempo quello, perché lui e i suoi fratelli erano rimasti ben presto orfani. Poi, il lavoro nell’officina della vetreria dove si facevano gli stampi per le bottiglie, mentre sua sorella Gemma, più grande, era impiegata nell’ufficio del direttore.
Un colpo di fortuna, infine!
- Vai, Giuseppe! - gli aveva detto un giorno Gemma - accetta questo trasferimento a Savona. La proprietà ha rilevato la vetreria di Savona e cercano quattro capiturno da mandare là. Avrai uno stipendio più alto, potrai mettere da parte un po’ di soldi per sistemare la casa, staremo tutti bene!
Così era partito: solo in una città sconosciuta ma contento di avere un posto di lavoro migliore. L’energia non gli mancava e poi, così puntuale e serio - pignolo dicevano adesso i nipoti! - si era impegnato ad accettare nuove regole di vita. Mai aveva mancato, nella sua esistenza, di rispettare le regole! Ancora conservava nel cassetto, a casa, il libretto di paga della S.A. Nuova Vetreria Savonese Viglienzoni. Era capoturno e guadagnava bene: fino a 511 lire alla quindicina e, comunque, nell’ultimo anno, mai meno di 300…
Il suo amico Giovanni, un operaio semplice, viveva con la famiglia in una casa in società e pagava 100 lire al mese d’affitto. La moglie preparava i pasti sul fornello a carbone e, nella stessa cucina, un’altra famiglia cucinava su di un altro fornello a carbone. Poi, tutti (erano cinque adulti e sei bambini chiassosi!) mangiavano allo stesso tavolo. Certo, un operaio semplice non poteva permettersi di affittare una casa da solo, a quei tempi costava troppo, ed era obbligato a dividerla con altri. Ma non sarebbe stato così per lui: stava mettendo via i soldi per la “sua” casetta, dove lui e la futura moglie avrebbero iniziato senza ostacoli una vita insieme!
In quel faticoso dormiveglia, emergeva allora la Vetreria Savonese come era stata dopo la guerra. Per lunghi anni, il suo edificio era rimasto là, lungo il Corso Ricci, abbandonato e in rovina: qualche piccola officina meccanica, un gommista, un elettrauto, un’agenzia di vendita di automobili usate occupavano alcuni locali.
Da qualche tempo, però, il Centro Commerciale “Il Gabbiano” aveva preso il suo posto: un vero inferno! Una volta, era entrato in quella confusione: gente che andava e veniva, rumore, carrelli, luci… Non ci si orientava, tutti sembravano correre qua e là, tra gli scaffali zeppi di ogni ben di Dio, chiacchierando e spingendo carrelli colmi all’inverosimile di ogni tipo di cibo e oggetto. Non aveva voluto tornarvi mai più.
Invece, ai suoi tempi, le ciminiere svettavano snelle verso il cielo: il loro fumo denso significava lavoro per uomini e donne, il fracasso che rimbombava nella testa era attenuato dall’orgoglio di produrre quelle eleganti bottiglie verdi da spumante e champagne.
La sera, poi, la luce della fabbrica illuminava tutto il Corso Ricci e permetteva ai passanti di vedere la strada perché i fuochi dei forni, infatti, non venivano mai spenti.
- Masenga, la pastiglia! - l’infermiera lo stava chiamando.
Era quasi mezzogiorno e sarebbe arrivato il cibo, ma lui non si sentiva di mangiare. I vicini di camera raccontavano, gli uni agli altri, le loro malattie, i precedenti ricoveri… Seduti al tavolo, con i loro tovaglioli e le posatine di plastica, si consolavano reciprocamente e aspettavano il carrello fumante di odori. I parenti, anch’essi, parlavano a voce alta, si scambiavano informazioni sulle cure e la presunta maggiore o minore competenza degli infermieri, attendevano con ansia di parlare con il medico…
Chissà cosa dicevano i medici di lui, aveva bisogno di un ricostituente, ecco! Tra poco, ragionava ancora, quando sua nipote (la mamma di Zarina) fosse arrivata, le avrebbe chiesto di parlare con il medico. Si sentiva debole, non riusciva più ad alzarsi dal letto neppure per andare al bagno, se continuava così, non avrebbe più camminato! Certo, ci voleva un bel ricostituente.
I suoi compagni di stanza, intanto, stavano già mangiando. Egli non aveva voglia di nulla per il momento; le infermiere avevano posato il vassoio sul tavolino, poi si sarebbe visto… magari un po’ di budino al cioccolato… In fondo, era stato sempre goloso: ogni giorno, davanti alla televisione succhiava qualche caramella e, se andava a pranzo dai nipoti, portava sempre le paste che gli piacevano tanto! Lo stomaco funzionava bene, era il cuore che faceva i capricci, ma lì, nell’ospedale lo stavano curando, sarebbe tornato a casa com’era successo altre volte e avrebbe ripreso la stessa vita tranquilla.
Ormai, il periodo della vita lavorativa che gli aveva causato tante ansie, specialmente negli ultimi anni, era concluso: Giuseppe era in pensione e poteva stare in pace.
Le sue giornate erano piacevoli: le partite a carte con gli amici presso la Società di Mutuo Soccorso, la spesa in un piccolissimo supermercato e, soprattutto, quei pomeriggi con Zarina… Giocavano, scherzavano.
Se lui si sedeva sulla poltrona a guardare la televisione, Zarina si nascondeva nel cucinino, poi spuntava fuori urlando: - Buuuh!
Egli fingeva di spaventarsi, poi diceva: - Va bene, vado a comprare il gelato.
Ma Zarina non voleva, perché preferiva giocare con lui.
Gli occhi si chiudevano, pesanti…
Spesso, tanto tempo prima, sul Corso Ricci, vedeva passare una bella signorina: capelli neri, alta, formosa, dall’andatura dritta… L’aveva fermata. - Non posso passeggiare con nessuno, - aveva risposto lei - vado a cucire e non esco mai da sola ma con mia madre e mia sorella. - Poi, un altro giorno, gli aveva spiegato: - Siamo di Castino, in provincia di Cuneo, avevamo una bella fattoria, mio padre era “benestante”, poi è morto che noi figli eravamo piccoli. Mia madre non poteva governare la terra e il bestiame con quei parenti che non la volevano… Sì, perché era povera prima di sposarsi, andava al pascolo con le pecore e loro non glielo avevano perdonato! Mio fratello, intanto, voleva vivere in città e abbandonare la campagna, come fanno molti. Insomma, siamo venuti a Savona. Ora mio fratello lavora come macellaio e io sarò sarta.
Aveva accettato, infine, di incontrare Pierina, detta Rina, con madre e sorella (Palmina che poi sarebbe stata la nonna di Zarina). Non si era pentito mai. Si era preoccupato sempre per lei e aveva cercato di risparmiarle, per quanto poteva, i dolori della vita.
- Zia Rina ci rimane male - diceva ai nipoti quando si usava qualche parola un po’ brusca - dai, lasciate perdere!
Zia Rina, infatti, aveva un carattere bonario e sensibile.
Ad esempio, si raccontava in famiglia che, quando Pierina e la sorella erano ancora ragazze, la madre comprasse per loro due tagli di stoffa per confezionare un abito per ognuna di loro. Pierina, che aveva imparato a cucire, preparava prima quello di Palmina, che non vedeva l’ora di indossarlo, e ritardava il proprio, spesso molto presa dal lavoro. Qualche tempo dopo, però, Palmina insisteva tanto che Rina le cuciva anche il secondo vestito, accontentandosi, quindi, di riaggiustare qualcosa di vecchio per sé!
Anche per questo ora era preoccupato: se lui fosse andato via, lei sarebbe rimasta sola, abituata com’era che ad occuparsi di tutto fosse sempre lui: la banca, i pagamenti, i versamenti… Rina non ci capiva nulla!
Poi, era scoppiata la guerra… Aveva dovuto lasciare Savona, la vetreria…
In una busta verde un po’ strappata indirizzata “Al Lavoratore Masenga Giuseppe Aubach 10 Acheuse Dolomit 12 B. Jembach Tirol Deutschland (Germania)” conservava ancora alcune cartoline postali. “6-9-44 Mio carissimo Giuseppe sempre tutti bene come altrettanto speriamo di te. se puoi scrivi più sovente, io continuo il mio solito lavoro da casa e non avere cattivi pensieri tutti ti attendiamo stai tranquillo e abbiati riguardo alla salute tante cose avrei da dirti ma è impossibile con speranza daverti presto ti abracio e cari saluti da tutta la famiglia Tua per sempre Rina”
Numero di matricola 5084 era scritto nel foglio di congedo illimitato per “smobilitazione” rilasciato dal distretto di Casale Monferrato nel dicembre 1945: arte o professione: vetraio, sa leggere e scrivere, arruolato di leva: 11 dicembre 1939, chiamato alle armi: 12 marzo 1940, rinviato in congedo illimitato il 15 novembre 1945, campagna balcanica.
Negli ultimi due giorni aveva trascorso lentamente il tempo in un vigile dormiveglia. Aveva persino paura di addormentarsi, per paura di non potersi più risvegliare. Spesso controllava l’ora, chissà, quasi un presentimento di un momento preciso per un appuntamento inderogabile. A tratti i pensieri lo trasportavano alla vita che lui desiderava ancora fare: accompagnare Zarina a scuola, andarla a prendere, affrontare con lei il primo anno di studio, quando avrebbe imparato a leggere e a scrivere…
Tra le vecchie carte conservava ancora la sua pagella di quinta elementare. Sì, perché a Lubiana, presso il R. Ginnasio e Scuola Elementare annessa, l’11 luglio 1942, gli avevano fatto prendere la licenza di quinta elementare. Religione: suffic., Canto: suffic., Disegno e bella scrittura: buono, Lettura espressiva e recitazione: buono, Lettura ed esercizi per iscritto di lingua italiana-ortografia: suffic., Aritmetica e contabilità: buono, Geografia: suffic., Storia: suffic., Scienze fisiche e naturali e nozioni organiche e d’igiene: suffic., Nozioni di diritto e d’economia: suffic., Educazione fisica: buono, Lavori donneschi e lavoro manuale: suffic.
Certo, il miracolo di un bimbo che, adagio, riconosce le lettere, i segni, era ben diverso dal suo studio affrettato e tardivo. Avrebbe tanto voluto seguire il ditino della bimba sul libro illustrato o sull’alfabetiere dai disegni brillanti… Qualche volta, insieme, avevano giocato con “Sapientino”: rispondevano alle domande e, se la risposta era giusta, si accendeva la luce rossa. Che gioia allora! E quando, ricordava, con lei più piccola, avevano imparato ad aprire gli spazi di un contenitore con chiavi e forme diverse, non sapeva chi si trastullasse maggiormente!
Lui non era stato molto a scuola neppure prima della guerra, orfano com’era, forse faceva qualche errore nello scrivere, ma avrebbe letto insieme a lei, sfogliato quei libri tutti colorati che usavano nei bei tempi moderni.
A quei pensieri, la sua mano si alzava un poco sul lenzuolo e si riabbassava con un moto di ribellione. Cercava con lo sguardo gli occhi di zia Rina che lo assisteva e la fissava intensamente: le parole non dette erano proprio là, in quelle occhiate!
“Carissimo Giuseppe - gli scriveva Rina il 28-2-44- Non so come ringraziarti di un cosi lungo tuo scritto dopo tanta attesa. Caro Giuseppe mi fa molto piacere saperti in ottima salute e piutosto bene…. Non preocuparti di noi la nostra vita continua regolare, e il mio solo e unico pensiero e di attendere con rassegnazione il tuo desiderato arrivo, con fedeltà le mie preghiere sono tante e spero che il signore anche in questo momento cosi triste ci voglia aiutare. Dimmi se posso scriverti anche con altra carta se ai ricevuto dei miei scritti che io sempre ti o risposto. Stai tranquillo pensa solo alla tua salute e abiati ogni riguardo se ti occorre qualcosa faccelo sapere, in questo mese vado da tua sorella e ti faremo un pacco tutti i miei ti salutano come pure tuo filioccio comincia camminare e sa quasi dire padrino Beppe vedrai quanto e grazioso. Se puoi sai che i tuoi scritti li desidero tanto. Pensando di poter presto dirti tante altre cose e poterti abraciare ti saluto caramente con mille abraci e bacioni Tua per sempre Rina stai tranquillo e pensa che non sei solo non dimenticato tutti abiamo un solo pensiero di averti presto con noi Bacioni e ricordati santa Rita.”
Rina, allora, si recava spesso a pregare nella piccola chiesetta di Santa Rita, proprio in fondo al Corso Ricci. Durante la prigionia, egli la immaginava là, inginocchiata con le lacrime che scendevano sulle sue guance delicate pensando a lui nel freddo, alla fame, in pericolo di vita…
Giuseppe non aveva mai mancato di andare a trovare i parenti e gli amici in ospedale durante le loro lunghe e crudeli malattie. Arrivava con quelle sue gambe lunghe e rigide a causa dei piedi congelati al tempo di guerra, un po’ curvo sulla schiena. Portava il suo conforto, quelle parole dal tono burbero, e poi se ne andava via triste e preoccupato.
Ma adesso era malato, inutile, mentre avrebbe voluto essere a casa a dividere molti altri giorni con sua moglie, ritornare a guidare l’automobile ferma da mesi in strada (e chissà se sarebbe ripartita senza difficoltà, chissà se nessuno, vedendola sempre nello stesso punto, non le aveva fatto qualche dispetto!), essere vivo tra gli altri. Proprio ora che la vita non sarebbe stata più dura, ci sarebbe stata solo quella serenità, quella gioia di accompagnare una nipotina che lo adorava e che aveva bisogno di lui…
A Lavagnola, il quartiere savonese dove ormai egli abitava da trent’anni, i commercianti di Via Crispi li conoscevano tutti: “Papaleo abbigliamento”, ad esempio, dove andavano insieme. La signora mostrava molti capi di abbigliamento e la nipotina rispondeva sempre di no a tutto, per non fargli spendere soldi, così come le aveva insegnato la mamma. Ma gli zii qualcosa le compravano sempre, magari un paio di calze (collant, come le chiamava lei).
Poi c’era il giornalaio che vendeva quelle accattivanti buste con piccoli giochi e libretti da colorare con la “penna magica”, la drogheria, meraviglioso regno di caramelle, confetti da gustare uno per uno e cioccolati…
Quando Giuseppe passava nella strada da solo, la mattina, gli chiedevano notizie di lei, ricordandogli tutte quelle frasi che Zarina, con la più grande spontaneità e serietà tipica dei bimbi, rivolgeva loro. La bocca dello zio si allargava in un sorriso sdentato e allegro:
- Oggi lavoro: andrò a prenderla a scuola e poi la terremo fino a sera!
Lo chiamava “lavoro” quello, così come le partite a carte in Società anzi, se, qualche volta, la madre veniva a riprendere la figlia prima di sera protestava: - Voglio tenerla di più, altrimenti poi cosa faccio? In Società non posso più andare, ormai le coppie di gioco sono state fatte e devo rimanere in casa.
Le faceva trovare l’ovetto Kinder (assolutamente proibito dalla madre!), i biscotti Krumiri e Bucaneve, l’acqua minerale Fiuggi. Con loro Zarina stava bene, mangiava, beveva, rideva… e aveva reso la sua vita felice. Egli si sentiva ancora pieno di energia, voleva impegnare il suo tempo, un bel tempo, con attività piacevoli: la mattina la spesa, qualche commissione, il pomeriggio i bambini o le partite a carte. Poi, la sera, c’era la televisione, qualche volta trasmettevano le partite di calcio che egli amava molto.
A casa sua, nel piccolo soggiorno, ognuno aveva il suo posto a tavola: zia Rina dal lato cucinino, lui verso la finestra e Zarina nel posto d’onore da dove poteva vedere anche la televisione. La mamma a casa, infatti, seguiva il telegiornale e non le lasciava vedere i cartoni animati. Ma là, nel regno degli zii, tutto era possibile!
Qualche volta, i genitori la lasciavano anche a dormire: allora, dopo essersi lavata i dentini, si sistemava nel lettino e zia Rina le raccontava la favola di Cappuccetto Rosso. - Non la racconti giusta! Invece lo zio me la racconta giusta. - la rimproverava la nipotina che la ricordava meglio. La zia, al contrario, l’aveva un po’ dimenticata, ma non aveva importanza. - Me la racconti ancora zia? - E, alla fine: - Di nuovo, zia! - Per tante e tante volte fintanto che il sonno non chiudeva i suoi grandi occhi verdi.
In una Krieggsgefangenenpost (corrispondenza dei prigionieri di guerra) Antwort-Postkarte (cartolina postale di risposta) An den Kriegsgefangenen (al prigioniero di guerra) il 6 dicembre 1943 sua sorella Gemma gli scriveva: “Caro Beppe, sono tanto contenta che stai bene, noi stiamo bene, per ora tutto è normale, ma la nostra preoccupazione è per te. Perché non mi scrivi di più? Se hai bisogno vito e vestiario fammelo sapere che te lo mando subito. Ho mandato a Rina le tue cartoline, sta bene e attende con noi il tuo desiderato ritorno. Spero avrai ricevuto le prime due nostre cartoline. Tutti uniti ti salutiamo.”
“Carissimo Giuseppe,- era la sua fidanzata Rina a compilare il messaggio per il geniere Masenga Giuseppe Gefangenennummer (numero del prigioniero): 36013 Lager-Bezeichnung 20512/g. W. M.-Stammlager 317 (XVIII C) Markt Pongau (Gau Salzburg) Deutschland (Germania) datato 11-9-44 - Noi sempre tutti bene, come speriamo sempre di te. La nostra decisione è di rimanere qui in qualunque caso. Ti raccomando te che ai chi ti attende, quindi abiati riguardo più possibile e stai tranquillo se anche non ricevi noi stiamo sempre bene in settimana scrivo a tua sorella. Tanti saluti dai miei un forte abracio Bacioni Tua per sempre Rina”
Parole ingiallite e consumate dal tempo: tua per sempre, diceva allora Rina e così era stato...L’aveva aspettato fino alla fine della guerra e della prigionia, il 17 marzo 1946 si erano sposati nella chiesa di San Francesco da Paola a Savona e ora, ormai anziani, avevano un po’ di sicurezza: qualche piccolo risparmio in banca, un appartamentino in affitto.
Fino a pochi anni prima avevano dovuto lavorare nel loro magazzino di vini all’ingrosso e dal lunedì al sabato erano sempre impegnati. Finalmente la vita si faceva quieta, qualche visita ai nipoti, qualche giretto per la città, il gelato della famosa “Casa del gelato” (Zarina ne andava matta, specialmente per i gusti crema e stracciatella!), chi poteva stare meglio di loro?
“Caro Giuseppe. - era suo fratello il 5-10-44 e sulla missiva, proprio come in tutte le altre, spiccava il timbro nero VERIFICA PER CENSURA - Abbiamo ricevuto la tua cartolina postale siamo contenti che la tua salute e sempre ottima. In questi giorni ti abbiamo fatto il pacco vestiario, entro il 20 ottobre te ne facciamo un altro mangiativo. Se ai bisogno di altro scrivici noi faremo tutto il possibile per accontentarti. Noi di salute tutti bene, anche la bambina ti manda tanti bacioni, in attesa di vederci presto sempre ricordandoti tuo fratello Battista Masenga” oppure “Caro Beppe, Ho ricevuto la tua del 23/4 sono contenta della tua ottima salute e del buon trattamento che ricevi dai Tedeschi. Credimi Beppe caro non sei esagerato nella tua richiesta, sono felice di poterti accontentare. Domani ti spedisco il pacco con: pane-frutta-marmellata-foto-fruttarelli- (biscotti e tabacco della tua Rina) spero avrai già ricevuto un altro pacco. Noi tutti stiamo bene anche la piccola. Ringrazia Rina delle sue gentilezze. Ti saluto con un grande desiderio di vederti 9/5/44 Bacioni tua Gemma”.
Le sue nipotine, Ornella figlia di Battista e Miretta figlia di Gemma, erano nate che lui era lontano.
Ora, a loro volta, erano donne e avevano dei figli già grandi! In quelle cartoline postali, alcune le aveva conservate, c’erano tanti ricordi familiari ma dicevano sempre “tu stai bene, noi stiamo bene”. Non si poteva, infatti, dire la verità, c’era la censura e già era una fortuna che giungessero a destinazione, anche con qualche vistosa cancellatura blu, e che, attraverso la Croce Rossa del Vaticano, arrivasse qualche pacco. Le scatole di sardine, poi, erano una vera leccornia: con il loro olio si poteva condire l’erba strappata di nascosto sotto il reticolato in qualche angolo del campo con la paura di essere frustati. Le sigarette, invece, confondevano la fame che attanagliava lo stomaco. Nel campo di concentramento aveva imparato a cercare nel fumo l’aiuto per sopravvivere e, forse, era proprio ciò che aveva rovinato il suo corpo: enfisema polmonare, dicevano ora i medici.
- Masenga! - ecco di nuovo l’infermiera con un carrellino e un medico -l’elettrocardiogramma.
Quante volte avevano curiosato con quei fili colorati nel funzionamento del suo cuore: le coronarie, egli aveva imparato a riconoscere i loro capricci quando sentiva un certo fastidio al torace. I suoi compagni di stanza, nell’ospedale San Paolo, leggevano il giornale e ciarlavano. Il suo vicino di letto aveva avuto un infarto poco tempo prima e gli chiedeva consigli perché Giuseppe, di infarti, ne aveva già avuti tre!
“Caro Beppe, - ancora una volta aveva chiuso gli occhi e il passato riprendeva vita - Proprio alla vigilia di San giuseppe ho ricevuto tue notizie, figurati sono state per me graditissime, specie quando si riceve notizie tue non chiare: Come da tua cartolina pensavo che ti avessero trasferito, invece pare rimani sempre al solito posto. Sono contenta che hai ricevuto il pacco e nostre notizie. Beppe caro, devi credere alle nostre buone notizie e non stare in pensiero per noi perché tutto prosegue bene come prima. Io lavoro sempre in Vetreria e il lavoro credimi non mi manca. Mi raccomando Beppe di mandarmi a chiedere tutto quello che ti manca perché io ben volentieri te lo spedisco e stà tranquillo non è sacrificio per me. In settimana te ne mando un altro; al ricevere di questa mia spero avrai già ricevuto il nostro pacco. Gianni e Tessy stanno molto bene. La piccola Ornella cresce sana e bella, appena avremo fotografie te le mando. Senti, Beppe, se la tua salute ne risente non ti pare meglio far domanda di rimpatrio nell’Esercito Repubblicano?…. almeno sei più vicino a noi!…questo non è un consiglio, fa come credi…. La Rina non è ancora stata da noi. Le spedisco una tua cartolina perché ti possa mandare sue notizie. Bacioni cari e tanti affettuosi abbracci tua sorella Gemma 20/3-1944”
No, non aveva fatto domanda di rimpatrio, come non l’avevano fatta tantissimi italiani che avevano scelto di rimanere in campo di concentramento: non voleva far parte dell’esercito della Repubblica di Salò.
Quando, finita la guerra, finalmente, era riuscito a tornare a casa, aveva deciso anche di non parlare più di tutto quel periodo e di cercare solo di dimenticare.
Zio Giuseppe non comprava più il giornale da diversi giorni: quando il carrello con tutte le pubblicazioni passava nel corridoio del suo piano e si fermava davanti alla sua stanza, egli si voltava con fastidio dall’altra parte perché proprio non ce la faceva a leggere. Le vicende, anche quelle sportive che lo avevano tanto affascinato, gli giungevano attenuate e lontane, poco interessanti: era solo tanto stanco, si diceva, e prima di tutto doveva riprendere le forze.
“Carissimo Giuseppe ti spero sempre bene - era ancora la sua Rina dell’11-6-44 a entrare nei pensieri - e ti raccomando di scrivere più sovente e voglio sapere se sei sempre grasso uguale? non ai preso rafreddore ai dei bravi compagni e stai tranquillo riguardo a noi sempre bene in questo mese spero di andare sino da tua sorella tanti saluti dai miei e un bacino da tuo figlioccio mille abracci con tanto desiderio di averti presto con me bacioni tua Rina”
Grasso uguale?
Qualche volta, nei pacchi, c’era anche qualche soldo italiano. Una donna tedesca, Gretel, se la rammentava ancora vagamente un po’ curva e misera, si avvicinava spesso ai reticolati del campo. Con gesti e poche parole tra il tedesco e l’italiano gli aveva fatto capire che suo figlio era militare in Italia. Voleva dei soldi da mandargli perché anche lui potesse stare un po’ meglio in quel paese così lontano e sconosciuto. Forse, il figlio avrebbe potuto comprare un pezzo di burro, una maglia calda, magari dei calzettoni pesanti… ma faceva freddo o caldo in Italia?
- No, non c’è sempre la neve, dipende dai posti. - rispondeva lui.- Al mio paese, Asti, d’inverno c’è la neve ma a Savona, dove vive la mia fidanzata, d’inverno fa molto meno freddo e la neve non c’è mai.
In cambio ella gli dava pezzi di pane e patate che lui e i compagni della camerata dividevano e razionavano con cura.
“Caro Beppe, Sono contenta che hai ricevuto nostre notizie. Spero riceverai anche il pacco che ti abbiamo spedito. Te ne invieremo un altro contenente quello che mi hai richiesto in data 19/1/44. Noi stiamo tutti bene. La piccola Ornella ingrassa giorno per giorno. Sabato venturo la Tessy e la piccola andranno nuovamente a Entracque perché oltre ad essere al sicuro, la campagna può giovare a tutte e due. Mi raccomando di stare tranquilli a nostro riguardo che per ora tutto è tranquillo, anzi ti dico che coi tedeschi si stà bene. Rina un’altra settimana mi viene a trovare, sono contenta così posso sentire a voce come stanno le cose laggiù e se è necessario la tengo qui con me. Va bene? Sei contento?… Appena avrai ricevuto il pacco fammelo sapere così posso regolarmi per gli altri. Qualunque cosa che tu abbia bisogna fammelo sapere. Ormai le Vetrerie sono tutte chiuse fin dopo la guerra sarà ben difficile che si riprenda il lavoro. Il tuo direttore ha fatto domanda per il tuo rimpatrio ma fin ora nulla di nuovo. Sta bene, e cerca di avere riguardo più che puoi alla tua salute. Iddio ci protegga e ci assista. Ho tanto desiderio di vederti. Ti bacio con tanto affetto tua sorella Gemma 2/2/1944”
Il 31 maggio 1946, una dichiarazione dell’Associazione Nazionale Ex Internati sezione provinciale di Asti, lo aveva qualificato come Ex Internato Militare dei nazi-fascisti proveniente dalla Germania campo XVIII-C Matr.N36013. È stato internato, si diceva nel documento, il 9-9-1943 e rimpatriato il 10-5-1945.
Alla fine della guerra, dopo il lungo viaggio di ritorno, sua sorella si era presa cura di lui. C’era voluto un anno per rimettersi a posto. Un po’ l’aveva passato in montagna a Bardonecchia e un po’ a casa con Gemma.
Rimettersi era stato difficile: dopo pochi giorni dall’arrivo, era diventato tutto gonfio e poteva mangiare solo pochissimo. Eppure, la prima volta che si era trovato a pranzo con i parenti, e il grilletto con la pasta per tutti era giunto in tavola, egli se lo era preso e messo davanti a sé, incurante degli altri. Aveva dimenticato quei sapori, quei colori del cibo di casa; la paura della fame gli era entrata dentro e non ne sarebbe uscita che molti anni dopo.
La Vetreria a Savona era stata bombardata e non funzionava più. Così Giuseppe aveva perso il lavoro, era tornato ad Asti e, per un po’, dopo il matrimonio, lui e Rina erano vissuti là. Infine, avevano deciso di aprire un magazzino di vini all’ingrosso a Savona e vi si erano stabiliti definitivamente.
In quel momento, a un paio di chilometri di distanza, nell’aula ampia e luminosa della scuola elementare “XXV Aprile”, vicino alla vetrata dalla quale si scorgeva l’azzurro chiaro del mare proprio fino all’orizzonte, una bimba di sei anni, con gli occhi verdi, dopo aver attentamente copiato sul quaderno la data dalla lavagna, si impegnava, seduta nel banco, a completare un disegno dai colori vivaci e allegri.
Un pensiero veloce l’aveva colpita: “Chissà come sta zio Apu…”
La mamma andava sempre a trovarlo all’ospedale e, due sere prima, aveva portato anche lei, di nascosto!
Certo, i bambini non potevano entrare nell’ospedale e spesso, lei e sua sorella attendevano nella sala d’aspetto quando la mamma non sapeva dove lasciarle. Intanto, mangiavano un pezzo di focaccia (era così buona nel bar dell’ospedale!) o un gelato.
Due sere prima, però, approfittando della momentanea assenza delle infermiere dal corridoio, la mamma l’aveva fatta correre un attimo, solo un attimo, a salutare lo zio…
Egli era là, abbandonato sui cuscini in un letto bianco, ma il suo sguardo, a vederla, si era illuminato…
“Forse, - pensava ancora Zarina - lo zio sarà a casa oggi. La mamma mi porterà là e giocheremo a ‘rubamazzetto’. Barerò solo un poco, guarderò le carte dello zio, quando lui le poserà sul tavolo e girerà la testa e così riuscirò a vincere!”
Le voleva tanto bene lo zio: Zarina era la più piccola di un lungo numero di nipoti, tra cui Enrico, il prediletto, per i quali l’abitazione degli zii aveva rappresentato sempre un rifugio. “Mi pare proprio di vederlo lo zio, - lo sguardo di Zarina si allungava là, nel cielo, dove il celeste dell’atmosfera si faceva più sbiadito e lieve - però è spettinato! I suoi capelli sono tutti in disordine! Bisognerebbe pettinarlo.”
A malincuore, dunque, Francesco Giuseppe, detto zio Apu, conscio di perdere una dolce stagione della vita, aveva dovuto lasciare quel letto d’ospedale, quella speranza di ripetere ancora e ancora: - Batti cinque!
Il suo spirito si era alzato lentamente nella stanza. L’aria si era fatta più fresca e nessuno riusciva più ad ascoltarlo. Ma lui poteva vederli ancora tutti.
Sua moglie sarebbe rimasta sola giorno dopo giorno, nella loro casa, a misurarsi con le difficoltà della vita…
Pierina, Rina per tutti, si era accorta della sua partenza. I parenti si erano stretti intorno a lei che singhiozzava disperata.
La mamma di Zarina, invece, gli aveva riavviato dolcemente quei capelli un po’ spettinati.
Poi, velocemente, erano giunti gli infermieri e avevano trasferito il suo corpo sulla barella per trasportarlo, coperto dal lenzuolo bianco, un paio di piani più sotto, nelle fredde camere dell’obitorio.
La storia qui raccontata è assolutamente vera in ogni particolare. Giuseppe Masenga era mio zio ed è stato internato in campo di concentramento dopo l’8 settembre 1943. Gli stralci di lettere presenti nel testo sono copiate da lettere in mio possesso, per questo motivo non ho ritenuto di togliere gli errori di ortografia.
Nessun commento:
Posta un commento