POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

venerdì, luglio 30

Just Like a Woman Pontifex

PONTIFEX, DYLAN ON THE GREAT . Straordinario remake italo-cinese di Acquaraggia - RENATA RUSCA ZARGAR

 





PONTIFEX, DYLAN ON THE GREAT WALL

Straordinario remake italo-cinese di Acquaraggia

Bob Dylan è, senza dubbio, un grande che ha lasciato per sempre la sua impronta nella Storia della Letteratura e della Musica.  

Giuseppe Oliverio, in arte Acquaraggia, propone oggi, insieme ad altri musicisti, un disco che riprende lavori degli anni ’60-’70 di Bob Dylan. 

La visione di entrambi gli artisti è un mondo che esisteva anche a quei tempi, mai realizzato, ma oggi più consapevole negli aspetti immaginifici e positivi insiti in una globalizzazione che possa essere rispettosa dei diritti umani di tutti.

L’album, che si intitola “Pontifex, Dylan on the Great Wall”, ci riporta, infatti, ai Ponti tra le Civiltà, con 11 tracce riprese dalle canzoni più significative di Dylan (Blowing in the wind, Knoking on the heaven’s doors, Lei lady Lei, All along the watchtower, ad esempio). 

Il segreto dell’eccezionalità è, però, che i musicisti della band di Acquaraggia sono completati da musicisti cinesi e tibetani che usano il Guzheng (una cetra a 21 corde, tipica delle orchestre che suonavano alla corte imperiale) o le pervadenti risonanze delle campane tibetane.

Persino la confezione del Cd è metaforica, sia per l’inserto di un Dylan degli anni giovanili e di un tratto della Grande Muraglia nel libretto interno, che per i testi scritti in tre lingue: mandarino, italiano e inglese.

Il brano “Just Like a Woman”, tra gli altri, considerato tra le migliori composizioni di Dylan, al di là delle polemiche suscitate a quel tempo sull’interpretazione della figura femminile, prende ora nuova vita nell’interpretazione di Acquaraggia. 

(L’incantevole video della canzone al link: (18) Just Like a Woman Pontifex - YouTube) 

La Grande Muraglia rappresenta, così, un’antica e meravigliosa civiltà che si esprime anche nella stupefacente musicalità degli strumenti orientali. 

La donna è, finalmente, indiscussa protagonista: nel canto di Ming Xin Zhang, nei suoni di Nie Xin, Mei e Itong Wan, Zhou Bing Jie, Ciao Fan, e nella loro presenza dolcissima, colorata e determinata.

Un brano, dunque, che è per sé stesso Poesia, mentre vive nelle immagini di una terra fertile di fiori e d’Amore.

Il Pianeta, ormai, dà forti segnali di non accettare più la nostra presenza crudele e assassina.

Chissà che non sia l’Arte, unione tra civiltà, culture, Oriente, Occidente, a insegnarci una diversa strada da seguire.

Renata Rusca Zargar

Le prime 500 copie del Cd contengono un popup fatto a mano.  

 L’album è ordinabile sul sito www.acquaraggia.it  

alla mail giuseppe@acquaraggia.it


giovedì, luglio 29

LA VOLONTÀ DI DIO - ANTICA LEGGENDA ORIENTALE di RENATA RUSCA ZARGAR


Vasilij Kandinskij, Il cavaliere azzurro, 1903. Olio su tela.

La volontà di Dio
Antica leggenda orientale


C’era una volta, un antico villaggio arroccato su un'altura. Il suo territorio era dolce e armonioso e il saliscendi delle verdi colline si stendeva tutt’intorno, specchiandosi nei corsi d’acqua che cantavano al cielo le loro canzoni. 
Nei campi, i contadini raccoglievano a piene mani il frutto del loro lavoro, mentre mucche e pecore pascolavano tranquille nei prati. 
A quel tempo, un nobile signore viveva solo in uno splendido palazzo di tufo e mattoni, arredato dai più lussuosi mobili del tempo. 
Spesso il nobiluomo si sedeva alla finestra a osservare il paesaggio che amava tanto: lo sfondo del cielo azzurro sulle colline, le mura della città e le case dei suoi vicini. 
La servitù che sfaccendava su e giù per gli ampi scaloni, non contribuiva, però, a mitigare la sua solitudine e il suo carattere diventava di giorno in giorno più aspro. Allora le sue urla risuonavano da una stanza all’altra e tutti, compreso il maggiordomo, fuggivano a nascondersi nelle stalle. 
Egli aveva, però, un devoto consigliere, Battista, che lo seguiva dappertutto cercando di ispirarlo a compiere il bene e che concludeva sempre i suoi avvertimenti e l’analisi dei fatti dicendo:
-É la volontà di Dio. -
Il padrone aveva tollerato quei commenti senza dar loro molto peso fino a quando, un giorno, si era ferito a un dito con il coltello.
Allora, l’usuale risposta -É la volontà di Dio - era suonata come un’offesa alla sua persona per cui, incollerito, aveva fatto sbattere il consigliere nelle segrete del palazzo a pane e acqua.
Bisogna sapere che, di solito, Carlo, così si chiamava il signore, quando il tempo era buono, soleva andare a caccia a cavallo, seguito da molti altri nobili e servitori. Così, un bel giorno di primavera, l’intera compagnia era partita dirigendosi verso i fitti boschi che non mancavano appena fuori le mura della città. 
Gli alberi alti lasciavano filtrare solo a tratti qualche lama di sole, il profumo dei fiori era così intenso da far girare la testa, l’acqua scorreva tra i sassi cantando sottili ritornelli e il nobiluomo, trascinato dalla malia dei luoghi, aveva gettato il suo cavallo, il migliore, al galoppo, mentre le frasche si spostavano ossequianti al suo passaggio e il sole tardava a tramontare per prolungare il suo momento di fiaba. 
Cavalcando cavalcando, Carlo aveva lasciato indietro il suo seguito ed era rimasto solo, fino a quando non aveva scorto in lontananza le torri e le mura di una città sconosciuta.
- Bene! - aveva pensato - laggiù mi potrò riposare! -
Ma, appena giunto, intento ancora ad ammirare la bellezza dei palazzi costruiti in una pietra dal delicato colore di rosa, era rimasto colpito dalla tristezza dipinta sui visi delle persone. 
Nonostante ciò, era stato accolto con grande onore, accompagnato al castello dove, accudito da attraenti fanciulle, era stato lavato, profumato, abbigliato elegantemente, nutrito e condotto alla presenza del Signore della città, mentre i volti dei cittadini erano diventati improvvisamente allegri.
Non dovete ignorare, cari lettori, che, in quella città, c’era stata una terribile epidemia. 
Né medici né stregoni erano riusciti a farla cessare: la popolazione si era dimezzata e tutti ormai vivevano nella disperazione e nel terrore. 
Un mago, però, aveva predetto che la malattia sarebbe finita con il sacrificio di un nobile forestiero che giungesse da molto lontano. 
Da parecchi giorni, tutti attendevano che un forestiero varcasse le porte dell’abitato!  
Ecco perché Carlo era stato preparato con cura: il mago stava per esaminarlo e decretare la sua morte, mentre l’epidemia, che già aveva mietuto molte vite, sarebbe cessata. 
- Miei cari cittadini, - aveva, però, concluso il mago con la sua voce tonante - quest’uomo non è adatto per il sacrificio perché ha una ferita al dito. Solo esseri integri possono liberare la città dal suo cattivo destino. -
A quelle parole, la tristezza era tornata sui volti di tutti ma non di Carlo che, lieto di averla scampata, aveva ripreso il suo cavallo ed era ripartito al galoppo.
Tornato a casa, Carlo aveva fatto liberare Battista. 
- Ho capito che Dio ha voluto che mi tagliassi il dito per salvarmi la vita. Ma dimmi, - gli aveva chiesto - perché Dio ha permesso che ti facessi rinchiudere nelle segrete del palazzo? 
- Nobile Carlo - aveva risposto il consigliere - come tu sai, io ti seguivo fedelmente ovunque. Se fossi venuto a caccia con te, non ti avrei lasciato solo e avrei raggiunto, insieme a te, la città del sacrificio. Accertato che tu non eri adatto, avrebbero ucciso me che non avevo ferite! Ecco perché mi trovavo prigioniero: la mia vita è cara a Dio. -
Da quel giorno, Carlo divenne più ragionevole e si impegnò a seguire i consigli di chi voleva il suo bene. 

Renata Rusca Zargar

mercoledì, luglio 28

LA STELLA GIALLA DELLA DITTATURA SANITARIA di RENATA RUSCA ZARGAR


La stella gialla della dittatura sanitaria

In questi giorni mi stanno arrivando alcuni messaggi e persino dei filmatini che inneggiano alla “Libertà”, spingono a “respirare aria fresca, uscire, ballare”. unendo agli slogan foto di catene spezzate e di fili spinati a noi ben noti. 

Non solo. Mi si chiede se il prossimo DPCM imporrà un triangolo o una stella gialla per la sicurezza collettiva. Mi si avvisa, inoltre, che i nazisti non hanno iniziato dai campi di sterminio ma dalle restrizioni di alcune libertà.

Purtroppo, queste persone che si sono prese la fatica di insegnarmi la Storia del secolo scorso, hanno, però, la memoria cortissima. 

Non ricordano l’ultimo anno e mezzo della nostra vita.

Solo nel 2020, si sono registrati, in Italia, 100000 morti in più dell’anno precedente (ISTAT). Inoltre, si è trattato di persone decedute da sole, con un tubo in gola, senza un parente a stringergli la mano per accompagnare il passaggio. Un orrore per sé stesse e per chi le amava e non potrà mai farsene una ragione. Abbiamo, poi, già dimenticato i camion che portavano via file interminabili di bare perché non c’era più spazio nei cimiteri? Peggio delle Guerre Mondiali. 

Io penso, però, anche a quelle persone che non sono state ricoverate in ospedale perché non c’era più spazio neppure là: terapie intensive, reparti, Pronto Soccorso, assediati dagli infermi.  

Mi sono chiesta molte volte se, ipoteticamente, ci fossimo ammalati io e mio marito e avessero potuto (come è successo ad altri) portare in terapia intensiva uno solo di noi, chi avrebbero scelto: me o lui? 

Un interrogativo devastante.

Per questo, io non ho dimenticato e credo che dobbiamo grande rispetto agli esseri umani che hanno sofferto così tanto.

Libertà! Tutti vogliamo essere liberi, soprattutto dalla malattia e dalla morte perché, dopo, non ce ne faremmo più nulla della libertà.

Mi viene citata, quindi, la “dittatura sanitaria”!

Nel mondo, nei paesi che ironicamente chiamiamo in via di sviluppo, cioè poveri, non esiste la Sanità Pubblica. Praticamente, tutte le persone sono liberissime di ammalarsi e di morire senza potersi curare se non sono ricchi. 

Io credo che se si offrisse loro la nostra “dittatura sanitaria” e la nostra lunga aspettativa di vita, sarebbero ben contenti di fare cambio con noi. Penso all’India, ad esempio, all’Africa, dove, spesso, gli ospedali pubblici sono strutture in cui noi non andremmo neppure a toglierci un callo e le medicine sono pure a pagamento.

È vero, però, che certi popoli sono meno colpiti da questo virus che è talmente subdolo e orrendo che uccide chi non è più giovane o ha delle patologie (che, normalmente, qui siamo in grado di curare) e, per altri, invece, si presenta asintomatico o paucisintomatico.

Quando sono andata in Togo, con l’Associazione di volontariato “Savona nel cuore dell’Africa”, eravamo alloggiati in un ostello nella brughiera (non un comodo resort), e siamo stati, poi, anche due giorni e una notte in un villaggio dove non c’era acqua né elettricità. Parlando con il figlio del capo villaggio, egli ci aveva spiegato che loro hanno grande rispetto per gli anziani. Abbiamo chiesto, allora, di conoscerne uno e siamo stati condotti a una tomba perché nel villaggio non c’erano anziani (che poi, magari, per loro, come un tempo da noi, anziano significa cinquant’anni o anche meno). 

Ovvio che il Covid colpisca poco e, poi, da quelle parti, quando muore una persona, chi gli farebbe mai un tampone?

Io sostengo che tutti i Paesi, invece di spendere nelle armi, dovrebbero avere la sanità pubblica ma, per ora, non è così.

Dunque, io provo pietà e dolore per chi non si può curare e non penso affatto che sia più libero di me, anzi!!!

Infine, nominare i Campi di concentramento e di sterminio per non fare un vaccino (quando i nostri figli li fanno appena nati, - per fortuna- e anche noi ci siamo salvati da poliomielite, vaiolo, difterite e molto altro), mi sembra una vergogna.

Oppure indossare la stella gialla per non avere un Green Pass perché lede la privacy, cioè tutti sapranno che abbiamo fatto un vaccino, è un’offesa alla Memoria della Shoah.

Mio padre, durante la Seconda Guerra Mondiale è dovuto rimanere nascosto per non essere mandato in campo di concentramento oppure arruolato nelle milizie fasciste. Tanti Italiani sono stati, invece, deportati e tanti sterminati.

Lo sterminio, la stella gialla, il triangolo, sono soggetti che non dovrebbero essere ridicolizzati per qualche proprio fine. Rappresentano milioni di morti.

Tra l’altro, ho notato che, negli assembramenti di protesta, spiccano gruppi e partiti che mai hanno rinnegato la dittatura fascista e mai hanno dichiarato il male che ha fatto a noi e al nostro Paese tale dittatura assassina.

Sono loro che ci renderanno liberi?

Infine, le Big Pharma guadagnano troppo.

È vero.

Il vaccino deve essere libero per tutti. Chi l’ha scoperto ha diritto di essere ampiamente ricompensato ma non deve avere un extra-guadagno. 

Esiste per questo una Petizione da firmare affinché il vaccino sia un bene della società tutta, in tutti i paesi

Petizione · Presidenza del consiglio dei ministri, Governo Italiano: Vaccino Bene Comune · Change.org (in caso, sempre su Change.org, ce ne sono anche altre).

Poi, si può scendere in strada, non per “spezzare le catene” della nostra ricca società, ma per spezzare quelle di chi non ha nulla: i bambini in Africa che non possono essere vaccinati perché le famiglie non hanno denaro, che muoiono di morbillo, di fame e di malaria. Possiamo manifestare contro la mancata speranza di vita delle donne che partoriscono ancora in terra a fianco della loro capanna o contro di noi che portiamo via le ricchezze ai Paesi che abbiamo reso poveri rendendo queste mostruosità possibili.

Per queste cose, sì, sarebbe sacrosanto manifestare e spezzare le catene della nostra crudeltà.

Renata Rusca Zargar


martedì, luglio 27

LA RESISTENZA MAPUCHE di RENATA RUSCA ZARGAR



LA RESISTENZA MAPUCHE 
di
RENATA RUSCA ZARGAR
 
articolo pubblicato su:





SAVONA: Domenica 25 luglio, presso la Società Mutuo Soccorso “Fratellanza Leginese”, a Savona, l’USEI APS (Unione di Solidarietà degli Ecuadoriani in Italia-APS) ha organizzato un incontro in presenza per parlare del popolo Mapuche in collaborazione con l’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba (Circoli “Granma” di Celle Ligure e Savona), il Comitato di Solidarietà col Cile di Genova e con il contributo del CO.LI.DO.LAT (Coordinamento Ligure Donne Latinoamericane) e dell’associazione culturale “SOCONAS INCOMINDIOS”.
Il convegno è stato iniziato e concluso dal coro “Canto senza Frontiere”, una perfetta contaminazione di persone di differenti etnie, diretto dal soprano ecuadoriano Johanna Mosquera.
Antonio Garcia, rappresentante dell’Usei, ha, prima di tutto, invitato la numerosa platea (con il distanziamento e le mascherine previste dalle misure anti-Covid) a un minuto di silenzio in ricordo di Youns El Boussetaoui, l’uomo in difficoltà ucciso a Voghera da qualcuno che girava per le strade con in tasca un’arma pronta a sparare e uccidere.
Il primo a parlare, poi, è stato Gino Mirabelli Badenier, umanista, membro del Comitato di Solidarietà col Cile di Genova. In una appassionata relazione, l’ex esule cileno ha spiegato come le proteste del 2019 in Cile per l’aumento del biglietto della metro, fossero, in realtà, la risposta a 30 anni di soprusi. Infatti, dopo la fine della sanguinaria dittatura di Pinochet, molto è rimasto uguale, in Cile, persino la Costituzione! Inoltre, non esiste la sanità pubblica, la scuola pubblica, gli asili nido, la pensione può essere solo privata, tutto deve essere pagato. E quel che è peggio, è che le risorse del paese, persino l’acqua e l’energia, sono in mano a società spagnole, australiane, americane e italiane (ENEL).  In Cile rimane il 25% della ricchezza nazionale, mentre il resto va alle imprese straniere. E di quel 25%, il 10% finisce alle forze armate, una vera e propria élite che ha scuole e ospedali riservati ai militari e alle loro famiglie.
Nel 2020, si è svolto un referendum ed è stato chiesto ai cittadini se volessero adottare una nuova Costituzione o mantenere quella attuale: l’85% dei votanti si è espresso a favore di una nuova Costituzione (avevano partecipato al voto il 65% della popolazione). Nel maggio 2021, è stata eletta, dunque, l’Assemblea costituente, in cui sono presenti molte donne e 17 membri provengono dalla popolazione originaria del paese, tra cui alcuni Mapuche.
I popoli indigeni sono stati massacrati, disconosciuti, sterminati, molti estinti, da tutti i governi succedutisi dalla conquista coloniale, cioè, negli ultimi 500 anni.
Infatti, tutti i governi hanno sempre e solo salvaguardato gli interessi di chi gode già della ricchezza.
Per ultimo, Mirabelli ha citato l’attualissimo caso cubano: gli abitanti non possono essere vaccinati contro il Covid perché l’embargo non permette loro di avere le siringhe.
(Su Change.org è disponibile una petizione per chi volesse firmarla Petizione · Biden rompa l’embargo a Cuba sulle siringhe per somministrare il vaccino anti-Covid19 !! · Change.org. Qualche volta, l’opinione di molte persone è riuscita a smuovere, per interesse politico, anche i cuori più duri. Nda)


Maria Eugenia Esparragoza, docente dell’Università degli Studi di Genova, Laureata in Comunicazioni Sociali (UCAB di Venezuela), Dottore di ricerca in Antropologia Filmica (Università di Parigi) e socia fondatrice del CO.LI.DO.LAT (Coordinamento Ligure Donne Latinoamericane), ha presentato, quindi, all’uditorio la forza di alcune figure femminili che hanno fatto la storia della Resistenza Mapuche attraverso l’insegnamento, la filmografia e il recupero della saggezza ancestrale. Infatti, a fronte di vari Trattati che fissavano delle zone dove poter vivere in pace, si è sempre operato per rinnegare i diritti di questo popolo, persino si è preteso che i bambini ripudiassero la lingua e le tradizioni dei loro avi. Tali donne eroiche hanno mostrato la via dell’anticolonialismo, dell’ecologismo rispettoso dei popoli indigeni e l’importanza di considerare degne tutte le vite.
Naila Clerici, già Docente di Storia delle Popolazioni Indigene d’America presso l’Università di Genova, Presidente dell’associazione culturale “SOCONAS INCOMINDIOS”, direttrice della rivista “TEPEE”, interamente dedicata ai nativi delle Americhe, ha parlato della letteratura con la voce della Poesia.
“Non mi uccideranno con i decreti / Non con i proiettili / di calibro appena inventato. / […] Recupererò il sangue /dai miei ovuli in fiore / Continuerò a procreare bambini indomabili / per difendermi. / Perché sono padre-madre, forza della terra […]” scrive, tra l’altro, Maria Teresa Panchillo.
Infine, è intervenuta Flor Agustina Calfunao Paillalef, Ambasciatrice della Missione permanente del popolo Mapuche presso l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite),
Ella ha raccontato con molti particolari ciò che noi sappiamo sia successo ovunque siano arrivati i popoli europei per impossessarsi di territori e risorse altrui: la conquista, la colonizzazione, il disprezzo e la distruzione di qualsiasi cultura e tradizione che non fosse quella europea guerrafondaia.
Trattati, lotte, indipendenza dai padroni di un tempo, presunte democrazie, non hanno restituito libertà ai popoli originari perché a comandare sono sempre i discendenti dei vecchi colonizzatori.
Bambini strappati alle loro famiglie e collocati in altre, case distrutte, campi di concentramento, spoliazione dei beni (tra cui i gioielli delle donne, indossati per vivere in armonia con la natura), pulizia etnica, imposizione di ruoli sociali che essi non conoscevano, sono alcuni dei trattamenti da sempre riservati ai nativi.
Alcuni gruppi di indigeni, considerati da noi europei solo dei selvaggi da addomesticare, erano stati addirittura portati in Europa per essere mostrati come se fossero animali allo zoo.
Ma non ci sono limiti per noi, che, spesso, ci definiamo “cristiani”.
Il pomeriggio si è concluso con una riflessione: quando gli stranieri vengono qui chiediamo loro di integrarsi, quando siamo andati là, noi non li abbiamo rispettati ma sterminati.



L’incontro è visibile sulla pagina Facebook dell’USEI 

Renata Rusca Zargar

FONOSIMBOLISMO E ALTRO ANCORA di DANILA OPPIO

Novembre di Giovanni Pascoli
Rime alternate

FONOSIMBOLISMO E ALTRO ANCORA


Vento impietoso

Soffia e sibila il vento

Furioso

Scricchiolano infissi e usci


Frusciano sui rami le foglie

Secche e si staccano

Dagli scheletrici rami


Sradica e schianta

Gli alberi sull’arido suolo

Impietoso.

(Danila Oppio: scritta oggi, 27 luglio 2021)


Angoscia

Scivola

Sul lastrico della strada


Strazia

Lo stridore dei freni


Una rossastra

chiazza s’espande


 Schianta l’anima

e l’angoscia pervade.

(Danila Oppio: scritta ieri, quand’ero adolescente)

La scelta dei vocaboli rende col loro suono, l’effetto simbolico e musicale dei versi. Con altri sinonimi, non offre la stessa impressione. Da ragazza non sapevo cosa fosse il fono-simbolismo, ma lo avevo intuito. Ora il mio maestro - Prof. Roberto Vittorio di Pietro di Torino, per anni critico letterario presso la RAI, e insegnante di poesia, oltre ad essere un ottimo poeta e giudice di varie giurie - mi ha dato modo di apprendere come utilizzare le parole per rendere, col loro suono, effetti particolari. Non ho particolare simpatia per D’Annunzio, ma in La pioggia nel pineto, usa un perfetto fono-simbolismo: suona, e par sentire lo scroscio o il tamburellare della pioggia. 

Riguardo alla metrica, alle rime baciate o alternate, alle quartine, giusto per dare un esempio, secondo me sono costrizioni e costruzioni tali da tagliare le gambe  a chi cerca di comporre una buona poesia. Infatti, la ricerca disperata della rima, della metrica, dei versi della stessa lunghezza (quartine, ottave, ecc) toglie la libertà di esprimere al meglio il proprio sentire poetico. A meno che non pensiamo d’essere tutti Dante o Petrarca, Leopardi o Pascoli, diventa davvero complicato e ostico poetare servendosi della metrica perfetta, o delle rime. 

Apprezzo le rime tra la fine di un verso e una parola interna di un altro verso, come in Leopardi:

Odi greggi belar, muggire armenti,

gli altri augelli contenti a gara insieme.

Splendida forma poetica.

Ci sono poi le assonanze, quelle che maggiormente amo. 

A questo punto, per maggior chiarezza, preferisco servirmi, perché mi trova in sintonia, del testo di Mario Macioce:

La metrica italiana

tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze

anche se sono informata di tutto questo, ma così è ben spiegato, che di meglio non potrei fare.

Ci sono poi le ... quasi rime.

- Assonanza (o rima imperfetta): stesse vocali ma consonanti diverse, come cuore - dote

- Consonanza: stessa finale ma vocale tonica diversa, come velo - solo

Queste e altre figure ritmiche, secondo me, vanno bene in una poesia in versi sciolti o comunque priva di uno schema metrico regolare.

Ma, se si sceglie liberamente (non ci obbliga nessuno) di fare una composizione dalle regole precise e codificate, come un sonetto, un rondò o anche solo una serie di quartine in rima, inserire una (o qualche) assonanza o consonanza più che sembrare una variante stilistica, dimostra che non si è saputo fare di meglio!

Ed è sempre preferibile, per qualunque verso mal riuscito o con una parola inadatta o con una rima sforzata, falliti tutti i tentativi di salvataggio, gettar via una rima o un verso o anche una strofa, piuttosto che sciupare l'intera poesia.

Capita spesso che belle composizioni, ricche di qualità e d’idee, siano trascinate verso il basso da uno o pochi versi, non all'altezza degli altri, lasciati per pigrizia o per lo sciocco orgoglio di dire: "Mi è venuto così e va bene così!"

L'ispirazione deve, sì, essere spontanea, ma pensate a un pittore; se dopo aver avuto un'intuizione geniale e magari buttato giù uno schizzo, non passasse giornate intere a dipingere, correggere, osservare, migliorare, nessun capolavoro vedrebbe mai la luce!

Il modo più semplice e immediato di far rime è quello di abbinare i versi a due a due, facendone rimare uno con il seguente; esempio:

Meriggiare pallido e assorto A

presso un rovente muro d'orto, A

ascoltare tra i pruni e gli sterpi B

schiocchi di merli, frusci di serpi. B

   (Eugenio Montale)  

Le lettere accanto ai versi rappresentano il tipo di rima: indicano che i primi due versi hanno la stessa terminazione e quindi rimano fra loro; così anche gli altri due rimano fra loro, ma in modo differente dai primi.

Questa rima fra versi contigui si dice " baciata ".

Attenzione: se i versi che rimano fra loro sono così vicini, l'effetto è molto forte. Poiché la moda dal Novecento tende a eliminare la rima o a relegarla in serie B (specie da parte di chi non riesce a fare rime decenti), conviene non abusare della rima baciata, soprattutto in poesie lunghe. C'è il rischio della filastrocca un po' infantile, anche se una poesia veramente bella può superare questa trappola, come dimostra " La cavalla storna " del Pascoli, tuttora molto godibile e coinvolgente. Non è prudente però sfidare Pascoli!

"O cavallina, cavallina storna,

che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!

Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

il primo d'otto tra miei figli e figlie;

e la sua mano non toccò mai briglie.

Altro schema di rime molto usato, in quartine o strofe più complesse, è la rima " alternata ", che si fa appunto alternando due terminazioni:

Nude, le braccia di segreti sazie, A

A nuoto hanno del Lete svolto il fondo, B

Adagio sciolto le veementi grazie A

E le stanchezze onde luce fu il mondo. B

Al solito le lettere simboleggiano le terminazioni e indicano che il primo verso rima con il terzo e il secondo con il quarto. Un altro schema è quello della rima " incrociata "; ad esempio:

Spesso il male di vivere ho incontrato: A

era il rivo strozzato che gorgoglia B

era l'accartocciarsi della foglia B

riarsa, era il cavallo stramazzato. A

 (Eugenio Montale)

La rima " incatenata " si ha nelle terzine dantesche (cioè con lo stesso schema usato da Dante nella Divina Commedia), come qui:


Su la riva del Serchio, a Selvapiana A

di qua dal ponte a cui si ferma a bere B

il barrocciaio della Garfagnana A


da Castelvecchio menano, le sere B

del dì di festa, il lor piccolo armento C

molte ragazze dalle trecce nere. B


Siedono là sul margine, col mento C

sopra una mano, riguardando i pioppi D

bianchi del fiume; e parlano. Ma il vento C

(Giovanni Pascoli)

È una composizione in terzine incatenate anche "Le ceneri di Gramsci" di Pier Paolo Pasolini, ma in questo caso sarebbe dura chiamarle "dantesche", perché il Poeta, forse per dare un sapore popolaresco alla sua poesia, si concede troppi sconti di metrica e di rima.

Non è di maggio questa impura aria A

che il buio giardino straniero B?

fa ancora più buio, o l'abbaglia A?

   

con cieche schiarite ... questo cielo B

di bave sopra gli attici giallini C  

che in semicerchi immensi fanno velo B

 

alle curve del Tevere, ai turchini C

monti del Lazio ... Spande una mortale D

pace, disamorata come i nostri destini, C

. . . . .  

Ci sono poi altri schemi, che sono, quasi sempre, combinazioni o varianti di 

questi. Comunque, in fatto di rime, l'unico limite è nella fantasia (salvo nel caso di forme poetiche dalle regole precise e codificate, come il sonetto e il rondò).

C'è poi la possibilità di usare la rima ... con parsimonia, per esempio facendo strofe in cui alcuni versi rimano e altri no, oppure inserendo rime sparse in una poesia in versi sciolti (cioè - ricordate? - veri versi in metrica, ma che non seguono un particolare schema di strofe e di rime, e che possono anche essere di lunghezza diversa).

A mio giudizio, invece, è bene non usare le rime nelle poesie in versi liberi, perché in queste, che hanno il tono discorsivo della prosa e del racconto, più o meno lirico, le rime stonano e appaiono sforzate, così come stonerebbero in un qualsiasi testo in prosa.

Le strofe e le forme metriche

La strofa è un raggruppamento di versi in un più ampio periodo ritmico. Se le poesie sono rimate, quello che unisce un gruppo di versi in genere è proprio il gioco delle rime.

Naturalmente la strofa più semplice è quella di due soli versi; un esempio famoso si ha ne "La cavalla storna" del Pascoli, formata da distici (cioè coppie di versi) a rima baciata.

O cavallina, cavallina storna, A

che portavi colui che non ritorna; A

   

tu capivi il suo cenno ed il suo detto! B

Egli ha lasciato un figlio giovinetto; B

Strofe di tre versi sono le terzine della Divina Commedia o quelle di "Le ceneri di Gramsci" di Pasolini.

Un altro esempio di terzine incatenate è questa breve poesia di Pascoli.


Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande A

morta, né più coi turbini tenzona. B

La gente dice: Or vedo: era pur grande! A

   

Pendono qua e là dalla corona B

i nidietti della primavera. C  

Dice la gente: Or vedo: era pur buona! B

 

Ognuno loda, ognuno taglia. A sera C

ognuno col suo grave fascio va. D

Nell'aria, un pianto ... d'una capinera C

che cerca un nido che non troverà. D

Esempi di "quartine", cioè strofe di quattro versi si trovano in "Canzone" di Ungaretti e in "Meriggiare pallido e assorto" di Montale, citate in precedenza a proposito di rime.

Sono quartine le prime due strofe dei Sonetti e tutte le strofe dei Rondò.

Le quartine sono generalmente rimate a rima alternata (schema A B A B) o a rima incrociata (A B B A), ma possono essere rimate in parte, per esempio solo i due versi interni, oppure solo il primo e il terzo.

Sarebbe bene però, dopo avere scelto un qualunque schema di rima, mantenerlo in tutte le strofe. Cambiare schema, anche se gli autori moderni a volte lo fanno, rende la poesia un po' meno gradevole e può denotare una certa difficoltà nel far convivere il contenuto con la forma, e questo è comunque un limite.

(nota mia: o volte capita di leggere poesie in quartine, che sembrano forzate, prive di grazia e di musicalità perché rimare per forza toglie l’estro poetico, e si rischia anche di cadere in molte ripetizioni e nell’uso di vocaboli poveri) Qualcuno sosteneva che le rime baciate o alternate nelle quartine, aiutano a portare a memoria l’intera poesia, come accade con i testi delle canzonette. Ma oggi non si usa più memorizzare e recitare le poesie: si leggono e non importa se sono prive di rima o di metrica, quel che conta, è che tocchino il cuore dei lettori perché sanno trasmettere emozioni forti. Il resto è noia!)

Altri tipi di strofe più lunghe le vedremo poi parlando di composizioni.

La gamma entro cui spaziano le creazioni poetiche è vastissima. Si va dalle cosiddette "poesie in versi liberi", cioè prive di qualunque regola, alle forme metriche chiuse, che hanno al contrario regole molto precise; dai poemi lunghi come la Divina Commedia (oltre 14000 versi) alle illuminazioni di un verso solo. (Come Ungaretti in Mattina “M’illumino d’immenso”)

In questo caso, però, o si tratta di un'intuizione veramente geniale o è una solenne sciocchezza! Altrimenti sarebbe troppo facile essere poeti).

§§§

La disquisizione di Macioce prosegue, ma mi fermo qui, perché mi pare che sia già sufficiente ad illuminare chi desidera occuparsi di poesia, dando alcune tracce e consigli, per non rischiare di cadere nel banale. Per quanto mi riguarda, considero POESIA ogni stile poetico, ma la mia preferenza cade sulle composizioni che trasmettono musicalità, non importa se in versi sciolti o legati alle formule più complesse. Lo stile è una cosa, il contenuto capace di trasmettere emozioni, è altra. Così mi viene questo  distico in decasillabi a chiusura:

 Le foglie verdi ondeggiano al vento

 dove la rima pone l’accento.

Mi perdoneranno i maestri della poesia se questi due versi non sono perfetti, se lo sono, allora ho imparato qualcosa!

Danila Oppio

 



LE PAROLE DEL VENTO: Scambio di corrispondenza con il poeta UMBERTO DRUSCHOVIC : un grande onore


È un grande onore per me, l'apprezzamento del poeta Druschovic per le mie impressioni di lettura. Non si tratta di una vera e propria recensione, e ringrazio di cuore Umberto Druschovic per aver apprezzato questo mio semplice scritto.
Potete leggere il testo al seguente link: 


Gentilissima sig.ra Danila,

tramite  i cari amici  Alessandra e Lorenzo, che mi leggono  in copia, ho ricevuto alcuni giorni or sono il suo commento riguardo il mio libro  "Le parole del vento". Sono sincero, non trovo parole sufficientemente adeguate per ringraziarla per quel documento di cui mi sento davvero onorato!

Con molta modestia lei definisce il suo scritto come semplici "impressioni di lettura" ma mi permetta di dissentire: la sua è una vera e propria recensione, senz'altro la più bella in assoluto nei termini usati e nei significati, oltre che la più esaustiva e dettagliata tra le tante ricevute per questa mia nuova raccolta.

Quello che lei ha fatto è un meraviglioso esame critico, serio e articolato, delle mie umilissime poesie; un esame che evidenzia, mi consenta di dirlo, tutta la sua competenza non solo in campo letterario ma anche in quello più squisitamente linguistico e lessicale. Qualità, queste ultime, che raramente riscontro in altri contesti. 

È stato per me un grande piacere ma anche, e soprattutto, un onore constatare come lei abbia fermato la sua attenzione sulla "sostanza fonico-ritmica", sulla musicalità - caratteristica raramente evidenziata e apprezzata da altri commentatori - che nel mio caso lei definisce "...tale da avvertirne il canto dentro l'anima". Mai prima d'ora avevo ricevuto, signora Danila, parole così soavi e gratificanti per le mie poesie. Espressioni come "profonda spiritualità" oppure "viscerale amore per la Natura" mettono in luce tutta l'attenzione., la competenza e l'introspezione semantica che lei ha profuso nell'esaminare i miei versi.

Le sue sono parole che mi riempiono il cuore. Non le nascondo che quando ho letto la prima volta la sua recensione mi sono sinceramente commosso. Davvero, non so come ringraziarla per il suo commento meraviglioso che é per me un vanto e un onore! 

Spero si crei in futuro una fausta occasione per conoscerla di persona. Intanto, un grande e sentitissimo grazie!

Con sincera stima e gratitudine.  

Umberto Druschovic

Carissimo Poeta,

Sono io a esserle grata per avermi dato la possibilità di leggere la sua preziosa silloge poetica, attraverso la mediazione dei nostri amici Alessandra e Lorenzo. 

In precedenza, avevo apprezzato moltissimo la singola poesia LE PIETRE DEL TEMPO, in versione video, e VOLTO D'AMORE che, a suo tempo, ho pubblicato sul Blog Versi in Volo che ho creato e amministro. 

Da quei due componimenti avevo "letto" la sua anima, per questo mi è stato facile scrivere le mie "impressioni di lettura", conoscendo già il suo sentire poetico e umano.

Non mi stanco mai di ripetere che la poesia deve somigliare alla musica, se non "suona" dentro l'anima, la lascia indifferente. E le sue liriche sono uno scampanio continuo. Tant'è che mentre leggevo, le canticchiavo sottovoce. 

Ora sto vivendo "di corsa", per i molteplici impegni domestici e familiari, che non  lasciano neppure il tempo di occuparmi della mia scrittura. Appena recupererò i miei spazi vitali (tali considero il dedicarmi alla scrittura personale e alla lettura di buoni libri) conto di pubblicare, di volta in volta, una selezione delle poesie raccolte nel suo libro LE PAROLE DEL VENTO, ovviamente se me lo consentirà. 

In questi ultimi tempi, dando una sbirciata alle visualizzazioni del Blog, ho notato che totalizzano circa 10.000 visite mensili, mentre in passato sommavano a circa la metà. Ho pensato che Versi in Volo è così diventato un buon veicolo per dare maggior visibilità a chi la merita e, indiscutibilmente, a lei spetterebbe molto di più. 

Sono veramente grata ai nostri comuni amici, ad Alessandra in particolare, con la quale ci troviamo a trattare molti argomenti, in primis la scrittura e la buona lettura e sull'arte in generale, di averci messo in contatto. 

Soprattutto per avermi fatto conoscere le sue poesie, che per me, che sono solo "una che ci prova a scrivere in prosa e in poesia", sono di altissima qualità.

 Certo, ho avuto anch'io, come lei, alcuni riconoscimenti, ma mi rimane il dubbio sulla competenza delle varie giurie che,  a detta di un amico poeta  (è lui che mi ha sollecitato a partecipare ai concorsi letterari, non mi sarei mai sognata di farlo, poiché consideravo le mie opere di nessun valore) spesso le stesse operano con la  pancia, invece che con la mente. In sostanza, vanno a simpatie, e spesso non possiedono un'adeguata preparazione. 

Quindi, umilmente, penso che certi premi ottenuti, io non li abbia meritati. 

Al contrario, ogni riconoscimento che lei ha ottenuto, ne è degno.  

Se le mie povere parole, nate di getto, sono state da lei gradite, ne sono felice. Ho scritto quello che il cuore mi dettava.

Le auguro di continuare a commuovere i suoi lettori, e che non venga mai a mancare la sua verve poetica.

Dicevo ad Alessandra che chi possiede doni speciali, artistici o di altro genere, ha il dovere di distribuirli al prossimo, al modo dei vasi comunicanti, non li deve tenere per sé, e neppure se ne faccia un vanto, sono elargizioni del Cielo, e lì salgono, come preghiera a Dio.  Sono omaggi che emozionano chi li riceve, sotto forma di scrittura, o di arti figurative. Saper scrivere, poetare, dipingere, scolpire o comporre musica, è qualcosa di meraviglioso. E lei possiede uno di questi splendidi doni. 

Spero anch'io di poter stringere la mano che ha vergato liriche di alto livello, la sua! 

Buon proseguimento e ad maiora! Con immensa stima.

Danila Oppio


sabato, luglio 24

RISPOSTA A P. MAURO ARMANINO di DANILA OPPIO


A Padre Mauro Armanino ho risposto così, aggiungendo qui qualche altra considerazione.

Ho già pubblicato sui miei due blog il tuo articolo, che mi ha profondamente colpito. La libertà è sempre stata una grande utopia. Se pensiamo alle guerre nella Storia dell'umanità, i soldati che partivano per il fronte erano obbligati da chi comandava, non importa se non erano disposti a uccidere "il nemico", se non volevano perdere la propria vita, semplicemente DOVEVANO. E in tutto il resto, anche oggi siamo obbligati ad aderire alle presunte leggi emanate dai vari governi, come quella del Green Pass (che possiedo, avendo ricevuto i due vaccini OBBLIGATORI). Scegliere la LIBERTÀ di non aderire, significa tagliarsi le gambe, non poter espatriare, partecipare a riunioni e congressi. Eppure, da quanto ho saputo, il Green Pass è anti-costituzionale, l'obbligo del vaccino lo stesso e mi sono presa dei grandi liscio e busso, da chi è No-Vax, no Green Pass, dicendomi che sono disinformata, che faccio parte del gregge dei poveri imbecilli che seguono certi dettami senza ragionare. Ho risposto che sono uscita dalla scuola di Garibaldi, e ho imparato a rispondere "Obbedisco". La contro risposta è stata: "Garibaldi era un tagliatore di teste!". Controbatto dicendo: Mi è stato detto che in questo modo siamo tutti registrati, controllati. Da tanto tempo siamo registrati ovunque: con i documenti come Carta d'Identità, Passaporto, all'Anagrafe, con la Tessera Sanitaria, e soprattutto, presso la Banca Dati Mondiale. Che novità sarebbe possedere un altro documento che attesta, in fondo, la libertà di potersi muovere a piacere, garantendo che non siamo contagiosi, e che soprattutto non vogliamo contagiare il nostro prossimo. Mi pare un gesto di civiltà, quello di vaccinarsi e di ottenere così il Green Pass. Ma sento che in Francia migliaia di giovani si sono ribellati a tale imposizione, così come leggo, se le notizie sono sincere, che i grandi raduni hanno rialzato i contagi in maniera esponenziale. Il timore di morire per una dose di vaccino può anche starci, ma senza quello, le morti per Covid sarebbero innumerevoli. So che i vaccini antivirali non sono stati a lungo testati, ma piuttosto che niente, è meglio piuttosto. 

Ho sempre seguito le norme igieniche, quelle indicate dal Ministero della Sanità, perché questo Covid ha fortemente colpito il mondo intero. Se esiste la speranza che i vaccini allontanino la possibilità di contagi, perché non accettare la probabilità (non dico certezza) di uscire da questo tunnel? Rifiutare il vaccino e il Green Pass significa, a mio vedere, dover vivere nella situazione di essere persone grandemente soggette al contagio, e a nostra volta, di essere portatori dello stesso. E a proposito di libertà, ho sempre tenuto in mente che la mia libertà finisce dove oltrepasso e calpesto la libertà altrui. Quindi, se non mi fossi vaccinata e richiesto il Green Pass, sono una potenziale calpestatrice del mio prossimo! 

Scusami, non so se sono stata in tema, seguire alcune regole, imposte sì, ma utili, penso sia segno di civiltà. Tenuto debito conto che la libertà personale di accettare o no certe regole, è indiscutibile, devo rassegnarmi alla libera scelta di chi non aderisce al vaccino,  che ha diritto di morire come desidera, ma  di far morire altri, non credo proprio, poiché si trasformerebbe in un potenziale assassino! 

Eccoti i link, ho "pescato" una bella foto, tra tantissime, dello scrittore-filosofo francese Glissant, per illustrare questo tuo interessante articolo che porta a riflettere.

http://ilparadisononpuoattendere.blogspot.com/2021/07/il-diritto-allopacita-filosofie-di.html

https://versiinvolo.blogspot.com/2021/07/il-diritto-allopacita-filosofie-di.html

Danila

IL DIRITTO ALL'OPACITÀ, FILOSOFIE DI SABBIA di P. MAURO ARMANINO

 

EDOUARD GLISSANT 

Il diritto all’opacità, 

filosofie di sabbia

…’Per questo io chiedo per tutti il diritto all’opacità. Non mi è più necessario ‘comprendere’ l’altro, cioè ridurlo al modello della mia propria trasparenza, per vivere con quest’altro o costruire con lui. Il diritto all’opacità sarebbe oggi il segno più evidente della non-barbarie’… Scriveva così, tra l’altro, Edouard Glissant, poeta, scrittore e saggista francese, originario delle Antille. Parole ancora più vere se messe nel contesto del ‘nuovo’ mondo nel quale, grazie anche all’invasività dei mezzi di comunicazione, tutto dev’essere visto e ‘compreso’ in tempo reale. La frontiera tra pubblico e privato è stata da tempo, almeno in Occidente, cancellata dalle confessioni pubbliche dei vizi e delle virtù di chi conta. Di riflesso, anche nel nostro continente che, a suo modo, cerca di resistere all’attacco incessante della ‘trasparenza assoluta’. Transparency International, ad esempio, è un’organizzazione non governativa che si occupa dell’ingiustizia della corruzione, non solo politica, in un centinaio di Paesi. Detta lodevole istituzione diventa, suo malgrado, come una parabola della strategia di rendere tutto ‘trasparente’, leggibile, comprensibile e soprattutto controllabile. Una società che, come quella occidentale, si avvicina paurosamente a ciò che ha ripudiato nel recente passato: la dittatura attraverso il sistema di controllo dei propri cittadini.

In Africa, come in altre parti del Sud del mondo, il colonialismo si veste e si presenta in modo differente ma, nella pratica, ribadisce il principio guida che lo anima da sempre: perpetuare il potere di dominazione sull’altro. Ciò si articola tramite i tecnici dello sviluppo e delle ‘religioni’, antropologi assoggettati e funzionali al sistema, organismi internazionali che vincolano gli aiuti e i progetti al pensiero unico egemonico dell’interesse. Alla base di tutto ciò si trova quanto Glissant afferma nel testo sopra citato e cioè la ‘riduzione’ dell’altro al modello della mia ‘trasparenza’. Adeguare l’altro al tipo di interpretazione del mondo che considero l’unica possibile e necessaria. Gli studi, i piani di sviluppo, le ricerche, le indagini e financo i più sinceri tentativi di avvicinamento culturale, risulteranno come viziati da questa postura, autentico ‘peccato originale’ di chi possiede il potere dello sguardo e della parola. Smarrito lo sguardo contemplativo, che ‘accarezza’ la realtà, sapendola più grande di sé, da rispettare nel suo silente mistero, si preferisce lo sguardo del ‘mercante’. Questa figura non è in sé banale perché è ciò che ha guidato, almeno in buona parte, le conquiste, i possedimenti, gli imperi e le guerre come conseguenza. Lo sguardo del mercante possiede come degli artigli che usano la realtà, persone e cose, da conoscere per sfruttare. L’idea della conoscenza come potere ha prodotto il mercante di cui anche la scienza è ormai una componente essenziale. Strada facendo abbiamo dimenticato che la conoscenza è fatta per contemplare la verità originaria da scoprire. Abbiamo smarrito questa maniera di conoscere e siamo diventati dei commercianti. 

L’altro potere è quello sulla parola, un potere che crea e profana allo stesso tempo la realtà. Il potere di dichiarare una guerra, per esempio quella sanitaria, che si dice di ‘combattere’ in certe parti del mondo o di dichiarare uno stato permanente di urgenza temporanea. L’ordine di abbigliarsi con indumenti che, come le maschere, rendono solo più trasparente il regime nel quale si è costretti a vivere oggigiono, in alcune parti del globo terrestre. Si maschera il volto e, nel contempo, si smaschera il sistema che ordina i coprifuoco, i giorni possibili di preghiera e il numero di persone a tavola per un giorno di festa. Perché la parola abbia l’effetto sperato c’è dunque bisogno della trasparenza dell’immagine. Per questo ci sono le forze di polizia,  telecamere in ogni angolo di strada, i droni a volteggiare e se questo non bastasse, i vicini di casa che, zelanti come sempre, denunceranno le infrazioni alla buona condotta imposta da leggi e decreti senza fine. 

Ecco perché, di fronte allo sguardo che riduce l’altro a cosa e alla parola che lo umilia, qui si rivendica l’opacità. Il senso del mistero della vita, il ritorno e il ricupero delle iniziazioni in parte dimenticate o tradite, il segreto nelle parole che solo il rispetto può cogliere nel profondo, il silenzio dinnanzi al mistero della vita e la prossimità nel tempo del dolore e della morte, i legami con coloro che ci hanno preceduto e la paziente tessitura dei fili sottili che costituiscono la trama delle relazioni umane. L’opacità per evitare la barbarie.

 Mauro Armanino, Niamey, 25 luglio 2021


LE MARGHERITINE GIALLE di RENATA RUSCA ZARGAR

 



STORIE DELLA VITA E DEL MONDO

Le margheritine gialle

Tempo fa, sulle nuvole, abitavano migliaia e migliaia di margheritine gialle.
La vita per loro era serena e tranquilla ma, giorno dopo giorno, qualcuna scendeva sulla terra e spuntava nei prati verdi e profumati dalla primavera. 
Ogni margheritina incominciava così una nuova esistenza e non ricordava più nulla di quella precedente.
Dimenticava anche tutte le compagne che aveva lasciato lassù, ma loro, invece, potevano vederla e desideravano, così, intensamente, di raggiungerla. 
Tra quei fiori, arrampicati in cielo, in mezzo a fiocchi di nubi bianche e rosa, ve ne erano quattro che giocavano sempre insieme, sulle ali del vento.
Un giorno, però, la più adulta, animata da un grande spirito di avventura e curiosa di conoscere il nuovo mondo, decise di scendere sulla terra. 
Nacque, dunque, nel terreno al limitare di un grande e folto bosco. 
La seconda, che l’amava tanto, la seguì in poco tempo, mentre le due più piccole rimasero ancora lassù, a giocare e aspettare.
Le due margherite sulla terra si trovavano molto bene: il terreno era umido e nutriente, intorno c’era la compagnia di mille e mille fiori di campo sensibili e odorosi, e, quando cadeva la pioggia, le fresche gocce battevano sulle corolle in modo abbastanza gentile. 
A sera, poi, si addormentavano poggiando insieme il capino su una grande foglia, lucida e morbida come un cuscino.

Proprio al loro fianco, viveva un grande pino verde di nome Verpì che, nelle sere di luna piena, raccontava, alle mille orecchie in ascolto, storie della vita e del mondo. 
Il suo tronco possente e i suoi rami nodosi si allungavano intorno come a proteggere le numerosissime piccole creature viventi, i suoi aghi lunghi e appuntiti non si rivolgevano minacciosamente verso nessuno ma, uniti in mazzettini nitidi e ordinati, oscillavano lentamente al vento tenue della sera, quasi a rinfrescare l’aria. 
Verpì era là da moltissimo tempo: le stagioni si erano susseguite belle e brutte dal lontanissimo giorno in cui un bambino era andato nel bosco a piantarlo nella terra fertile insieme a molti altri compagni. 
I pini, prima giovani e deboli e poi sempre più forti e robusti, erano cresciuti baciati dal sole e avevano allungato le loro radici sempre più a fondo nella terra, rendendola solida e sicura. Si facevano tanta buona compagnia, scherzavano e ridevano, qualche volta piangevano, come tutti i piccoli del mondo. 
Avevano imparato molto, anno per anno, avevano fatto i loro frutti, le pigne, e i loro semi, i pinoli, si erano sparsi all’intorno. Così altre piante erano nate, cresciute, avevano allargato i rami verso il cielo e allungato le radici nella terra. 
Ma su tutti loro, svettava Verpì, il più alto, folto, verde, ma, soprattutto, ormai, il più vecchio. 
Molti suoi compagni di quel giorno lontano in cui una classe di studenti era uscita da scuola per andare nel bosco a interrare tanti alberelli non c’erano più. 
Qualcuno era stato abbattuto dai fulmini che saettavano a volte nel cielo in tempesta, qualche altro era stato tagliato dall’uomo al quale serviva la legna, qualcuno si era ammalato… 
Allora erano ritornati lassù, sulle nuvole, in attesa di nascere un'altra volta ancora sulla terra ad abbellire la campagna, a profumare l’aria, a rendere il terreno compatto…
Ma Verpì era sempre lì, forte e antico, possente e delicato, tenero e affettuoso, come un anziano nonno che dona sapienza ed esperienza a chi deve ancora crescere.
L’albero annoso e saggio, infatti, ormai sapeva quasi tutto della terra e del cielo, osservava le creature del bosco e del prato, le proteggeva, accompagnandole nel cammino lungo o breve della loro esistenza, spiegava loro i misteri della vita e dei cambiamenti di stato. 
Infine, veniva la sera: il vento soffiava dolce sui prati verdi, i fili d’erba a tratti si chinavano radenti il suolo, poi si rialzavano verso il cielo finché un nuovo soffio tiepido faceva loro baciare la terra.
Qualche volta, invece, lontano, dal mare, arrivavano dense nuvole scure. Il sole si avviava allora dietro i monti lentamente, mentre qualche nube a forma di fiore nascondeva il suo cammino. 
All’alba, poi, tutto riprendeva: tornava la luce con il calore mentre mille e mille cuoricini di fiori e mille e mille steli di piante aprivano i loro occhi addormentati.

Verpì, osservando le minuscole margheritine gialle, aveva capito, intanto, che ai due fiorellini, seppur sereni e amorosi, mancava qualcosa. E fu così che consigliò loro di chiamare la terza margheritina. 
Ciò avvenne: un bel mattino, quando il sole brillava già alto nell’intenso azzurro del cielo, si accorsero che essa era spuntata e si offriva alla brezza di primavera con i piccoli petali vellutati e morbidi. 
Da quel giorno, la vita fu felice: i tre fiori stavano sempre insieme e giocavano, senza saperlo, così come avevano fatto nel passato. Ogni tanto, però, quando scendeva la sera e il sole si coricava dietro i monti, incendiando il celeste del cielo di riflessi arancio e rossi, la più piccola, prima di chiudere la corolla e addormentarsi, interrogava il pino:
-Dov’ero io prima di nascere?
-Cara Margy, - così si chiamava il fiorellino- eri lassù, in cielo, a giocare con i fiocchi di nuvole che si spostano spinti dalle gote del vento.- rispondeva il pino, aggiustandosi i lunghi aghi verdi.
-E la mia mamma e il mio papà, dov’erano?
-Anch’essi, prima di nascere, erano lassù, poi vennero sulla terra, qui nel prato, e pensarono tanto a te che pure tu giungesti qui.
-Ah, va bene! Sono stata desiderata da mamma e papà, li ho resi felici con la mia venuta. - concludeva il fiorellino e, sorridendo beato, posava la corolla sullo stelo e si addormentava.
Purtroppo, però, lassù, in cielo, l’ultima delle quattro margherite, Margina, era rimasta sola e piangeva:
-Perché non fate venire anche me con voi? Perché mi avete abbandonata? -
Ma nessuno poteva udirla e anche il pino sapiente si era dimenticato di lei perché, in questo mondo, non si può proprio sapere tutto! 

I giorni trascorrevano, dunque, veloci; i fiori del prato crescevano e imparavano sempre più cose dell’esistenza. Ora capivano anche che, in seguito, avrebbero fatto ritorno al luogo dal quale erano venute e avrebbero giocato beate per tutta l’eternità. In questo modo vivevano tranquillamente il loro tempo.
Solo Margy, qualche volta, sentiva dentro di sé come un richiamo, l’eco di una voce lontana che non si rassegnava e aveva fretta di incominciare una nuova vita tanto desiderabile.
Per questo desiderio nascosto, finalmente, anche Margina trovò la forza di raggiungere le compagne e spuntò una mattina vicino vicino alla sorellina.
Ormai, la famiglia sembrava perfetta, riunita ai piedi del saggio Verpì che, alla sera, novellava ancora favole sull’esistenza e sul mondo. 

Renata Rusca Zargar