Vita e destino del Sahel
Non smetteva di piangere. Attaccata a sua madre continuava a lamentarsi per fame, sonno e stanchezza. Maria Paola non avrebbe dovuto esserci. Lei, frutto di uno stupro operato da militari o sedicenti tali, nel Cameroun travagliato da anni di insofferenze politiche e spinte autonomiste nella parte anglofona del Paese. Sua madre la stringe a sè e racconta che ha scelto di farla vivere in lei per i mesi necessari alla nascita perché crede in Dio che dice di non uccidere. Le avevano detto che non avrebbe rimpianto di farla nascere, un giorno. Lei ha tre figli di tre padri differenti perché il primo è morto, il secondo se n’è andato perché non ha riconosciuto la sua paternità e il terzo è quello che l’ha violentata. Maria Paola si addormenta perché il pianto e il calore di sua madre l’hanno cullata. Poteva non esserci, stamane, quando sua madre è passata per raccontare la sua vita di rifugiata con tre bambini a cui accudire. Senza un padre che le stia accanto, una casa degna di questo nome e un futuro fatto di frammenti umanitari da incollare.
Abdal ha perso la sua famiglia a causa della guerra che la malattia chiamata Ebola ha scelto di combattere nel suo Paese, la Sierra Leone, in Africa Occidentale. E’ un Paese inventato dal nulla per dare una terra agli schiavi africani resi liberi da un decreto di sua maestà il re d’Inghilterra del 1792. La guerra civile degli anni novanta, con amputazioni e massacri inenarrabili, hanno reso i diamanti del Paese ancora più insanguinati. Abdal, dopo aver valutato i messaggi su ‘Facebook’ di alcuni compatrioti, opta per la migrazione in Algeria, dove sembra che ci siano lavoro, soldi e possibilità di un destino migliore. Dopo Gao, nel Mali, è naturalmente fatto prigioniero dai gruppi di banditi ribelli che estorcono denaro ai migranti in transito. Terminati i due mesi di detenzione e pagato il riscatto di 300 dollari, Adbal arriva finalmente in Algeria e da Adra passa nella città di Oran dove, con altre decine di migranti dell’Africa subsahariana, lavora in un cantiere edile. In questa città i cinesi costruiscono un nuovo stadio e lo pagano regolarmente, col vitto assicurato, a 1 200 dinari al giorno. Decide poi di raggiungere la capitale e impara il mestiere di piastrellista.
La madre di Maria Paola, bimba di un anno e mezzo e innocente frutto di una violenza di cui lei ancora non sa nulla, cerca un altro lavoro. Quanto riceve dall’Alto Commissariato per i Rifugiati (HCR) non arriva a soddisfare i bisogni dei tre figli senza padri. Si era impegnata, come donna di pulizie, nella casa di una signora dal mattino a sera, che naturalmente la sfruttava. Si è licenziata ieri e cerca lavoro, formazione, consiglio, riconoscimento e soprattutto l’opportunità di ricostruire la sua vita spezzata dal destino. Il Niger, Paese più giovane e più povero del mondo, si è trasformato in questi ultimi e convulsi anni, in terra di transito e di rifugio per migliaia di persone le cui radici sono state divelte. La madre di Maria Paola, fuggita dal suo Paese perché perseguitata, ha raggiunto il Niger perché ha saputo che qui l’HCR offre possibilità che altrove non esistono. Lei, la madre, torna alla casa di asilo con la bimba che dorme appesa al suo dorso.
Abdal, ormai con un mestiere, ha trovato lavoro in un cantiere della capitale Algeri. Nel ricuperare del materiale cade con un amico dal settimo piano dell’immobile. Rimane sei mesi all’ospedale mentre il suo compagno muore sul posto. Con una colletta di amici riprende il viaggio di ritorno che si ferma, almeno per ora, a Niamey. Abdal, operato più volte, mostra le cicatrici ritagliate sul suo corpo e si muove con una stampella. Dice che tornare al suo Paese, dove non c’è più nessuno, è inutile. Abbisogna di una visita specialistica ed è incapace di lavorare. Abdal ha 27 anni e una stampella per puntellare il suo destino.
Mauro Armanino, Niamey, 4 luglio 2021
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