Ho appena aperto il mio programma di posta elettronica e mi sono reso conto di ricevere molta posta inutile. Siccome è possibile scegliere se ricevere oppure no i messaggi di posta da parte di specifici siti web, ho incominciato a spulciare le e-mail alla ricerca del collegamento per la mia cancellazione dalle varie liste di invio o di inoltro.
Ho così scoperto delle parole molto strane. La prima è “disiscrizione” che vorrebbe essere la traduzione del termine inglese “unsubscribe” e richiama la funzione di rimozione dalla lista specifica: sarebbe bastato scrivere “Cancellazione dalla mailing list [o meglio dalla listo di invio o dalla lista di posta elettronica]” senza inventare questo orribile neologismo. Alla stessa categoria appartengono i termini “disiscrivimi” e “disiscriviti”. Una volta scelta l’opzione di cancellazione, il programma di posta mi conduce ad una pagina del sito internet relativo che mi chiede: “Sei già membro? Allora ti devi loggare”! Non so a quale membro ci si riferisca ma sarebbe stato più elegante scrivere: “Sei già un nostro iscritto? Se sì, fatti riconoscere per poter accedere [al sito].” Digito la password [ lettore, che ne diresti di “Parola chiave?”] e mi cancello dalla lista di invio. Spulcio così molti messaggi e ne trovo alcuni in cui anche i sostantivi comuni sono tutti scritti con l’iniziale maiuscola. Mi vengono in mente i termini “default” del vecchio MS-DOS e “formattare” per arrivare al “mouse” di Windows. Con “default” si intendeva dire che se l’utente non avesse scelto tra i parametri o le scelte a sua disposizione il sistema [l’MS-DOS, appunto] avrebbe scelta quella predefinita al momento della fabbricazione [quindi, predefinito]. Oggi lo stesso termine viene applicato ai bilanci degli stati e si potrebbe rendere con “fallimento” o “crac”. “Formattare” è l’operazione preparatoria di un disco per computer prima di potervi scrivere o leggere, si potrebbe rendere con “Formare il disco o dare il formato al disco”. Il “mouse” è chiamato “souris” dai francesi e “maus” dai tedeschi: entrambi i termini, nelle due lingue, significano “topo”, perché noi non dobbiamo tradurre questo termine ed adoperare quello inglese? Ma dove le parole rappresentano proprio un dolce stil novo è nelle frasi un poco più articolate: qui scopriamo l’italiese [Ital(iano) – (Ingl)ese]. Un telegiornale ha presentato un giornalista eccitato che riferiva l’arrivo della polizia nella piazza principale della città “per l’ordigno esploso”, voleva dire “dove era esploso un ordigno”, mentre un altro giornalista faceva da controcanto dicendo che era stata approvata la legge sulla prostituzione del governo [voleva dire la legge del governo riguardo alla prostituzione]. Ma anche le migliori riviste non rifuggono da questo dolce stil novo: vediamo un esempio tratto da “Le Scienze” edizione italiana di “Scientific American”. In un suo articolo di qualche anno fa in cui si parlava di cefalee troviamo la chicca: “l’onda di depolarizzazione propagata...” invece di “la propagazione dell’onda di depolarizzazione...” e così via all’infinito in tanti articoli di riviste e giornali “tradotti [sic!]” dall’inglese. In una conferenza, un professore dell’Università di Napoli, mi fece vedere una diapositiva di un preparato tiroideo “magnificata” [in inglese “to magnify”, “ingrandire”] 100 volte. Invece, un cardiologo, candidamente dichiarava di impiantare “devices” [dispositivi] antiaritmici. Un professore universitario di chimica inorganica ha scritto numerosi documenti pdf un po’ in inglese ed un po’ in italiano. Che didattica! Ma la cosa sorprendente è andare al bar e vedersi servire il caffè su piattini recanti le scritte: “That’s your coffee” e “The art of Espresso”. Possibile che non esistono espressioni italiane parimenti significative o suggestive? E che dire delle magliette con serigrafie in inglese (a volte pure sbagliate) il cui significato è sconosciuto a chi le indossa? E che dire delle traduzioni automatiche che ci propinano sui siti internet e che fanno orrore?
Silvio Coccaro
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