PARLIAMO DI MOSTRI
Dialogo virtuale intercorso tra Roberto Vittorio Di Pietro, Danila
Oppio, Jorge Luis Borges e qualche favolista.
Parola del giorno proposta da RAI Radio3 l’8 gennaio 2018, che
vuole riallacciarsi al Frankenstein di Mary Shelley.
Circa la parola MOSTRO, è bene ricordare lo splendido racconto di
Borges dedicato ad Asterione: un Minotauro raffigurato come “diverso” per
antonomasia, ferito dal disprezzo e dalla paura del prossimo: un “mostro”
profondamente bisognoso d’affetto, il quale da ultimo si lascia uccidere da
Teseo con la speranza di poter trovare perlomeno nell’oltretomba quanto gli è
stato negato in sorte su questa terra.
Roberto Vittorio Di Pietro
Protagonista del racconto di Borges è Asterione,
un’inquietante figura fantastica che vive un’esistenza solitaria in una casa
dalla struttura intricata. Temuto da tutti per la sua diversità, vive relegato
nel labirinto lamentandosi della sua solitudine e auspicando che prima o poi
qualcuno giunga a salvarlo e a liberarlo dalla sua condizione. Riflettendo
sulla propria vita cerca di smentire le credenze che circolano su di lui.
Nonostante sia una figura del mito, mette in discussione il mito stesso.
Asterione sostiene di non essere prigioniero del labirinto ma di avere lui
stesso scelto l’isolamento a causa del senso di terrore che il suo aspetto
suscita negli uomini. Mentre analizza se stesso si contraddice più volte a
proposito della frequentazione degli uomini, della lettura, delle distrazioni
che ha nella casa-labirinto. Per ideare il racconto lo stesso Borges ha
affermato di essersi ispirato al dipinto Il Minotauro, del
pittore inglese George Frederic Watts, che ha rappresentato un mostro
riflessivo e assorto mentre contempla l’orizzonte. Qui sotto il dipinto.
So che mi accusano di superbia,
e forse di misantropia , o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento
giusto) sono ridicole. È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le
porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e
agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi né la splendida
pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. E troverà una casa come non ce
n’è altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce n’è una
simile.) Perfino i miei calunniatori ammettono che nella casa non c’è un solo
mobile. Un’altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero.
Dovrò ripetere che non c’è una porta chiusa, e aggiungere che non c’è una sola
serratura? D’altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se
prima di notte tornai, fu per il timore che m’infondevano i volti della folla,
volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato,
ma il pianto accorato d’un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che
mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava ; alcuni si
arrampicavano sullo stilobate del tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano
pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una
regina; non posso confondermi col volgo, anche se la mia modestia lo vuole. La
verità è che sono unico. Non m’interessa ciò che un uomo può trasmettere ad
altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato
attraverso l’arte della scrittura. Le fastidiose e volgari minuzie non hanno
ricetto nel mio spirito, che è atto solo al grande; non ho mai potuto ricordare
la differenza che distingue una lettera dall’altra. Un’impazienza generosa non
ha consentito che imparassi a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i
giorni sono lunghi. Certo, non mi mancano distrazioni. Come il montone che
s’avventa, corro pei corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla
vertigine. Mi acquatto all’ombra di una cisterna e all’angolo d’un corridoio e
giuoco a rimpiattino. Ci sono terrazze dalle quali mi lascio cadere, finché
resto insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fare l’addormentato,
con gli occhi chiusi e il respiro pesante (a volte m’addormento davvero; a
volte, quando riapro gli occhi, il colore del giorno è cambiato). Ma, fra tanti
giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch’egli venga a farmi
visita e che io gli mostri la casa. Con grandi inchini, gli dico: “Adesso
torniamo all’angolo di prima,” o: “Adesso sbocchiamo in un altro cortile,” o:
“Lo dicevo io che ti sarebbe piaciuto il canale dell’acqua,” oppure: “Ora ti
faccio vedere una cisterna che s’è riempita di sabbia,” o anche: “Vedrai come
si biforca la cantina.” A volte mi sbaglio, e ci mettiamo a ridere entrambi. Ma
non ho soltanto immaginato giuochi; ho anche meditato sulla casa. Tutte le
parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci
sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le
stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo.
Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi
di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il
mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i
templi sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due
cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l’intricato sole; in
basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme
casa, ma non me ne ricordo. Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini,
perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai
corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi
minuti. Cadono uno dopo l’altro, senza che io mi macchi le mani di sangue. Dove
sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli
altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò, sul punto di morire,
che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da allora la solitudine non mi
duole, perché so che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere.
Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi
passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio
redentore? Sarà un toro o un uomo? Sarà forse un toro con volto d’uomo? O sarà
come me?
Il sole della mattina brillò
sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue. “Lo crederesti,
Arianna?” disse Teseo. “Il Minotauro non s’è quasi difeso.”
Jorge Luis Borges, L’Aleph, Milano,
Feltrinelli, 1959
Lirica che è già stata pubblicata in questo blog in data 18 novembre 2017 ma che riporto volentieri perché in argomento.
V CAPITOLO
L'Amministratore del Blog si scusa per l'imperfetta riproduzione della lirica, ma
per poter rendere leggibili i versi, si è dovuto ingrandire il testo il quale,
di volta in volta, non rispetta gli identici parametri.
Pensando alle figure mitologiche, viene alla mente anche il testo di alcune
fiabe dove i mostri o strane creature regnano sovrane. Per esempio:
La bella e la bestia
(titolo
francese: La belle et la bête) è una famosa fiaba europea,
diffusasi in molteplici varianti, le cui origini potrebbero essere riscontrate
in una storia di Apuleio, contenuta ne L'asino d'oro (conosciuto
anche come Le metamorfosi) e intitolata Amore e Psiche. La prima
versione edita fu quella di Madame Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve,
pubblicata in La jeune américaine, et les contes marins nel 1740.
Altre fonti, invece, attribuiscono la ricreazione del racconto originale
a Giovanni Francesco Straparola nel 1550. Un racconto che potrebbe
essere stato ispirato da una storia vera avvenuta sulle sponde del Lago di
Bolsena, in provincia di Viterbo. La versione più popolare è, tuttavia, una
riduzione dell'opera di Madame Villeneuve pubblicata nel 1756
da Jeanne-Marie Leprince de Beaumont nel Magasin des
enfants, ou dialogues entre une sage gouvernante et plusieurs de ses élèves.
La prima traduzione, in inglese, risale al 1757.
Numerosi sono gli
adattamenti e le trasposizioni di questa fiaba conosciuti in
tutta Europa.In Francia, per esempio, nel 1771 fu scritta
da Marmontel e composta da Grétry la versione lirica
de La bella e la bestia, basata sulla storia di Mme Leprince de
Beaumont e dal titolo Zémire et Azor, che riscosse enorme successo
anche nell'Ottocento.
È datata 1742, invece,
l'opera drammatica Amour pour amour di Nivelle de la Chaussée,
sempre ispirata a questa fiaba.
Se vogliamo ben vedere, anche il
Principe Ranocchio è un essere umano tramutato per incantesimo in un animaletto,
che solo un bacio d’amore avrebbe fatto ritornare quello che era. In queste fiabe, si denota il bisogno d’affetto di ogni essere vivente, che sia
normale o definito impropriamente “diverso”. A mio parere, più si mantengono le distanze da chi non ha quelle che riteniamo caratteristiche classiche o credute tali, più lo si isola, o lo si costringe ad auto-isolarsi, esattamente come il Minotauro di Borges. E s'imbruttisce, abbrutisce e…imbestialisce. Solo facendo cadere le bende che
oscurano l'orizzonte e impediscono di "vedere" con occhi amorevoli, si potrà
“slegare dal giogo della solitudine e dell’incomprensione” chi crediamo lontano dal nostro canone o modello di umanità.
Danila Oppio
Nessun commento:
Posta un commento