L’ULTIMA LACRIMA
Ieri, ho capito che il mio percorso sulla Terra è finito.
Ormai, non riesco quasi più a parlare, faccio fatica a respirare nonostante l'ossigeno, e la mia pancia è diventata gonfia.
Immagino che mi abbiano dato la morfina perché non provo più dolore. Però, non voglio chiedere perché saperlo, intanto, non mi servirà a nulla.
Fino a qualche giorno fa, ho creduto ancora di farcela, di poter guarire, almeno un po', di rimanere qui, tra le cose che amo…
Giro lo sguardo verso lo schermo della televisione che hanno lasciato acceso per farmi svagare. Vedo scorrere bellissime donne, eleganti, che vivono, festeggiano, sono felici… È la pubblicità di qualche vino o profumo, non so, ma anch’io vorrei festeggiare ancora, vestirmi, chiacchierare, desiderare…
Invece, sono qui, sdraiata nel letto e non riesco a fare più nulla.
“O guarisco o è finita.” avevo pensato solo un paio di settimane fa. Ma, credevo, in fondo, che ce l'avrei fatta.
Come tante altre volte, il medico avrebbe trovato il modo di rimettermi in piedi.
“Forse, non sarò attiva come prima.” avevo ragionato allora “Forse, avrò bisogno di aiuto. Le riunioni dei collaboratori – dirigo una piccola associazione di volontariato- le faremo qui, in casa mia, invece che in sede. Ma io potrò ancora dare le indicazioni per le attività da portare a termine, potrò ancora essere punto di riferimento per gli altri...”
Dalla finestra aperta, verso il cielo, posso scorgere la luna. È l'ultimo quarto, l'ultima fetta arancione che si muove nel blu profondo. Intorno, qualche stella. Poi, la luna scompare, nascosta da una nuvola.
E riappare.
Lassù, nell'universo, ci sarà un posto anche per me?
O tutto di me sarà solo cenere?
Ricordo quel giorno.
Prima la mammografia. Poi, la biopsia. Infine, il responso.
- Dobbiamo operare al più presto.
- Non posso. - avevo risposto.
Non potevo lasciarlo solo. Stava morendo. Aveva bisogno di me. Lui era stato il mio fedele compagno, mi aveva dato la sua vita, mi aveva sostenuta nei miei progetti, mi aveva accompagnato in ogni attività.
Ora non potevo abbandonarlo.
- Saranno pochi giorni di ospedale. La convalescenza la farebbe a casa. - mi aveva spiegato il chirurgo.
- No, non lo lascerò solo. Neppure per pochi giorni. In tanti anni di vita insieme, lui non si è mai allontanato.
Ho fatto un sogno. Avevo scoperto di essere probabilmente incinta anche se non avevo più l'età. Come era potuto succedere?
Perché il mio corpo era vigoroso, straordinariamente vigoroso.
Cosa fare? Tenere il figlio o no? Ce l'avrei fatta a superare la fatica del parto? Avrei saputo ancora gestire un bambino piccolo?
Mi sentivo bene come nei momenti in cui facevo ginnastica a suon di musica sul tappetino elastico, avevo ritrovato quella forza ed ero felice.
Dunque, potevo farcela: tenere quel figlio, partorire... L'età non contava nulla.
Poi, mi ero svegliata. Era solo un sogno.
Non avrei più partorito e neppure fatto fitness a suon di musica.
L’intervento chirurgico era stato, dunque, rimandato di molti mesi. La malattia, invece, non si era fermata: aveva invaso il mio corpo con le sue truppe agguerrite e indifferenti alle leggi dell’amore.
E adesso sono qui, nel letto, nelle mie ore finali.
Mi rimane un rimpianto: la pubblicazione del mio ultimo romanzo, “La pianta del ricordo”, che sarebbe uscito a breve.
Non lo vedrò mai.
Non toccherò mai la bella copertina lucida a fiori che avevo immaginato, non sentirò l’odore di quella carta dove sono stampate le parole uscite dalla mia penna virtuale, non avrò mai più quel brivido di felicità e soddisfazione per aver ultimato un lavoro.
Non saprò mai se sarebbe piaciuto ai miei lettori o no.
È troppo tardi, infine. Tardi per tutto.
Sarò parte inconsapevole dell'intero universo tra poche ore.
Un soffio di aria fresca entra dalla finestra aperta.
È come una carezza, l’ultima.
Sento, allora, una lacrima scivolarmi giù per una guancia.
L’ultima lacrima.
Renata Rusca Zargar
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