POETANDO

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giovedì, giugno 8

ONEIRIKOS - Recensione di Roberto Di Pietro



Avevo inviato una copia del mio nuovo romanzo al poeta e critico letterario professore Roberto Vittorio Di Pietro, perché mi potesse dare un parere spassionato sul testo. 


Stamane ho ricevuto una sua dettagliata recensione, che mi ha profondamente commossa. Non speravo tanto, e sono lieta di condividerla su questo sito. 

Danila Oppio






(Per la stimata Danila Oppio:

qualche riflessione orientativa,o poco più)



Con questa sua recente pubblicazione, Danila Oppio conferma appieno lo straordinario estro creativo che senza dubbio le è proprio: quella dote singolare che il personaggio fittizio di Adam (dietro il quale traspare la figura concreta di un saggio interlocutore/mentore da lei sinceramente apprezzato e perciò interpellato con indefettibile fiducia nella vita reale) senza alcuna amichevole piaggeria, non esita a volerle giustamente riconoscere.

Anziché impegnarsi pedissequamente nella redazione di un’ennesima autobiografia più o meno romanzata, indulgendo così ad una fisima oggigiorno consueta e, nelle motivazioni come nelle risultanze, spesso di opinabile utilità e di scarso pregio letterario, la Oppio si abbandona alla stesura di un’opera anch’essa di taglio “confessionale”, ma di tutt’altro spessore, degna della sua sensibilità e delle sue non comuni attitudini inventive: un romanzo sui generis, tanto più ancorato nella travagliata realtà storico-sociale contemporanea, laddove più sembra ammantarsi di svagate finzioni dell’intelletto e del cuore: una vera e propria "fuga a più voci” che, nel fitto alternarsi dialogico/citazionistico in cui consiste il libro, da un capo all’altro trasuda inconfondibile genuinità di ispirazione, e che di schietti sentimenti, intrinsecamente “poetici”, può ben dirsi costellata.

Ma dove viene a collocarsi letterariamente un’opera di questa fatta?

Della letteratura postmoderna in genere, e dei basilari indirizzi stilistici che la contraddistinguono, ho già parlato diffusamente altrove; oltre ad aver segnalato (in alcuni miei “appunti” estrapolati dalla saggistica di Michail Bachtin) una serie di  precipui antecedenti (dialogo socratico, satira menippea, romanzo polifonico,“carnevalizzazione” letteraria) ai quali il postmodernismo direttamente o indirettamente si richiama. Ebbene, per quanto concerne l’impostazione complessiva di questo exploit di Danila Oppio, e per gli svariati rimandi culturali che vi si trovano espliciti o sottintesi, oserei affermare che l’autrice si affianca, per non pochi rilevanti aspetti, proprio a quel particolare filone letterario—e, in questo caso, il fatto che a guidarla in quella direzione sia stata una poiesis eminentemente istintiva piuttosto che una consapevolezza critica in materia, è da ritenersi un punto di forza e di sicuro merito; e ciò sia detto con buona pace di quegli scrittori che, mentre da un lato sono indotti, tutt’altro che ingiustamente, a considerare imprescindibile il momento apollineo (tecnico/razionale) della creazione letteraria, dall’altro tendono a sminuire (o ignorare? talvolta) l’importanza non certo minore della scintilla dionisiaca che è prima scaturigine di ogni autentica Arte. Ecco perché dove, in una sorta di breve premessa, l’autrice ama rivelarci che”il romanzo è nato quasi per gioco, un esperimento condotto per mano, mentre la storia proseguiva…plasmato come un vaso d’argilla,” sarebbe riduttivo scorgere un’ammissione di puro e semplice spontaneismo. Sempre che lo stato d’animo in cui l’autrice confessa di avere operato possa ancora definirsi in prevalenza “dionisiaco”(passionale/metarazionale), occorre comprendere come l’ebbrezza procurata dal quel dio non obnubili i sensi bensì ne esalti positivamente alcune superiori facoltà percettive.   A riprova, per quel che può valere una scanzonata battuta di spirito proposta in una vignetta d’autore che mi è capitato di leggere, eccone un pochino illustrato il succo: “Sarò pure fuori come un balcone, ragazzi, ma vi rispondo che da qui si vedono mooolto meglio le stelle…”


“Un appassionato omaggio ai nobili valori della solidarietà umana e delle più profonde affinità elettive, di per sé desiderose di alimentarsi nella convivialità costruttiva delle coincidenze e delle divergenze d’opinione”: così mi sentirei di compendiare il tracciato ideale di questo pregevolissimo libro. E lo farei, credo, a ragion veduta: se è vero che secondo Carl Gustav Jung (a volergli dare giusto credito…ma resti pur sempre al lettore volenteroso il compito di ogni miglior verifica anche in questo caso), la più portentosa delle leggi psicologiche l’avrebbe scoperta Eraclito proponendoci la cosiddetta ”enantiodromìa”. Una parolaccia, specie per noi, solo mostruosa e impenetrabile? Secondo una lezione del citazionismo postmoderno, anch’essa piuttosto proficuamente provocatoria, invece. (Lucrezio diceva bene che Eraclito risultò oscuro - lo skoteinòs per antonomasia! -  solamente agli stolti, non già a quei savi che avevano a cuore la ricerca della Verità. Ed Eraclito, per parte sua, forse non a caso asseriva che “i cani abbaiano a quelli che non conoscono”.)
Si tratta più semplicemente della funzione regolatrice che scaturisce  dal reciproco convergere di ogni creatura verso l’altra; per cui in ogni rapporto dialettico verrebbe via via ad instaurarsi e rinnovarsi un  equilibrio di per sé edificante, di volta in volta appagante, seppure non risolutivo.   In questi termini psicologici, la nota concezione eraclitea di “polemos” (guerra) come motore vitale non comporterebbe uno sterile confronto/scontro, bensì un benefico processo di scambio osmotico perenne fra le controparti: e come non condividere, dato che, passo dopo passo nell’evoluzione del suo romanzo, Danila Oppio ce ne fornisce istintivamente una magnifica prova ovunque palpabile. 
  

Passiamo ad altre buone osservazioni. Il Canto XVIII del Purgatorio (che qui trovo citato) è quello in cui, fra l’altro,  Virgilio spiega a Dante l’essenziale distinzione da doversi fare fra l’amore inteso come trasporto dei sensi (eros) e quello più propriamente spirituale (agape). Una distinzione di per sé banale e scontata, si dirà, se è vero che persino nelle canzonette più becere si insegna a non “confondere il sesso con l’amore”. Se non fosse che, tornando al Divin Poeta, dalla malaugurata confusione di questi concetti nascerebbe “l’error dei ciechi che si fanno duci.” Una citazione questa che, così estrapolata e avulsa dai versi precedenti e successivi del Canto, a ben pensarci potrebbe calzare a pennello come esergo addirittura per l’intero romanzo di cui ci stiamo occupando, dato che  ne riprenderebbe, riassumendolo alla perfezione, il massimo assunto filosofico-morale intorno al quale tutto il resto ruota.
Si sa invece che, nel contesto particolare, Dante intendeva denunciare una “cecità” attribuibile ai quei teorici dell’amore che furono alcuni specifici poeti delle origini fra cui gli stessi precursori dello stilnovismo (Guinizelli, Cavalcanti):”duci” fuorviati e fuorvianti, dai quali desidera prendere nettamente le distanze. Ma nel citazionismo letterario postmoderno, tipicamente eterogeneo come del resto è quello qui privilegiato dalla Oppio, il rispetto filologico, che imporrebbe di non distorcere disinvoltamente  per proprio uso e consumo il significato autentico di qualsiasi testo,viene ormai a cadere. Che questo ‘vezzo letterario’  sia  accettabile o meno sotto il profilo critico-accademico tradizionale, poco importa: è un dato di fatto da doversi ormai semplicemente riconoscere. Oltre a non voler sottovalutare la vivificante funzione strumentale che questo nuovo elemento viene d’un tratto a svolgere nei confronti del lettore/fruitore -- il quale, per questo tramite, può (e dovrebbe!) vedersi spronato a non fare del citazionismo un utilizzo culturale automatico, meramente passivo.


A maggior lustro dell’autrice, ho così sommariamente cercato di mettere a fuoco anche alcune valenze qualitative supplementari insite nella sua scrittura; e se riscontrabili come sono nella peculiare strutturazione formale di questo romanzo, certo tanto più meritorie in quanto acquisite esclusivamente in virtù del suo felicemente autonomo orientamento artistico connaturale.


Di passi suggestivi, intimamente coinvolgenti, in quest’opera fascinosa non se ne contano. Eccone uno a caso: in quella eterea dimensione post mortem ipotizzata dalla Oppio, venuto meno anche il “linguaggio del corpo”, tenerissima e toccante la sua dichiarata nostalgia per quel prezioso veicolo puramente sensoriale, diremmo, che “con un abbraccio o uno sguardo” permetteva ai viventi in carne ed ossa di esprimere molto più  calore e trasporto affettivo di quanto non sarebbe mai stato possibile nemmeno attraverso la più perfetta  formulazione verbale del sentimento.
Vi aggiungerei una mia personale perplessità pertinente: quel “pensiero telepatico” che nella fantasia dell’autrice potrebbe configurarsi come il solo strumento di comunicazione destinato a sussistere fra gli estinti, dopotutto rappresenta il dono più gratificante al quale aspirare per un’eventuale eternità? Sarebbe un mezzo estremo davvero auspicabile, non potendo in ogni caso affrancarsi -- neppure quello! --dai  vincoli imposti dalla parola umana articolata? Ah, quella nostra venerata parola indispensabile, di per sé semanticamente plurivoca e come tale ineluttabilmente infida, ambigua e troppo spesso ingannevole anche quando non intenderebbe esserlo! Un dubbio paradossale, il mio, che occasionalmente affligge ogni scrittore chino sul solo ferro del mestiere di cui alla fin fine disponga.

Senz’altro ammirevole la maestria della Oppio nel delineare con pochissimi, nudi tratti di penna quel coup de théâtre che conclude questo romanzo; e non meno geniale, a mio giudizio, l’idea di presentare la fotografia del bambino mutilato dall’atomica di Hiroshima come l’unico oggetto materiale che rimanga visibile alla protagonista dopo il risveglio: quasi a voler  suggerire che possa essere stata proprio la presenza (presumibile fin dall’inizio?) di quell’immagine al capezzale della paziente ad innescare tutto quanto il successivo “sogno”distopico/utopico/eutopico durante la narcosi? Chissà, però, se questa mia particolare ipotesi coincida davvero con le intenzioni dell’autrice. Fino a che punto è significativo che, nel mezzo di altri quesiti rivolti al suo saggio interlocutore, Danila Oppio (sotto le finte spoglie di Eve), citando incidentalmente Demostene, avverta il bisogno di chiedergli: perché l’uomo crede vero ciò che desidera? Di questi tempi in cui ricorre sempre più spesso il neologismo “post-verità”per indicare praticamente questo medesimo concetto, e designare un tipo di arbitrio sempre più strisciante in ogni ambito della mentalità contemporanea, ecco una domanda felicemente lasciata aperta, quindi – priva di una qualche possibile risposta categorica, al pari di innumerevoli altre che l’autrice ogni tanto si pone con encomiabile onestà intellettuale anche riguardo alla effettiva correttezza  interpretativa del pensiero di  scrittori e filosofi da lei rammemorati nel corso  delle molteplici argomentazioni intraprese,  per insaziabile amore del Sapere lanciate con foga  ora al di qua, ora al di là della fatidica “soglia”.  E’ per noi uno spunto di riflessione in più fra gli svariati stimoli pluridirezionali anche implicitamente (post-modernamente) offerti da quest’opera composita al lettore meno distratto. Almeno un lettore, intendo, davvero desideroso di raccogliere la tacita sfida a volersi addestrare anche in questa maniera allo scopo di poter poi sondare con crescente sagacia quel vasto acquitrino di  subdole mezze verità/mezze falsità/post-verità che i mass media ci

costringono a guadare ogni giorno col fiatone, oppure ad allontanarcene con stizza o apatica insofferenza; e farlo non già per puro gioco sportivo, per il gusto di presentarci come candidati provetti a qualche nuovo telequiz di successo, anzi: per decidere di schierarci lancia in resta contro quel genere di vacuo nozionismo fagocitante, dinanzi al quale l’autentica cultura sembra sempre più prossima a capitolare. 

Chiuso il volumetto, subito perdonata come trascurabile qualsiasi svista di quelle che inevitabilmente sfuggono anche all’editing più scrupoloso, quale l’invito più forte che ci è dato enucleare e voler più di ogni altro custodire? Credo sia in definitiva riconducibile ad una (logora? risaputa? obsoleta?) citazione di fatto  mancante e tuttavia onnipresente tra le pagine in vario modo eloquenti di questo piccolo-grande libro, dove ci viene indicato con sicura coerenza come “volontà” ed “azione etica” siano decisivi  fattori-guida che dovrebbero saper rettamente coesistere fino ad identificarsi del tutto anziché contendersi il campo con dissennata ostinazione nel comportamento umano; e tanto più oggi che la tremenda posta in gioco è la già precaria sopravvivenza di questo nostro minuscolo globo terrestre, ahimè una miseranda “aiuola che ci fa tanto feroci” se osservato dall’alto dei cieli eppure l’unico spazio vitale  che in sorte ci sia stato assegnato e sul quale, per il momento, ci sia ancora permesso di soggiornare:

“Due cose riempiono l’animo di ammirazione sempre nuova e crescente quanto più spesso ed accuratamente la riflessione se ne occupa: il firmamento stellato sopra di me e la legge morale dentro di me.” 

Come non voler sottolineare un ‘grazie di vero cuore’ all’amica Danila per essere riuscita tanto bene a rammentarmene la sempiterna veridicità –- e non solo “telepaticamente”, attraverso le assidue testimonianze di una sincera vicinanza spirituale, ma regalandomi anche il sapore di  questo succulento frutto delle sue migliori propensioni creative: una fulgida prova concreta di come i confini tra phantasia  e  imaginatio vera magicamente si annullino  quando l’aspirazione ultima di uno scrittore sia di poter produrre “arte per la vita”. 



Come ulteriore tributo di personale gratitudine all’autrice, mi è gradito accludere la seguente lirica tratta dalla mia silloge “IN SOLILOQUIO DIALOGANDO”. Nel testo originale la si trovava simbolicamente affiancata, non a caso, da una delle varie raffigurazioni artistiche dell’Angelo Shekinah.


“…sì come rota che igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle

B E A T I T U D I N E

Ah se oltre il fine
ch’è di là dagli astri
giunto al cospetto
della Teofania
più nessuno
rapito si sentisse
a gioirne in egoica libertà!
Se di un’unica
aurora
 rivestiti!
Se in un quieto
corale girotondo
 cullarci
 sopra il cuore
in trasparenza
l’Una
assoluta eterna
Verità!

Oh quando! ognuno fosse
la nivea luce altrui
e l’altrui canto
d’estrema solidale
beatitudine
non tua, non sua,
né più soltanto mia:
nel fulgore
indistinta
da ogni altra
e come l’altra ormai
irriconoscibile
nel concertato
unanime peana
all’Una
inseparabile
Armonia. 



Roberto Vittorio Di Pietro

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