POETANDO
domenica, febbraio 28
CHAPLIN: ritratti a memoria di ANGELA FABBRI
martedì, febbraio 23
E quindi uscimmo a riveder le stelle...plaquette di 100 autori per la Giornata della Poesia e per il 700° anniversario della morte di Dante Alighieri
In occasione della Giornata Mondiale della Poesia 2021 e nel 700° della morte di Dante Alighieri, Anna Montella ha pensato di creare una plaquette contenente 100 poesie di AAVV della quale ha già realizzato un e-book e presto uscirà anche una edizione in cartaceo.
Tra le 100 composizioni poetiche c'è anche la mia Beatrice:
BEATRICE
Nella poesia stilnovista
d’epoca medievale
la penna affascinata
del Sommo Poeta
paragona Monna Bice
a figura angelicata.
Simile a creatura dal cielo scesa
Ispira platonica resa.
Perfezione estetica e morale
Inibisce ogni pulsione sensuale.
nel dolce prosimetrum Stil Novo
tipico della Vita Nova.
Lei, fusione di nobiltà e virtù.
Ch’ogni giorno rinnova.
“Tanto gentil e tanto onesta,
il cor tuo, Dante. desta”.
L’incedere delicato
in qual modo raffinato
distingue nel portamento
Bice di Folco Portinari
tra altre donne a lei impari.
Così Beatrice trasmette
quell’ineffabile aere
che ammutolisce la gente.
e intorno a lei riflette
al suo passare……e fa sospirare.
“La donna mia”, ma lo è davvero?
O rappresenta un forgiato ideale?
Quale signora non avrebbe provato
un pizzico d’invidia
per un amore tanto sublimato?
Beata Beatrice!
Danila Oppio
Inoltre, in memoria dell'indimenticabile TOMMASO MONDELLI, a quasi un anno dalla sua dipartita, abbiamo voluto ricordarlo con una sua composizione di alcuni anni fa, da lui dedicata a Dante Alighieri che diventa così la 101ma poesia a chiudere la raccolta.
lunedì, febbraio 22
Tentazioni di sabbia nel Sahel di P. Mauro Armanino
Tentazioni di sabbia nel Sahel
Il solo mezzo per liberarsi di una tentazione è quello di cedervi. È uno degli aforismi più noti di Oscar Wilde, discusso e spesso criticato scrittore irlandese morto nel secolo scorso. Le nostre tentazioni sono di sabbia e, come lei, si insinuano, come la polvere, nei meandri e snodi della vita personale e della storia collettiva. Alcune delle tentazioni sono più importanti e seducenti di altre. Spesso sono universali, semplicemente legate al fatto di essere umani, fragili e inermi dinanzi a fatue promesse o inedite opportunità. Le tentazioni sembrano aprire a ciò che appariva chiuso, sigillato, barricato dietro muri di cinta. I figli hanno le loro e così i padri di famiglia o le donne, in particolari stagioni della vita. A ognuno le sue tentazioni o, se vogliamo, occasioni per fare esperienza e talvolta pagare di persona le scelte operate per accedervi. Esistono tentazioni che assumono il colore e il sapore delle circostanze e del contesto in cui nascono, crescono, si sviluppano, maturano e infine si realizzano. Nel Sahel, non meno o non di più che altrove, abbiamo le nostre e, nel nostro piccolo, abbiamo cercato di mettere in pratica l’aforisma di Oscar Wilde.
Ad esempio: la tentazione di svendere i propri ideali in cambio d’illusioni mercantili. Come se il possesso di soldi e di merci siano la garanzia di dare un senso e una direzione alla vita. Gli intellettuali, i politici, buona parte dei comunicatori sociali e financo i profeti a buon mercato, entrano in questa speciale categoria. L’importanza del prestigio sociale, la carriera e l’opportunismo politico non sono altro che mezzi per un fine che, come l’orizzonte, si allontana quanto ci si avvicina. Le alleanze di convenienza, che si fanno e disfanno a seconda delle stagioni, ne sono uno degli esempi più illuminanti. Nè amici né nemici, solo provvisori complici di affari e voltagabbana se questo appare funzionale al sistema di rapina dei poveri. Quanto di più sacro, se ancora ne esiste la percezione, e costitutivo di valori ed esperienze fondanti, è semplicemente cancellato. Ciò che conta, in definitiva, è l’interesse che l’affare, la relazione o il progetto possono comportare per se stessi o il proprio circolo. Il trasformismo assomiglia paurosamente a quanto accade nel pianeta calcio del nostro tempo. Si cambia di squadra durante il campionato a seconda del montante dell’ingaggio e, con l’attuale assenza delle tifoserie, il processo appare ancora più semplice e indolore.
Oppure la nefasta tentazione di chiudere parole, porte e frontiere per chi. dove e come si trova, il presente è diventato invivibile. Andare lontano dove ci sono le luci che brillano più forte e dove suona diversa la musica del tempo che passa. Guerre, carestie, cambiamenti climatici, demografia, pessimo governo della Casa Pubblica, cioè della Repubblica, sono altrettanti accorati inviti per cercare altrove ciò che qui non si trova o si è smarrito. Diritto di rimanere e diritto di partire camminano insieme e la tentazione della fuga è a volte l’unica realtà possibile. Il nostro Niger, chiamato a scegliere proprio oggi il suo nuovo ‘Timoniere’, dal penultimo posto nell’indice dello sviluppo umano, si è gradualmente trasformato in terra d’asilo per migliaia di persone. Perché c’è un partire e c’è uno scappare per salvare se stessi e la propria famiglia dall’orrore. Diverse migliaia di persone, con l’unico torto di essere nate nel posto e momento sbagliato, sono costrette a trovare un rifugio degno di questo nome, onde tentare di mettere assieme i pezzi sparsi di una vita spezzata. Sulle strade di Niamey e nei centri di transito c’è un’Africa di volti e storie che camminano nella sabbia. La tentazione di renderli invisibili è forte perché il peso del loro sguardo è insopportabile. Alcuni di loro hanno iniziato lunedì uno sciopero della fame. Questione di dignità.
L’ultima tentazione è nata da poco e consiste nel credere che ORMAI non c’è più niente da fare. Il mondo, l’Africa, la società e il Niger sono così e basta. Magari l’ha voluto Dio o se non l’ha voluto lo ha almeno permesso perché, dice il senso comune della gente, non c’è nulla che accada senza il suo esplicito consenso. Carestie, guerre, gruppi armati, contadini nel quotidiano, donne in lista d’attesa, giovani derubati del verbo coniugato al futuro, sindacati come soprammobili del potere, partiti tenuti in ostaggio dal potere, democrazia alimentare, elezioni consigliate e religiosi in cerca d’autore. Tutto sembra imbullonato, deciso, assodato e comunque inevitabile. E’ la tentazione più subdola, specie per i pochi e autentici militanti che credono ancora e sempre in un mondo differente. Nel frattempo la sabbia, silenziosa e tenace, sorride.
Mauro Armanino, Niamey, 21 febbraio 2021
LA VOCAZIONE DEL BAMBÙ di DANILA OPPIO
LA VOCAZIONE DEL BAMBÙ...
In un magnifico giardino cresceva un bambù dal nobile aspetto. Il Signore del giardino lo amava più di tutti gli altri alberi. Anno dopo anno, il bambù cresceva e si faceva bello e robusto. Perché il bambù sapeva bene che il Signore lo amava e ne era felice.
Un giorno il Signore si avvicinò al suo amato albero e gli disse: "Caro bambù, ho bisogno di te". Il magnifico albero sentì che era venuto il momento per cui era stato creato e disse, con grande gioia: "Signore, sono pronto. Fa di me l’uso che vuoi”.
La voce del Signore era grave: "Per usarti devo abbatterti!". Il bambù si spaventò: "Abbattermi, Signore? Io, il più bello degli alberi del tuo giardino? No, per favore, no! Usami per la tua gioia, Signore, ma per favore, non abbattermi". "Mio caro, bambù", continuò il Signore, "se non posso abbatterti, non posso usarti". Il giardino piombò in un forte silenzio. Anche il vento smise di soffiare. Lentamente il bambù chinò la sua magnifica chioma e sussurrò: "Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, abbattimi".
"Mio caro bambù", disse ancora il Signore, "non solo devo abbatterti, ma anche tagliarti i rami e le foglie". "Mio Signore, abbi pietà. Distruggi la mia bellezza, ma lasciami i rami e le foglie!". "Se non posso tagliarli, non posso usarti". Il sole nascose il suo volto, una farfalla inorridita volo via. Tremando, il bambù disse fiocamente: “ Signore, tagliali”:
"Mio caro bambù, devo ancora farti di più. Devo spaccarti in due e strapparti il cuore". Il bambù si chinò fino a terra e mormorò: "Signore, spacca e strappa".
Così il Signore del giardino abbatté il bambù, tagliò i rami e le foglie, lo spaccò in due e gli estirpò il cuore. Poi lo portò dove sgorgava una fonte di acqua fresca, vicino ai suoi campi che soffrivano per la siccità.
Delicatamente collegò alla sorgente un’estremità dell'amato bambù e diresse l'altra verso i campi inariditi. La chiara, fresca, dolce acqua prese a scorrere nel corpo del bambù e raggiunse i campi. Fu piantato il riso e il raccolto fu ottimo. Così il bambù divenne una grande benedizione, anche se era stato abbattuto e distrutto.
Quando era un albero stupendo, viveva solo per se stesso e si specchiava nella propria bellezza. Stroncato, ferito e sfigurato era diventato un canale, che il Signore usava per rendere fecondo il suo regno.
§§§§§§§§
Questa splendida parabola ci spiega molte verità. È difficile uscire dal proprio EGO. Si dice che la prima persona che amiamo siamo noi stessi. Va bene, giusto amarci, lo dice anche Gesù in questa sua illuminante affermazione: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Non nega che dobbiamo amare prima di tutto noi stessi, poiché se non ci amiamo, men che meno sapremo amare gli altri.
Non dico che dobbiamo giungere alla completa abnegazione del nostro IO, e arrivare fino al martirio, ma costa poco dedicarci ai nostri simili con l'ascolto, l'aiuto, una buona parola, anche se questo a volte richiede un gran spirito di sopportazione. Pure in questo Gesù disse, nelle opere di misericordia spirituali: sopportare pazientemente le persone moleste.
Le persone moleste non sono solo quelle che ci tormentano nel corpo e nell'anima, ma anche quelle che si aspettano solo di essere comprese, di poter liberare le proprie emozioni, condividendo il loro sentire con gli amici, sia nella gioia che nel dolore. E se anche ci intrattengono con i loro sfoghi, sappiamo che in quel momento stiamo svolgendo un'opera di carità. Non sempre fare un'azione caritatevole significa donare cose o denaro. Le persone che non hanno problemi economici non chiedono cose materiali, molto più di frequente necessitano di una parola buona, di un paziente ascolto, di non essere ferite con insulti, spregi, o scrollate di spalle. Come noi stessi abbiamo talvolta bisogno di una parola affettuosa, di una parola che aiuti a risolvere qualche problema interiore, così dobbiamo a nostra volta offrire lo stesso supporto morale. E denigrare, mostrare indifferenza, ignorare, non è solidarietà. E' una spada che spezza il cuore. Accusare ingiustamente qualcuno, è non solo una riprovevole calunnia, ma uccide la speranza.
Quindi, mettersi al servizio, come ha fatto il bambù, per il bene comune, è un gesto di solidarietà ammirevole.
Prima di tutti, dovrebbero essere i Governanti delle Nazioni, a prendersi cura del bene pubblico, ma se, immersi nel proprio Ego, si occupano solo di se stessi anche nella vita privata, mai nasceranno i veri Giusti, quelli che prima di sé mettono in luce le vere necessità di un intero popolo.
Chiaro il concetto? Dobbiamo lavorare su noi stessi, uscendo al nostro guscio e allargando la propria limitata visione, spostandola dal nostro IO al NOI. E' così difficile da comprendere e mettere in pratica?
Danila Oppio
domenica, febbraio 21
MAYA DEVI di RENATA RUSCA ZARGAR
Maya Devi
di Renata Rusca Zargar
Maya Devi, abita in un’elegante villetta a Bombay. Ogni mattina si alza, saluta il marito che si reca al lavoro e, dopo essersi accuratamente preparata con uno dei variopinti sari di seta che riempiono il suo armadio, scende in cucina per impartire al cuoco gli ordini della giornata.
Oggi, però, Maya Devi non è del solito umore: da qualche giorno ha il sospetto di essere incinta e attende con ansia l’ora dell’appuntamento con il suo medico, il dottor Lochan, uno dei migliori specialisti della città.
- Bene, signora - sorride allora soddisfatto l’uomo - ci siamo di nuovo: dopo la piccola Radha, avrà un altro bambino!
Il professionista pregusta già la lunga serie di onorari che incasserà da questa paziente appartenente alla classe medio alta anche se, comunque, per lui, la nascita di una nuova creatura è sempre una benedizione degli Dei, così come sua madre gli ha insegnato a credere fin da ragazzo.
- Dottore, e se sarà un’altra femmina? - chiede sommessamente Maya Devi.
Ella, infatti, non può scordare che sua suocera ogni giorno si prostra davanti all’effigie del Dio Shiva a pregare per l’avvento di un nipote maschio. Come non le sfugge lo sguardo interrogativo e quasi accusatorio di sua madre che la osserva in silenzio. - Quando sarai capace di dare a tuo marito un erede? - sembra domandare continuamente.
- Oggi siamo in grado di conoscere il sesso del nascituro in tempi precoci attraverso l’amniocentesi. Se crede, potremmo provare…- Il dottor Lochan sa bene che le femmine non sono gradite nell’alta come nella bassa società e conosce quale sia l’aggravio di spese e problemi sulle loro famiglie per poterle, a suo tempo, maritare.
- Sarà doloroso?- domanda timidamente Maya Devi.
- Assolutamente no, praticheremo questo semplice esame alla sedicesima settimana di gravidanza. E poi, se le cose non andassero come dovrebbero, si potrà ancora abortire. - Il medico tace: sa di aver detto abbastanza.
Il marito di Maya Devi, Raj Badhur, è proprietario di alcuni negozi di abbigliamento e aspetta con trepidazione il figlio maschio, l’erede del suo patrimonio. Egli sarà collaboratore dell’attività familiare, un giorno, o forse primo ministro dello Stato, eminente scienziato o professore universitario; ma, quale che possa essere la sua professione futura, inevitabilmente uomo!
La sorella più anziana di Maya Devi, coniugata a un insegnante di scuola dal misero stipendio mensile, ha messo al mondo già tre figli, tutti maschi. E quando rivolge agli altri la parola, non sa nascondere l’orgoglio di essere stata capace di compiere una simile impresa!
Succede pure che, quando Maya Devi e Raj incontrano degli amici o dei lontani parenti, la prima e più comune domanda che si sentano rivolgere è se abbiano dei figli e quanti. L’entusiasmo dei curiosi si smorza subito alla risposta che ne hanno una sola e per giunta femmina! Poi, per educazione, tutti aggiungono che presto gli Dei ne manderanno loro tanti altri e maschi, tentando di consolarsi e consolare della delusione.
Così, con questi pensieri, i giorni trascorrono lentamente e tristemente.
Il rapporto che lega una madre al proprio figlio si fa, però, sempre più intenso.
- Bimbo mio - Maya gli parla al di là della tenue barriera del proprio corpo - ti prego, aiutami, sii un bel maschietto. Non voglio perderti, so che sei dentro di me, che ti affidi a me e potremo essere felici insieme. Come un battito d’ali di farfalla, l’esiguo esserino fa sentire la sua presenza. Anch’egli ama già chi lo nutre nel suo grembo.
Il giorno dell’esame, nella lussuosa clinica privata, il dottor Lochan è pronto con l’impeccabile personale. Attraverso l’ecografia si può già scorgere sullo schermo la piccola creatura che si muove tranquillamente, il battito ritmico del minuscolo cuore, il suo corpicino ben delineato nel caldo riparo del ventre della madre. Abilmente e rapidamente, le mani del medico prelevano, con una lunga siringa, una modesta quantità di liquido dal sacco amniotico e l’operazione è terminata.
Ora non resta che attendere alcuni giorni il risultato della prova, pregando devotamente Shiva, il Dio rappresentato spesso in forma di fallo maschile.
Qualche volta, quando giunge in visita la zia, sorella di suo padre, Maya Devi vorrebbe confidarsi come faceva da piccola, se cadeva giocando e si sbucciava le ginocchia. La zia, infatti, non aveva avuto figli e perciò era stata abbandonata dal marito. Quindi, viveva solo grazie alla carità del fratello che l’aveva accolta in casa.
Un tempo, quando Maya Devi piangeva, la prendeva tra le braccia e la cullava teneramente, così che le sue lacrime si confondevano con quelle di lei. Ma, ormai, cosa avrebbe potuto fare la zia se non rivivere situazioni terribili e dolorose senza poter cambiare nulla? Infine, la telefonata del medico arriva: - Signora Badhur, abbiamo l’esito del test, purtroppo si tratta di un’altra femmina, anche se è perfettamente sana. Che cosa pensa di fare?
- Non so… - la voce di Maya è quasi un sussurro - Ne parlerò con mio marito. - e riattacca la cornetta. Si siede sul letto, le manca l’aria e il suo stomaco sembra torcersi mentre pensa alla piccina che ha visto e che nuota, forse ignara di tutto, all’interno del suo corpo. Come si può essere capaci di fermare il pulsare già determinato di quel cuoricino?
Deve fare di tutto per salvare quella vita che è profondamente e indissolubilmente legata alla sua! Alla sera, quando Raj tornerà dal lavoro, gli parlerà e, se sarà di buon umore, lo convincerà a tenere anche questa figlia che ella ormai ama. Subito dopo, poi, - pensa ancora Maya rassicurando sé stessa, - potranno avere un altro figlio, maschio, e allora saranno felici.
Qualche anno prima, suo padre era riuscito ad accaparrare per lei questo marito: un uomo ricco che le avrebbe permesso di condurre una vita agiata. Aveva mobilitato tutte le conoscenze importanti per raggiungere lo scopo. D’altra parte, ella offriva una dote consistente, una discreta bellezza, un’abbondante dose di sottomissione e di obbedienza, qualità necessarie per una donna della sua condizione sociale.
Nei primi anni di matrimonio, Maya Devi aveva sognato l’amore reciproco e, forse, qualcosa di simile c’era stato. Ma poi, col tempo, la vita di tutti i giorni e la nascita della prima figlia le avevano rubato la sua illusione.
Quando Raj la prendeva tra le braccia, ella sapeva di volere molto di più.
Ora, però, - medita ancora Maya - tenterò di cambiare questa situazione: sarò più gentile con Raj, lo accarezzerò a lungo, lo persuaderò. E tu, bimba mia, che nessuno vuole, stammi vicina, proteggimi e io ti proteggerò.
“Io ti vedo, / - Maya scrive su di un semplice foglio di carta - piccola figlia mia, /giocare ignara nel mio ventre./ Non ti aspetti dolore da nessuno, / indifesa e muta creatura, /e ti amo, /anche se non sei ancora nata, / e ti aspetto, / per amarti di più/ e consolarti tra le mie braccia./ Qui nessuno ti vuole, /e tanti teneri bimbi, / non desiderati come te, /sono morti, senza nome, /nel silenzio. /Vorrei poter cullare /tutti quanti, /tra le mie braccia /lunghe come il mondo, /perché possano dormire, /senza paura, /almeno una volta.”
Quindi, nel silenzio della sera, in camera da letto, dopo che la governante ha accompagnato nella sua stanzetta la loro bambina per non disturbarli, Maya Devi comincia a parlare, spiegando tutto al marito. Le parole corrono velocemente e piene di calore fuori dalle sue labbra, dove balenano denti bianchi e perfetti. Le sue guance sono rosse e i suoi occhi brillano come stelle, fino al momento in cui Badhur, con decisione, non prende a rispondere: - Non voglio un’altra femmina, non ne abbiamo bisogno.
Le lacrime rigano il viso di lei scendendo a rovinarle il trucco, mentre il colore sparisce dal suo volto.
- Non si potrebbe tenerla? Non te ne farò pentire… Sarò una buona moglie e avremo altri figli subito dopo questo.
- Appunto. Avremo altri figli maschi e non possiamo perdere tempo inutilmente. So che il dottor Lochan non ti farà soffrire. Andrà tutto bene, vedrai. Domani stesso ti accompagnerò in clinica dove resterai qualche giorno per rimetterti. Quando tornerai a casa, riprenderai la tua vita. Adesso ti consiglio di dormire e anch’io sono molto stanco. Buona notte.
Senza aggiungere altro, Raj Badhur si corica e spegne la luce.
Dopo pochi attimi, Maya Devi sente il suo respiro diventare regolare e tranquillo.
Nel suo pianto silenzioso, sa che nessuno, neppure i suoi genitori, spenderebbe una parola per lei. Così, accarezzando lentamente con il palmo delle mani il raffinato copriletto di seta ricamata di Benares, ricorda che sua madre, spesso, quando lei era bambina, usava raccontare questa storia:
- Padmani era una ragazza del villaggio di Surajgarah. La sua ammaliante bellezza aveva fatto sì che a diciotto anni, nonostante la sua povertà, sposasse Raj Kapoor, un ricco proprietario terriero assai più anziano di lei. Padmani e Raj avevano avuto due figli, un maschio e una femmina, ma, purtroppo, Raj era morto dopo pochi anni di matrimonio e Padmani, sottomessa a un’antica tradizione, aveva seguito il suo atroce destino.”
Le immagini di un villaggio sperduto, del sacrificio sul rogo di una donna, come accadeva spesso, un tempo, in India, le fluivano davanti agli occhi. Se avesse obbedito al marito, tornando nella lussuosa clinica privata tra quel personale dai camici verdi così perfettamente puliti e stirati, il suo destino, il karma, si sarebbe compiuto. Nulla di diverso da secoli: avrebbe continuato a condurre un’esistenza ordinata e precisa tra persone della buona società e tutto quanto avesse desiderato, mobili, quadri, tappeti, gioielli, vestiti, sarebbe stato suo.
Ma la sua vita e il suo cuore sarebbero morti per sempre.
No, domani non sarebbe andata alla clinica, non avrebbe seguito un destino di donna tracciato dall’uomo.
Domani avrebbe cominciato una vita nuova insieme a sua figlia e non importa quanto difficile avrebbe potuto essere: sarebbe stata vita.
Renata Rusca Zargar
giovedì, febbraio 18
BEATIFICARE I DRAGHI
Beatificare i Draghi
martedì, febbraio 16
POESIA E MEDICINA di ANGELA FABBRI
POESIA e MEDICINA
Circoscrivere una poesia in un qualunque tipo di metrica predefinita, cercando di preservarne l’anima e di darle un volto, per me assomiglia al tentativo di abbarbicare un serpente vivo attorno a una bacchetta.
HERMES ci riuscì con 2.
La MEDICINA sposò il suo simbolo che ne esprimeva tutta la difficoltà.
(Angela Fabbri, notte fra 14 e 15 febbraio 2021)
Email di accompagnamento : 15/2/2021
La POESIA va sempre. La MEDICINA va alla grande da + di un anno. E mettiamole insieme sul web, Danila!
Era questo che intendevo con SCRIVERE (e SEMINARE) a SPAGLIO… senza farne per forza tutte le volte un SAGGIO.
Le tue idee, i tuoi pensieri, ben vengano, Danila. Sai che se non li metti, poi te lo chiedo io. Non abbiamo forse incominciato la nostra conoscenza con una bella litigata su un blog di Dublino?
Ma, per favore, senza farne per forza tutte le volte un SAGGIO composto con le farine + diverse e alcune anche poco commestibili.
Ciao.
Angela
domenica, febbraio 14
IL FUTURO IMPOSSIBILE DI ALIYA PARTITA PRIMA di P. MAURO ARMANINO
Il futuro impossibile di Aliya partita prima
Aliya sarebbe senz’altro diventata una delle ultime principesse. La favola era stata scritta dai genitori. Lui di origine liberiana e lei di origine togolese. Le migrazioni combinano e sciolgono matrimoni, alleanze, fatue promesse ed eterne amicizie. La loro storia era nata a Niamey, nel Niger e più precisamente nel quartiere popolare chiamato Gamkallé.
La mamma aveva due figli da una precedente unione e il papà di Aliya aveva accettato di tutto cuore di prenderli come suoi. Con lei, principessa di un regno di sabbia che ancora non era stato concepito da queste parti. Regno di un re qualunque, senza territorio e senza popolo da governare, un titolo nobiliare da annoverare tra le importanti inutilità della storia umana. Una principessa d’altri tempi con tanto di reggia e un parco per le visite degli altri dignitari del regno e dei principati vicini. I suoi genitori erano fieri di lei che li avrebbe ricompensati dei tanti sacrifici per farla crescere, studiare e soprattutto coltivare le doti che avevano scoperto in lei. Li avrebbe fatti felici e coeredi della sua fortuna.
Aliya, il cui nome di presunta origine araba significa ‘forza’ o ‘robustezza’. Questo nome potrebbe però anche avere radici linguistiche germaniche e, in questo caso, il nome vorrebbe dire ‘nobile’. Questo spiegherebbe la sua prima vocazione al titolo di principessa senza peraltro precludere altri cammini non meno nobili. In effetti Aliya sarebbe senz’altro diventata una migrante come i suoi genitori. Il papà liberiano, fuggito dalla guerra in Ghana e poi, una volta non tornata la pace, ha viaggiato più volte nei Paesi del Maghreb cercando, senza riuscirvi, di raggiungere l’Altro Mondo di cui così tanto gli avevano parlato gli amici. L’ultimo suo tentativo in Algeria era abortito perché aveva saputo che questo Paese ributtava indietro migranti e rifugiati. Si era convinto che sarebbe stato inutile continuare ed era tornato alla capitale Niamey, dove aveva infine trovato lei, la Sua Sola Terra, e si era sposato. Aliya avrebbe continuato il viaggio del padre e quello della madre che, di mestiere parrucchiera, aveva aperto un minuscolo e dignitoso salone per signore nel quartiere. Aliya sarebbe andata più lontano, fino al paese che ancora non si è inventato.
Aliya sarebbe senz’altro diventata donna e forse madre, un giorno. Avrebbe imparato a innamorarsi con la vita e poi ai tradimenti dell’amore. Avrebbe contato i giorni di festa, i vestiti secondo l’occasione e il trucco leggero agli occhi con il profumo che l’avrebbe resa unica tra le tante. Avrebbe scoperto che i giorni sono diversi a seconda degli occhi che la guardavano e che, da ragazza com’era, l’avrebbero fatta sentire una donna del tutto speciale per qualcuno. La prima volta le sarebbe capitato come per caso e poi avrebbe scoperto i misteri del suo corpo e dei sentimenti, come l’amore che si avvicina così tanto alla morte, le dicevano. L’avrebbero consigliata di sposarsi per diventare una donna come le altre e tra le altre. E un giorno sarebbe rimasta incinta senza saperlo e senza volerlo. Avrebbe avuto paura di trovarsi sola in quel momento e sentire timore di dirlo a sua madre e soprattutto a sua padre che l’avrebbe minacciata apertamente nel caso questo fosse accaduto. Contro tutto e tutti non avrebbe voluto separarsi dal frutto del suo grembo di madre.
Aliya sarebbe senz’altro diventata rivoluzionaria come solo le donne sanno esserlo quando possono. Era diventata una militante per i diritti delle donne da quando aveva scoperto che l’unico rivoluzionario degno di questo nome era Dio, differente da quello che gli avevano raccontato da piccola. Aliya sarebbe diventata senz’altro tutto questo e forse ancora più solo avesse potuto. Aliya è nata il 22 dicembre del 2020 e il mercoledì 10 febbraio scorso, non ancora due mesi di vita, è morta di disidratazione acuta alle 11,30 mandata da una clinica all’altra. Suo padre si chiama David e sua madre Yawa.
Due mesi di vita e un fiore di sabbia piantato sulla tomba.
Mauro Armanino, Niamey, 14 febbraio 2021
GIUSEPPE CONTE, professione Cittadino Italiano di ANGELA FABBRI
SAN VALENTINO di ROBERTO V. DI PIETRO
SAN VALENTINO
(visioni o finzioni, risorte illusioni)
Che tepore improvviso! E là in alto...
Che inconsueto tremore di luce!
E’ febbraio?...
Se guardi, sui rami
sembran quasi cullarsi...
due gemme.
Che miracolo, un piccolo...
pallido...breve...
se timido, tenero
lume di sole:
come a ottant'anni
un fremito
del cuore.
(Roberto V. Di Pietro -14 febbraio 2016)
Da poesie per Agenda Arte e Pensiero 2017
di Roberto Vittorio Di Pietro
LA SOLITUDINE DEI SEGRETI di ANGELA FABBRI
La solitudine dei segreti
Questa sto vivendo.
Chi vive in gregge non può capire.
Il gregge gli piaccia o no.
Ci vive.
Perciò non posso spiegare.
Qual è la solitudine dei segreti
che tieni per rispetto chiusi dentro
ma ti fan freddo
tanto freddo.
(Angela Fabbri, Ferrara notte fra 13 e 14 febbraio 2021)
GABINETTO VIEUSSEUX o GABINETTO PRIVATO? di DANILA OPPIO
25 gennaio 1820 nasce il Gabinetto Scientifico Letterario Vieusseux, che lo scorso anno ha festeggiato duecento anni di vita ed è il luogo dove Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni si sono incontrati.
Il termine è derivato dal francese cabinet, al cui significato comune di piccola stanza privata si è sovrapposto il significato politico di Consiglio privato del principe o Capo dello Stato.
Ma non è difficile immaginare l'origine della definizione di servizi igienici e bagno; perché il gabinetto è così definito?
Ripeto: La parola deriva dal francese “cabinet”, che significa “cabina”.
Ricordo che a scuola e si aveva necessità di andare in bagno, si chiedeva all’insegnante: “Scusi, posso andare al gabinetto?”
La stanza da bagno, sala da bagno, o semplicemente bagno o anche toilette è un locale adibito alla sede di apparecchi igienici, diffuso in gran parte del mondo.
Nelle abitazioni moderne di solito si trovano il vaso sanitario, il lavabo, la vasca o il piatto doccia e, negli Stati dove questo accessorio è diffuso, il bidet. Quando non vi siano più accessori oltre al vaso sanitario e al lavabo, è detto più specificamente gabinetto.
Nei bagni pubblici maschili sono spesso presenti gli orinatoi a muro. Termine desueto per indicare il bagno è toletta. Quando cominciò a diffondersi l'uso di un vaso sanitario in casa (di solito all'esterno, al termine di un ballatoio), il locale che lo conteneva era correntemente definito cesso, termine poi diventato desueto per la tendenza a ricercare costantemente eufemismi.
Cenni storici
Le prime testimonianze di pratiche igieniche provengono già da civiltà antiche come gli Indù, nel 3.000 a.C.: il bagno era la sede dove migliorare il proprio aspetto e soddisfare le esigenze fisiologiche. Inoltre si hanno testimonianze analoghe anche dalla civiltà egizia e da quella greca, di cui si ha traccia anche dell'utilizzo di un primo sistema del tutto simile alla attuale doccia.
Numerose testimonianze ci giungono dagli antichi greci e dai romani, dove soprattutto le persone più facoltose trascorrevano molto tempo nelle terme pubbliche sotto l'auspicio della dea Igea, dal cui nome derivò il termine igiene. Durante tutta l'epoca romana, infatti, sia il gabinetto che i bagni pubblici intesi come terme furono vissuti come luogo pubblico di socializzazione, nei quali avvenivano scambi culturali e mercantili. Già all'epoca sia i greci che i romani utilizzavano balsami e conoscevano i benefici e le tecniche terapeutiche dell'acqua calda e fredda, gli antichi romani rasero al suolo centinaia di boschi dell'odierna Italia per poter riscaldare le loro terme. La presenza di bagni privati era anche diffusa nelle case dei patrizi, che erano dotate di numerosi comfort.
Nell'età medievale, invece, la cultura del bagno fu profondamente trasformata poiché vennero a mancare le conoscenze tecniche che rendessero possibile la costruzione di nuovi impianti di scarico e fognature. Di conseguenza la carenza di igiene divenne la principale causa di malattie infettive, inoltre si diffuse l'errata credenza popolare che l'acqua penetrasse nei pori della pelle e che causasse malattie di vario tipo, tale diceria contribuì ad allontanare le persone dall'utilizzo dell'acqua per lavarsi e, di un conseguenza, il completo declino dei bagni pubblici.
A partire dal Trecento, la produzione di profumi è documentata anche in Europa, ma solo a partire dal Rinascimento, grazie allo sviluppo di mezzi tecnici come l'alambicco si arrivò ad una certa diffusione di questo prodotto. Così, all'inizio dell'epoca moderna si era soliti semplicemente spruzzarsi abbondantemente di profumo ovunque, in particolare i nobili e la borghesia, nonché incipriare parrucche e capelli ovviando così alla scarsa igiene e all'effetto d'unto. (e anche per coprire la puzza!)
Anche nei secoli successivi continuò a persistere l'errata convinzione che lavarsi troppo spesso potesse nuocere alla salute. Soltanto nel XVIII secolo tornò a riaffermarsi l'igiene personale e la rinascita dei bagni e con il XX secolo, anche la progettazione architettonica si preoccupò delle esigenze igienico-sanitarie facendo diventare il bagno dapprima un'appendice esterna delle abitazioni con stanzini in fondo al ballatoio, per poi tornare ad occupare una stanza all'interno delle abitazioni più prestigiose. È con il secondo dopoguerra che il bagno entrò nuovamente a far parte del corredo delle abitazioni private su larga scala, stimolando anche l'interesse di progettisti e architetti. Il ritorno alla diffusione dei bagni in ogni abitazione ha contribuito ad eliminare molte malattie prima assai diffuse a causa delle precarie condizioni igieniche.
Utilizzare quindi questo sostantivo sia per indicare un piccolo salotto a scopo culturale o politico, e nel contempo definire allo stesso modo il luogo dove si espletano i bisogni corporali o le abluzioni, mi pare non adeguato, per questo nel corso dei secoli si è ovviato nel cercare qualche eufemismo per la stanza da bagno.
Sarebbe utile che lo stesso procedimento si applicasse anche alla definizione di Gabinetto per quei locali dove varrebbe meglio la definizione di Salotto o Caffè Letterario, non vi pare?
Sapere che Leopardi e Manzoni si siano incontrati in un Gabinetto mi fa sorridere un poco!
Danila Oppio
SENZA FINE di RENATA RUSCA ZARGAR
Senza Fine
di Renata Rusca Zargar
Si racconta che Parvati, la splendida moglie di Shiva, stesse un giorno facendo il bagno nelle acque limpide e calme del mare e specchiasse felice la bellezza del suo corpo sinuoso tra le onde, quando decise di strapparsi un pidocchio dal capo e, gettandolo a terra, lo fece diventare un giovane uomo.
«Non permettere a nessuno di entrare nella mia casa!» gli disse e si rifugiò nella capanna a pettinare i suoi lunghi capelli neri e a scegliere un prezioso sari di seta ricamato in oro da indossare.
Quando sopraggiunse Shiva, il prestante difensore di Parvati obbediente al comando ricevuto, non gli lasciò l’accesso e il Dio, accecato dalla gelosia, gli tagliò la testa, gettandola nei gorghi del mare.
Le urla di Parvati allora pervennero fino al cielo:
«Hai colpito nostro figlio!» gridava e piangeva disperata.
Che fare, dunque? Shiva chiamò a raccolta tutti gli animali della vicina giungla e chiese loro chi volesse donargli la testa per suo figlio.
Ma nessuna bestia volle accettare questo sacrificio fino a quando l’elefante, più ragionevole e paziente, si prestò a un compito che avrebbe garantito all’umanità la presenza di un nuovo Dio.
Infatti, da quel giorno, il figlio di Shiva e Parvati ebbe la testa di elefante e il corpo di uomo e si chiamò Ganesh, il Dio della fortuna.
Da allora sono passati migliaia e migliaia di anni e oggi, a Bombay, la multiforme metropoli, porta dell’India, è la festa di Ganesh puja.
I fedeli hanno costruito, come ogni anno, una statua enorme di Ganesh che parte del tempio e, seguita da una moltitudine di persone, raggiungerà il mare.
Tutti hanno indossato i loro abiti migliori e hanno comprato collane e collane di fiori da offrire agli Dei per catturare la buona sorte.
I canti invadono l’aria e tutta l’atmosfera sembra propizia ai sogni e alle speranze mentre la processione si avvicina, lentamente, alla spiaggia.
Ogni partecipante sfoglia un pensiero e domanda, nel silenzio del suo cuore, una grazia:
«Signor Ganesh, ti dedichiamo questa festa di preghiera e tu ascoltaci, o Signore!»
Sulla sabbia, la grande scultura si ferma per un momento e il sacerdote inizia il rito del sacrificio: il cielo è terso e l’acqua lambisce la battigia con un ritornello sempre uguale.
Forse, proprio qui, migliaia e migliaia di anni fa, Parvati stava rinfrescando le sue membra, sorridendo alla vita e scherzando e accarezzando con le dita sottili qualche granchio rotondetto o qualche pesciolino curioso.
Tra la folla ci sono anche Seema e Raju con i loro bambini: tre femmine e un maschio.
Nella loro mente non c’è che un’idea: un altro figlio maschio che presto possa aiutare il padre a tirare avanti la famiglia.
Ed ecco si consuma la scena finale: il gigantesco monumento di legno dalle sembianze di elefante viene inabissato nelle acque profonde del porto e un anno fortunato inizia sotto lo sguardo compiaciuto e sazio del figlio di Shiva.
A sera, Raju e Seema tornano a casa, una baracca costituita da due stanze, senza servizi, edificata col fango, ricoperta di lamiera e appoggiata a molte altre della stessa specie.
Raju lavora saltuariamente come manovale in un cantiere edilizio e, quando lo chiamano, trasporta, dalla mattina alla sera, su e giù dalle impalcature, pesanti secchi di sabbia e di cemento o pile di mattoni.
L’amore che aveva provato per Seema, quando l’aveva vista, per la prima volta, il giorno del matrimonio, era sfumato, anno dopo anno, nella lotta per la sopravvivenza.
Il seno cadente e il ventre floscio di lei non suscitavano più intense emozioni nel suo corpo sporco e sfinito dalla fatica.
Ma ora Seema è di nuovo incinta e, man mano che il tempo passa, la gravidanza si fa più evidente.
La benedizione degli Dei scenderà ancora una volta sulla baracca, pensa Seema e ricorda il giorno della puja, mentre si affanna da una parte all’altra della città a proporre il suo lavoro di lavandaia.
Quando giunge il giorno del parto, Seema, aiutata dalle mani esperte di una vicina, mette al mondo, velocemente, un piccolo corpicino.
Le lacrime spuntano negli occhi di Raju: ancora una femmina nella famiglia!
«Oh Shiva,» si lamenta l’uomo, «un’altra inutile bocca da sfamare, un’altra dote da preparare per maritarla, un giorno! Che posso fare da solo? Chi mi aiuterà ad affrontare tutte le spese?»
Seema tace, stringendosi la piccolina al petto: conosce bene il destino di una donna, simile al suo, troppo povera per pensare a un futuro migliore e si avvia, con la testa china, verso la spiaggia.
Nella luce d’oro del tramonto, quando il sole si corica tra le onde rosse del mare, Seema ripensa alla sontuosa statua di Ganesh che ormai sosta serenamente tra le alghe nel fondo dell’Oceano. Il suo desiderio non è stato esaudito, Dio non ha voluto alleviare le difficoltà della loro vita, il loro karma dovrà scontare ancora tante pene prima di liberarsi nel flusso eterno al di sopra di molte esistenze.
I giorni, intanto, trascorrono uguali tra le faccende domestiche: Sudharshana, così si chiama la figlia, piange spesso e sembra che non cresca.
«Forse il mio latte non è sufficiente,» medita Seema «o forse è malata, chissà».
La notte Raju dorme inebetito dalla stanchezza e, qualche volta, dall’alcool, mentre Seema tiene la figlia vicino a sé, senza parlare. Le lacrime, del sapore del mare, scorrono sul suo viso.
Il tranquillo rumore della risacca, misto a un leggero profumo di salsedine, arriva a loro trasportato dalla brezza ma non serve a calmarla fino a quando il sonno, finalmente, non viene a rubarle i pensieri.
Gli altri bambini, intanto, riposano in un angolo e le ore e le notti si compiono così, inerti e pesanti.
Allo spuntar del giorno, Sudharshana giace sugli stracci, sempre più debole e silenziosa.
«Bisogna portarla dal medico» sentenzia la vicina «questa bambina è malata!»
Seema, due volte la settimana, lava i panni di una signora piccolo borghese alla pompa a mano dell’acqua che si trova sulla strada. Dalle sue labbra, non esce mai una parola.
Ogni tanto, getta uno sguardo al suo involtino di cenci e poi torna a concentrarsi nel lavoro, mentre i bambini del quartiere giocano chiassosi, senza le scarpe, lungo il canale delle acque nere che passa davanti alle case.
Quando, a sera, Raju torna alla baracca trova il solito piatto di riso e verdure che trangugia in fretta, assordato dai figli che fanno a gara per attirare la sua attenzione.
A momenti, lancia un’occhiata all’ultima creatura e anche lui tace: sa bene che qualcosa non va e che la piccola, forse, ha bisogno di un medico.
Poi, guarda con la coda dell’occhio la moglie, intenta a ripulire, e ancora tace.
Non c’è decisione in lui, né scelta: segue una strada prefissata da secoli e secoli nelle culture del mondo e che non prova dolore nel sacrificio di una donna.
La notte, tra le braccia della madre, che piange rassegnata, anche il flebile gemito di Sudharshana si spegne nel buio.
«Signor Ganesh,» supplica Seema «concedi a questa bambina, altrove, nella prossima incarnazione, una vita più felice».
Con un sospiro, Raju si gira dall’altra parte sul suo giaciglio di stracci.
Oggi a Bombay, la multiforme metropoli, porta dell’India, è la festa di Ganesh puja.
I fedeli hanno costruito, come ogni anno, una statua enorme di Ganesh che parte dal tempio e, seguita da una moltitudine di persone, raggiungerà il mare.
Tutti hanno indossato i loro abiti migliori e hanno comprato collane e collane di fiori da offrire agli Dei per catturare la buona sorte.
Nella direzione opposta, un piccolo gruppo di persone sta portando un fagottino fasciato in un lenzuolo bianco: vanno verso il forno dove vengono bruciati i corpi di chi non ha abbastanza denaro per preparare la catasta di legna.
Da lontano, si possono udire i canti festosi di chi si rivolge, con fiducia, a Ganesh che, pigramente, sta sprofondando nelle onde azzurre e fresche dell’Oceano.
Renata Rusca Zargar