Senza Fine
di Renata Rusca Zargar
Si racconta che Parvati, la splendida moglie di Shiva, stesse un giorno facendo il bagno nelle acque limpide e calme del mare e specchiasse felice la bellezza del suo corpo sinuoso tra le onde, quando decise di strapparsi un pidocchio dal capo e, gettandolo a terra, lo fece diventare un giovane uomo.
«Non permettere a nessuno di entrare nella mia casa!» gli disse e si rifugiò nella capanna a pettinare i suoi lunghi capelli neri e a scegliere un prezioso sari di seta ricamato in oro da indossare.
Quando sopraggiunse Shiva, il prestante difensore di Parvati obbediente al comando ricevuto, non gli lasciò l’accesso e il Dio, accecato dalla gelosia, gli tagliò la testa, gettandola nei gorghi del mare.
Le urla di Parvati allora pervennero fino al cielo:
«Hai colpito nostro figlio!» gridava e piangeva disperata.
Che fare, dunque? Shiva chiamò a raccolta tutti gli animali della vicina giungla e chiese loro chi volesse donargli la testa per suo figlio.
Ma nessuna bestia volle accettare questo sacrificio fino a quando l’elefante, più ragionevole e paziente, si prestò a un compito che avrebbe garantito all’umanità la presenza di un nuovo Dio.
Infatti, da quel giorno, il figlio di Shiva e Parvati ebbe la testa di elefante e il corpo di uomo e si chiamò Ganesh, il Dio della fortuna.
Da allora sono passati migliaia e migliaia di anni e oggi, a Bombay, la multiforme metropoli, porta dell’India, è la festa di Ganesh puja.
I fedeli hanno costruito, come ogni anno, una statua enorme di Ganesh che parte del tempio e, seguita da una moltitudine di persone, raggiungerà il mare.
Tutti hanno indossato i loro abiti migliori e hanno comprato collane e collane di fiori da offrire agli Dei per catturare la buona sorte.
I canti invadono l’aria e tutta l’atmosfera sembra propizia ai sogni e alle speranze mentre la processione si avvicina, lentamente, alla spiaggia.
Ogni partecipante sfoglia un pensiero e domanda, nel silenzio del suo cuore, una grazia:
«Signor Ganesh, ti dedichiamo questa festa di preghiera e tu ascoltaci, o Signore!»
Sulla sabbia, la grande scultura si ferma per un momento e il sacerdote inizia il rito del sacrificio: il cielo è terso e l’acqua lambisce la battigia con un ritornello sempre uguale.
Forse, proprio qui, migliaia e migliaia di anni fa, Parvati stava rinfrescando le sue membra, sorridendo alla vita e scherzando e accarezzando con le dita sottili qualche granchio rotondetto o qualche pesciolino curioso.
Tra la folla ci sono anche Seema e Raju con i loro bambini: tre femmine e un maschio.
Nella loro mente non c’è che un’idea: un altro figlio maschio che presto possa aiutare il padre a tirare avanti la famiglia.
Ed ecco si consuma la scena finale: il gigantesco monumento di legno dalle sembianze di elefante viene inabissato nelle acque profonde del porto e un anno fortunato inizia sotto lo sguardo compiaciuto e sazio del figlio di Shiva.
A sera, Raju e Seema tornano a casa, una baracca costituita da due stanze, senza servizi, edificata col fango, ricoperta di lamiera e appoggiata a molte altre della stessa specie.
Raju lavora saltuariamente come manovale in un cantiere edilizio e, quando lo chiamano, trasporta, dalla mattina alla sera, su e giù dalle impalcature, pesanti secchi di sabbia e di cemento o pile di mattoni.
L’amore che aveva provato per Seema, quando l’aveva vista, per la prima volta, il giorno del matrimonio, era sfumato, anno dopo anno, nella lotta per la sopravvivenza.
Il seno cadente e il ventre floscio di lei non suscitavano più intense emozioni nel suo corpo sporco e sfinito dalla fatica.
Ma ora Seema è di nuovo incinta e, man mano che il tempo passa, la gravidanza si fa più evidente.
La benedizione degli Dei scenderà ancora una volta sulla baracca, pensa Seema e ricorda il giorno della puja, mentre si affanna da una parte all’altra della città a proporre il suo lavoro di lavandaia.
Quando giunge il giorno del parto, Seema, aiutata dalle mani esperte di una vicina, mette al mondo, velocemente, un piccolo corpicino.
Le lacrime spuntano negli occhi di Raju: ancora una femmina nella famiglia!
«Oh Shiva,» si lamenta l’uomo, «un’altra inutile bocca da sfamare, un’altra dote da preparare per maritarla, un giorno! Che posso fare da solo? Chi mi aiuterà ad affrontare tutte le spese?»
Seema tace, stringendosi la piccolina al petto: conosce bene il destino di una donna, simile al suo, troppo povera per pensare a un futuro migliore e si avvia, con la testa china, verso la spiaggia.
Nella luce d’oro del tramonto, quando il sole si corica tra le onde rosse del mare, Seema ripensa alla sontuosa statua di Ganesh che ormai sosta serenamente tra le alghe nel fondo dell’Oceano. Il suo desiderio non è stato esaudito, Dio non ha voluto alleviare le difficoltà della loro vita, il loro karma dovrà scontare ancora tante pene prima di liberarsi nel flusso eterno al di sopra di molte esistenze.
I giorni, intanto, trascorrono uguali tra le faccende domestiche: Sudharshana, così si chiama la figlia, piange spesso e sembra che non cresca.
«Forse il mio latte non è sufficiente,» medita Seema «o forse è malata, chissà».
La notte Raju dorme inebetito dalla stanchezza e, qualche volta, dall’alcool, mentre Seema tiene la figlia vicino a sé, senza parlare. Le lacrime, del sapore del mare, scorrono sul suo viso.
Il tranquillo rumore della risacca, misto a un leggero profumo di salsedine, arriva a loro trasportato dalla brezza ma non serve a calmarla fino a quando il sonno, finalmente, non viene a rubarle i pensieri.
Gli altri bambini, intanto, riposano in un angolo e le ore e le notti si compiono così, inerti e pesanti.
Allo spuntar del giorno, Sudharshana giace sugli stracci, sempre più debole e silenziosa.
«Bisogna portarla dal medico» sentenzia la vicina «questa bambina è malata!»
Seema, due volte la settimana, lava i panni di una signora piccolo borghese alla pompa a mano dell’acqua che si trova sulla strada. Dalle sue labbra, non esce mai una parola.
Ogni tanto, getta uno sguardo al suo involtino di cenci e poi torna a concentrarsi nel lavoro, mentre i bambini del quartiere giocano chiassosi, senza le scarpe, lungo il canale delle acque nere che passa davanti alle case.
Quando, a sera, Raju torna alla baracca trova il solito piatto di riso e verdure che trangugia in fretta, assordato dai figli che fanno a gara per attirare la sua attenzione.
A momenti, lancia un’occhiata all’ultima creatura e anche lui tace: sa bene che qualcosa non va e che la piccola, forse, ha bisogno di un medico.
Poi, guarda con la coda dell’occhio la moglie, intenta a ripulire, e ancora tace.
Non c’è decisione in lui, né scelta: segue una strada prefissata da secoli e secoli nelle culture del mondo e che non prova dolore nel sacrificio di una donna.
La notte, tra le braccia della madre, che piange rassegnata, anche il flebile gemito di Sudharshana si spegne nel buio.
«Signor Ganesh,» supplica Seema «concedi a questa bambina, altrove, nella prossima incarnazione, una vita più felice».
Con un sospiro, Raju si gira dall’altra parte sul suo giaciglio di stracci.
Oggi a Bombay, la multiforme metropoli, porta dell’India, è la festa di Ganesh puja.
I fedeli hanno costruito, come ogni anno, una statua enorme di Ganesh che parte dal tempio e, seguita da una moltitudine di persone, raggiungerà il mare.
Tutti hanno indossato i loro abiti migliori e hanno comprato collane e collane di fiori da offrire agli Dei per catturare la buona sorte.
Nella direzione opposta, un piccolo gruppo di persone sta portando un fagottino fasciato in un lenzuolo bianco: vanno verso il forno dove vengono bruciati i corpi di chi non ha abbastanza denaro per preparare la catasta di legna.
Da lontano, si possono udire i canti festosi di chi si rivolge, con fiducia, a Ganesh che, pigramente, sta sprofondando nelle onde azzurre e fresche dell’Oceano.
Renata Rusca Zargar
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