CANTI DI CASTELVECCHIO
II arbusta iuvant humilesque myricae
A Caterina Alloccatelli Vincenzi – mia madre
Prefazione
E su la tomba di mia madre rimangano questi altri canti!.. Canti d’uccelli, anche questi: di pettirossi,di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di cuculi,d’assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepe, di tortori, di cincie, di verdette, di saltimpali, di rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e restano. Troppi? Facciano il nido, covino, cantino, volino, amino almeno qui, intorno a un sepolcro,poiché la crudele stupidità degli uomini li ha ormai aboliti dalle campagne non più così belle e dal sempre bel cielo d’Italia! E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D’altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c’è visione che più campeggi o sul bianco della gran neve, o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c’è suono che più si distingua dal fragor dei fiumi e ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie.
Crescano e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo, cesti o stipe) autunnali. Nei luoghi incolti fanno le stipe che fioriscono di primavera, e fanno i cesti, ancor più umili, che fioriscono d’autunno; e la loro fioritura assomiglia. Mettano queste poesie i loro rosei calicetti (che l’inverno inaridisce senza farli cadere) intorno alla memoria di mia madre, di mia madre che fu così umile, e pur così forte, sebbene al dolore non sapesse resistere se non poco più di un anno. Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, cioè, qual ch’ella sia, la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre.
Ella stava seduta sul greppo: o appoggiava la testa sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e veder soffiare i lampi di caldo all’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora! essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì.
Seguì mio padre. E qui, devo chiedere perdono, anche questa volta, di ricordare il delitto che mi provò di padre e madre e, via via, di fratelli maggiori, e d’ogni felicità e serenità della vita? No: questa volta non chiedo perdono. Io devo, (il lettore comprende) io devo fare quel che faccio. Altri uomini, rimasti impuniti e ignoti, vollero che un uomo non solo innocente, ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia morisse. E io non voglio. Non voglio che sian morti.
Se poi qualcuna di queste poesie che contengono cose non solo vere ma esatte (e il lettore comprenderà anche qui: certe cose non si inventano, anche a volere) ispirasse un più acuto ribrezzo del male, io, oh! Non me ne terrei io, ma ne benedirei la memoria de’ miei cari martiri,per i quali nessuno (nemmeno i loro assassini) soffrì, e che dalla loro fossa rendono anche oggi, per male, bene.
Castelvecchio di Barga, marzo del 1903
Ho scelto questo brano che il Poeta ha dedicato a sua madre Caterina, ma che ho voluto riprendere per dedicarlo alla mia, da poco scomparsa. Qui sotto riporto alcune strofe della sua poesia, la prima dei Canti di Castelvecchio, titolata appunto ...
LA POESIA
Io sono una lampada ch’arda
soave
La lampada, forse, che guarda,
pendendo dalla fulgida trave
la veglia che fila;
e ascolta novelle e ragioni
da bocche
celate nell’ombra, ai cantoni,
là dietro le soffici rocche
che albeggiano in fila:
ragioni, novelle, e saluti
d’amore, all’orecchio, confusi:
gli assidui bisbigli perduti
nel sibilo assiduo dei fusi;
le vecchie parole sentite
da presso con palpiti nuovi,
tra il sordo rimastico mite
dei bovi:
la lampada, forse che a cena
raduna;
che sboccia sul bianco e serena
su l’ampia tovaglia sta, luna
su prato di neve;
e arride al giocondo convito;
poi cenna,
d’un tratto, ad un piccolo dito,
là, nero tuttor della penna
che corre e che beve:
ma lascia nell’ombra, alla mensa,
la madre, nel tempo ch’esplora
la figlia più grande che pensa
guardando il mio raggio d’aurora:
rapita nell’aurea mia fiamma
non sente lo sguardo tuo vano;
già fugge, è già, povera mamma,
lontano!
La poesia prosegue per molte altre pagine…lascio a voi terminare di leggerle. Danila
Grazie, Danila, di avermi fatto leggere queste altre parole di Pascoli (o del Pascoli?, una volta si diceva così, parlando di un grande Poeta). E mi confermano nella mia idea. Sì, in mezzo a tante parole usate allora, stava cercando disperatamente un linguaggio nuovo, che, nella sua esistenza, non ha fatto in tempo a far uscire dalle catene di un italiano gretto e accattivante, ma ha lottato per farlo.L'avevo intuito. Adesso, come scrittore, ne son certa.
RispondiEliminaAngela
Grazie a te, Angela, per le tue parole. Molte poesie di Pascoli non le conoscevo, tranne quelle che mi hanno fatto studiare a scuola. Per questo mi sono procurata l'intera raccolta dei suoi versi, che ho apprezzato anche nelle varie prefazioni. E tutto grazie a "IL LIBRO" che mi hai fatto apprezzare tu stessa. Di questa poesia, lampada della sua vita, ricordavo solo il primo verso. E il ricordo di sua madre lo sento tanto vicino, in questo momento in cui ho perso la mia.
RispondiEliminaDanila
Le parole. Hanno un tale potere che riescono a agire come anestetico o come energizzante. Sono veri e propri farmaci. Se usate con la giusta premura.
EliminaAngela