A F. K.
Facile amare ciò che è morto, non più
macchiato dall'agire, restituito alla verginità, al candore dell’incompiuto, al
possibile oblio; più facile conoscere e naturalmente riconoscere qualcuno da
morto che da vivo. Vi è una corsa a precipizio, certo, verso ogni finire: e i
santi sono sempre morti, i poeti pure, i vivi soltanto sembrano paraculeggiare.
Essi presentano ancora troppa materia, la rigettano e la rincorrono
intermittentemente, insomma vi si invischiano affaccendandosi molto, mentre i
morti di materia non ne hanno più –mondati, si sono fatti mondo – e vengono
dunque serviti e riveriti con l’ossequio altrimenti indirizzato (ma non senza
un certo disprezzo) ai potenti in vita. La comunità umana è stata edificata
sulla morte e sui morti.
Tu dicevi che i peccati capitali sono due, l’impazienza e la pigrizia:
l’impazienza per la quale l’uomo è stato cacciato dal paradiso, e la pigrizia
che gli impedisce di tornarvi. A tal proposito, non è forse vero che i morti
abbiano esorcizzato alla fine tale impazienza fino a liberarsene, a librarsi
altrove tralasciando la bacchetta e il Libro di Prospero? Quanto alla loro
proverbiale pigrizia – peraltro infinita, non schiodano più dai loro anfratti –
non trovando più il suo contrario, essa svanisce.
Ma dove saranno i morti, e dove giacciono i vivi, gli estinti antichi e
recenti, mummificati o trapassati da altra biologia, quali il Prima e il Dopo,
l’Avantindietro, la reazione e l’avanguardia? Così, amico mio, cortesemente
imploravi: “Il mondo è già nostro, ed è per questo che ti pregherei di non
agitarti così. Cosa sono mai queste braccia aperte ad angelo, lateralmente,
oppure tese in avanti ad angolo retto, desiderose di nuovi sonnambulismi, cos’è
questo voltarsi indietro col capo solamente? C’è poco spazio, poca dinamica, e
noi dobbiamo avvitarci come cavatappi per andare giù, giù, giù…”
Coucou, Sèlavy!
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